Poesie inserite da Giuseppe Freda

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Scritta da: Giuseppe Freda

Elogio della follia

Io vorrei dirti
una cosa importante:
c'erano per davvero
tre uomini
ed una capra
sotto la volta
di quella
chiesa gotica,
là dove per la prima volta
mi confidasti
di essere fuggito
da un manicomio.
Là per là
non ti avevo creduto,
ma quando
insieme alla capra
ho visto e ti ho detto
che c'erano anche
tre uomini
in volo a guisa
di dirigibili
librati sotto
gli affreschi
aerostatici
del tempio del vescovo,
allora ho capito
che solo un folle
poteva non credermi.
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    Scritta da: Giuseppe Freda

    Evolution

    Il trilobite del paleolitico
    che si gloriava del suo esoscheletro
    fece amicizia col cefalopode
    che si vantava del suo tentacolo;
    finché non videro,
    giù nel Giurassico,
    un mastodontico pterosauro
    che svolazzava sicuro e libero
    sulle distese di pietra pomice.

    "Ma quello vola!"
    commentò incredulo
    quel furbacchione d'un pitecantropo,
    che s'arrangiava vendendo bubbole
    ai trogloditi del Cenozoico;
    poi d'improvviso si mise a ridere.

    Vivacchia ancora nella sua Napoli,
    vendendo "bionde", patacche e chiacchiere
    a quell'allocco dell'homo sapiens.
    Composta mercoledì 4 luglio 2012
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      Scritta da: Giuseppe Freda

      Social network

      Discorsi fumogeni
      farciti di fronzoli
      si levano e inseguono
      nell'aere di zucchero
      mielose mandragore
      dai fiori venefici;
      pensieri improbabili
      giulivi galleggiano
      in brodi di giuggiole
      scaldati al crepuscolo
      ma resi credibili
      dall'arte di porgerli.
      Saggezza in coriandoli
      di chiacchiere inutili?
      Per quello che dicono,
      per quello che valgono,
      è certo che rendono
      a chi le confabula
      neanche un minuto
      del tempo che costano;
      ma molti le ascoltano,
      e se ne compiacciono,
      e ridono e piangono,
      e ci si accapigliano.
      Composta lunedì 14 maggio 2012
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        Scritta da: Giuseppe Freda

        La bovina tragedia

        Alfin giugnemmo, per ritorta via,
        ove l'oscura insegna si dispiega
        della bolgia c'ha nom "Democrazìa".

        Lo buon Maestro disse: "Spera e priega,
        qui ronfa e russa il popolo sovrano
        con sinistro fragor di motosega.

        Sta sulla porta Giò Napolitano,
        la cui loquela induce al viaggiatore
        un sì profondo sonno da divano

        che nol risveglian più dal suo torpore
        nemmanco la divina potestate,
        la somma sapïenza e'l primo amore.

        La giù tra l'ombre triste smozzicate
        s'ode la mesta nenia del vegliardo.
        Qui si parrà la tua nobilitate!".

        Io scorsi in quel budello, al primo sguardo,
        un omicciuol da'tratti famigliari,
        ch'in bolsi motti, di cui avea un migliardo,

        cianciava di dilemmi monetari.
        Vaghe stelle de l'Orsa, non credea
        ch'alle minchiate umane foste impàri!

        Farneticava di patria europea,
        di bund, di spread, di bot e altra trastulla,
        quale il villano che del vin si bea.

        E nella notte, nera come il nulla,
        risuona la barbosa tiritera
        che il volgo rintronato addorme e culla.

        Ancor m'assonna ricordar qual era
        la solfa sul Welfàre che tutto infesta
        salmodiata con blàtera straniera.

        Già m'assopiva, come al dì di festa,
        quando il mio duca, preso un grosso maglio,
        ruppemi l'alto sonno nella testa.

        E andamm'oltre, laddove s'ode il raglio
        d'orde di teleutenti assomarate
        dal bercio dei Santori e dei Travaglio;

        e i diavoli, prendendoli a pedate,
        li fan volar per l'aere senza stelle
        quali colombe dal disìo chiamate.

        Ma quei, lividi e pesti sulla pelle
        del deretano, plaudono alla suola,
        esultano al norcin che li macelle.

        E un asino dotato di parola
        ragliava scipitezze in voce trista,
        sì che pareva un preside di scuola.

        "Caduto è alfin il giogo del fascista!
        Destati Italia, gongola e sii lieta!
        Or c'è al governo un grande economista!".

        Mi mosse il suo delirio a tanta pièta
        che lo storpiai di calci né coglioni
        con la licenza del dolce poeta.

        Tale è la teologia di que'montoni,
        la cui "Democrazìa", c'han sempre in bocca,
        rinuncia volontieri all'elezioni.

        Additommi il Maestro un'alta rocca
        merlata, che maligna nel colore
        muta s'ergea sovra la mandria sciocca.

        Stavvi in cima l'eurocrate pastore,
        e reca al suo bestiame le nerbate
        ch'al cor gentil rempaira sempre amore.

        Lì ci appressammo, con larghe falcate,
        onde mirar da presso l'abituro
        da cui le genti vengon tartassate.

        V'era d'intorno un fosso fondo e scuro,
        pien di marmaglia dal color marrone,
        per ch'io: "Maestro, il fetor lor m'è duro".

        "Qui vedi gli empi autor del ribaltone",
        disse lo duca, "i sommi traditori,
        mutati in sterco assieme a Berluscone.

        Putono in questa pozza i suoi rettori,
        i ministri, i lacché, il portaborsame,
        le donne, i cavalier, l'arme, gli amori".

        Ahi serva Italia, putrido reame!
        Non donna di province, non bordello,
        ma biologica fossa di letame!

        Langueva in quel fossato di castello
        l'intiera alta genìa parlamentare,
        destra, sinistra, centro, questo e quello.

        Io chiesi: "Chi è la fetida comare
        che sì piangente come donzelletta
        tanto gentile e tanto onesta pare?"

        Rispuose'l duca a me: "Quella è Brunetta,
        che perse il posto; ma il suo piagnisteo
        è nulla a petto a quel di Gianni Letta.

        Il quale adesso ha fama di babbeo,
        d'uom che sì saggio era stimato prima,
        ché a suo danno del golpe fu correo".

        "O anime fetenti", io chiesi in rima,
        "dite qual colpa, pria che'l senno io perda,
        in forma d'escrementi vi concima?"

        Rispuosero: "Noi siamo la malerba
        che vi asservì all'atlantica baldracca.
        Uomini fummo ed or siam fatti merda".

        Ed un di lor, col lembo della giacca,
        s'asciugava dal naso i goccioloni.
        Piangeva, e le sue lagrime eran cacca.

        Io riconobbi in lui Bobo Maroni
        rettor del dicastero di giustizia
        che i popoli padani fè terroni;

        riscatto prometteva e diè tristizia
        d'Umberto la codarda celta prole,
        prostrandosi all'allogena milizia.

        Olea il suo pianto non proprio di viole,
        così volgemmo il guardo alla nimica
        rocca, sovra la qual mai approda il sole.

        Ci arrampicammo dunque, a gran fatica,
        verso l'uom che l'afflitto regno regge
        d'in su la vetta della torre antica.

        O Musa, or l'intelletto mi sorregge
        vacillante, acciocch'io qui racconti
        quel ch'agghiacciare può ciascun che legge!

        E perché i miei lettori sieno pronti
        all'orror che tremando metto in metro
        dirò che in cima io vidi Mario Monti.

        Io m'attendeva invero un antro tetro,
        di stalattiti ticchettanti gocce,
        e rospi e pipistrelli sottovetro;

        ma s'io avessi le rime aspre e chiocce
        discriver non potrei quell'uom dimesso
        qual pensionato al circolo di bocce.

        Ei sorrideva d'un sorriso fesso,
        d'un ghigno lento, come alla moviola,
        qual è in banca il brio finto del commesso

        ch'ognor rifila obbligazioni-sòla;
        e pure, i correntisti son felici
        di lasciar vino e prender Coca-Cola.

        Ei prometteva cruenti sacrifici
        quale un sovrano azteco o un lucumone,
        ed i sacrificandi eran suoi amici

        e ripeteano in coro: "Bè, ha ragione".
        S'io potessi ritrar come assonnaro
        li occhi della miserrima legione

        di moralisti, cui sognar fu caro,
        dianzi al caudillo di cui ho detto sovra,
        voi vedreste, oltr'al pupo, anche il puparo,

        l'empio poter che i popoli manovra.
        Io lo vidi, in quel Duce per procura:
        era il Zucconi ch'esce come piovra

        a rimbambir gl'intenti alla lettura,
        era l'Amaca squallida di Serra
        su cui sonnecchia e langue la cultura,

        era l'editoriale terra terra
        di Feltri, fermo all'era di Togliatti,
        era di Gad Lernèr l'urlo di guerra

        ch'i teleutenti rende mentecatti;
        era il tabloid con Raf nel paginone
        e all'interno un'analisi sui fatti

        di Libia, con annessa l'opinione
        di Maria De Filippi immacolata;
        tutto il pattume dell'informazione

        ch'allo stranier la strada ha già spianata;
        e tutt'intorno un brulicar di vermi
        che sanità di mente han divorata,

        un demente brillìo di maxischermi
        da cui scorrono cruente le parole:
        "Vexilla regis prodeunt infermi".

        E acclamano gl'infermi a mille gole
        il rege finanziario che s'insedia,
        acquetati da penne tristanzuole

        che da "sviluppo" pingono l'inedia.
        Così trascorre il loro più bel giorno.
        Poi il triste vespro chiude la Commedia.
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          Scritta da: Giuseppe Freda

          L'amore che voglio

          L'amore che voglio
          è una fantasia viva
          che riesca a vedere
          senza bende sugli occhi.

          La fantasia che cerco
          è un sorriso di sole
          che non si spenga
          quando intorno c'è il buio.

          Il sorriso che amo
          è una sciarpa azzurra
          calda intorno al cuore
          nelle sere d'inverno;

          una spina di luce
          da portare nel petto
          gridando di gioia.
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            Scritta da: Giuseppe Freda

            Eppùre

            Scrigni deserti.
            Violati, inerti.
            Fuochi già spenti.
            Delusi, vinti.
            Tempi svelati.
            Vissuti, andati.
            Voli distesi.
            Dolenti, arresi.
            Eppùre palpita
            d'argento il mare.
            Eppùre ardono
            stelle sicure.
            Eppùre ancora
            di nuovo amore
            ridono bocche innocenti, ignare.
            Eppùre ancora
            dentro il dolore
            fremono ali potenti, oscure.
            Composta domenica 29 maggio 2011
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