Io parto dalle catene e dalla caviglia stretta a un piede del tavolo, quando la finestra è aperta e vedo precipitare dentro sole e profumo d'aria. Viaggio sulla scatola magica, lungo tutta la lunghezza dei capelli, e i polmoni sono anneriti dal fumo di sigarette inghiottite intere e ancora accese per vedere se dentro qualcosa brucia e se mi dico di sputare fuori ciò che soffoca in nome d'un respiro ampio che mi faccia i cerchi sopra la testa, come orbite di pianeti da saltarci su ad ogni costellazione che mi fa luce durante i balzi, in andirivieni emotivo, ché se qualcuno è coraggioso e ci sale a bordo sulla mia navicella poi scende col mal di mare; è lì che la libertà di pensare mi è vertigine, si srotola lungo i cordoni della paura di volare, standosene a fare il manutentore d'ali spennacchiate lisciando le piume e lanciando il volo, preparando lo slancio e mettendo in conto lo schianto. Ho inserito il pilota automatico sulla libertà, sull'emotività, sulla siccità, sul così è che va e vado anch'io, un po' per questo, un po' per quello con gli scioglilingua a portata di mano, con gli adagi popolari che mi fanno saggezza e con un cofano di cose sentite dire su di me che tutti sanno fuorché io.
Mi scoppia l'idea d'una libertà riparatrice come fosse un kamikaze che poco lascia in vita di ciò che mi circonda per radere al suolo tutte le campane di vetro, dimenticando che dentro ci sto io.
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