Seduto sul greto di questo fiume torto che scorre anonimo e perso, sono solo, senza i miei amati denti da latte attorno, unico senso, ingombrante aspettativa; e l'eco non giunge di temerarie madri, né il silenzio di fedeli compagne.
Sono solo come un cactus e da questo rigo d'acqua piango la sorte di sponde separate.
Verità vecchie e nuove, come pesci, tra le mani mi scivolano, filando, non le ripescherò più.
Fiume dannato!
Questo incessante andare, moto castrante ti vorrei gelare, tanto da unire questo mio margine: ingannevole solidità tra di noi.
Natura spoglia perché non mi doni il volto noto?
Una bigia prende il volo tremato momento.
Sono solo e certo su questo greto che l'alveo temuto non tenterai intraprendere per giungermi accanto.
Cosa sono se non il testimone di una inane abulia che riduce, assecondata, le forze, alitando sui tizzoni che nel braciere cullano il dono fumante del calore che annebbia il ricordo di te restituendo audace l'accosto lì, ove sentinelle silenti, di grigio rivestite, altro non riposano che indossate vesti e certo, non scoraggiano, nella loro fissità il leggero muoversi della foglia decidua affidata all'aria.
Tempo imprecisato fino all'atteso contatto: adagiarsi sopra un morbido ciuffo d'erba umida.
Trovare nel suo paziente abbraccio: cura. Nel suo essere prossima altra ragione che l'accoglienza.
Sperimentare in quel preciso istante la modestia del rumore del mare contenuto nella conchiglia.
Un semplice, naturale, leggero, incontro. Incapace di purificare le acque. Ma capace…di raggiungere la profondità. Come un masso consegnato al mare.
In questa gelida attesa di ogni minuto, come un fiocco di neve che presto tutto copre, avverto il tocco. Sedotto, dal suo floscio manto trascorro lembi di mattina, tra un fascio di case, una via a sinistra storta, e poc'altro ancora.
Come allora, considerare, coloro col sorriso disinvolto ed il vangelo nella tasca, poveri di rimorso, ti consegnano al rogo dell'infamia e del discredito.
Diffida di quel buonismo da sorelle, tutte innamorate del prete, come segnalibro hanno la lama della loro lingua.
I veri buoni sono quelli che pagano!
Quelli che restano soli.
Quelli con le pezze al culo.
Quelli che la sera, ormai senza neanche una parola asciutti e provati come un albero potato, raccolte le poche cose, nel presagio che è il loro letto, hanno la stessa dignità di Dio.
Distinguo il corpo ignudo, carponi su un'asparagiaia, venirmi incontro a celare il viso gli scandalizzati capelli che nulla possono quando la lingua si erge come un aspide a lambire velenosa la punta del naso.
La bocca, ghiacciaio in fiamme non trattiene lo sciogliersi profumato sull'esile mento; ormai gonfio come un lombrico indietreggio a sostenermi un pioppo, socchiudo gli occhi un istante, respiro profondo dissolta è l'asparagiaia.
Smarrito e affranto mi muovo tastoni verso l'epicentro del desiderio e unica sottile vestigia: uno scuro ondulato capello.
Era mattina (almeno credo) ti ho sentito andare via svanire, effigia coltivata dalla fantasia e dal desiderio (mio unico arredo) di ancora una notte d'amore.
Adesso, le aspettative erano scambiate: Lui… come un bimbo impaurito… attende la seggiola minuta ed insolente, non tiene conto dell'intatta mole, le lacrime, precoci scivolano ignare tra le crepe del tempo.
Lui… adesso… è chino… chino e mite come non lo avevo mai scoperto interrogano, del suo andato, circostanze.
Singolare destino, mi balenano del nemico mentre lui… candido… continua a sciogliersi.
Dovessero, animo contrito, giudicarti adesso chi di te fiuterebbe l'uomo incomprensibile che non sapeva amare, l'uomo che nel dissipare esibiva vocazione e per non perderla di vista, la sofferenza la andava suonando porta a porta.
Adesso sei lì, ad un passo, inerte come un bonzo e io qui, indissolubilmente intrappolati, inumata rete di dolore tessuta da fendere, urlando, esausti: esisto, reagisco, sopravvivo, palpito.
…Lui… adesso… è un uomo malato devo aiutarlo, devo amarlo.