Bel fiume! Nel tuo limpido flutto di lucido cristallo, acqua errabonda, tu sei emblema d'una fulgente beltà - cuore non disvelato - piacevole intrico dell'arte nella figlia del vecchio Alberto;
ma quando la tua onda ella contempla - che scintilla allora e tremola, oh, allora il più leggiadro rivo si fa simile a colui che l'adora: ché nel cuore di lui, come nel tuo scorrere, l'immagine di colei è radicata: in quel cuore che tremola al raggio di occhi che cercano l'anima.
Romanza, che ami annuire e cantare col capo assonnato e le ali ripiegate, tra verdi fronde, quali agita nel suo fondo un ombroso lago, fu per me un variopinto pappagallo - oh, a me familiare uccello - che m'apprese a dir l'alfabeto e a balbettare le prime parole, quando nel bosco selvaggio io giacevo, fanciullo - dall'occhio sagace.
Ma da un pezzo, del Condor gli eterni anni così scuotono il cielo stesso là in alto, con tumulto di tuoni mentre passano, che non ho io più tempo per oziose cure, mentre spio l'inquieto cielo. E quando un'ora con più lievi ali getta su di me le sue morbide piume, dissipar quel breve tempo con lira e rime (vietate cose! ) - delittuoso parrebbe al mio cuore: a meno che con le corde non vibri anch'esso.
Con il suo gaio cimitero un ardito cavaliere, sotto il sole e in fitta ombra, già da tempo andava errando - e cantava una canzone - ricercando l' Eldorado.
Ma diventò vecchio intanto - questo prode cavaliere - e gli calò sul cuore un'ombra, che' non trovava mai terra o luogo somigliante all'Eldorado.
E quando le forze l'abbandonarono infine, incontrò un'ombra pellegrina - "Ombra", egli chiese, "dove mai si troverà questa terra d'Eldorado?"
"Oltre ai Monti della Luna, giù nella Valle delle Tenebre, cavalca, cavalca intrepido", così l'ombra gli rispose - "se vai in cerca d'Eldorado!"
Ti vidi una volta, una sola volta –anni fa: non voglio dir quanti – non molti, tuttavia. Era notte, di Luglio; e dalla grande luna piena che, come la tua anima, ricercava, elevandosi, un suo erto sentiero per l'arco del cielo, piovve un serico argenteo velo di luce, con sé recando requie, grave afa e sopore, sui sollevati visi d'almeno mille rose che s'affollavano in un incantato giardino, che nessun vento – se non in punta di piedi – osava agitare. E cadde su quei visi di rose levati al cielo, che in cambio restituirono, per l'amorosa luce, le loro anime stesse odorose, in estatica morte. Cadde su quei visi di rose levati al cielo, che sorridendo morirono, in quel chiuso giardino, da te incantati, da quella poesia che tu eri. In bianca veste, sopra una sponda di viole, ti vidi reclina, mentre che quella luce lunare cadeva sui visi sollevati delle rose, e sul tuo, sul tuo viso –ahimé, dolente! Non fu il Destino che, in quella notte di Luglio, non fu forse il Destino ( e Dolore è l'altro suo nome) che m'arrestò, davanti a quel giardino, a respirar l'incenso di quelle rose addormentate? Non un passo nel silenzio: dormiva l'odiato mondo, tranne io e te. M'arrestai, guardai e ogni cosa in un attimo disparve (Oh, ricorda ch'era un magico giardino! ) Si spense il perlaceo lume della luna: non più vidi sponde muscose, tortuosi sentieri, i lieti fiori e gli alberi gementi; e moriva quel profumo stesso delle rose tra le braccia dell'aria innamorata. Tutto svaniva fuor che tu sola – una parte anzi di te: fuor che quella divina luce nei tuoi occhi- fuor che la tua anima nei tuoi occhi alzati al cielo. Quelli io vedevo e non altro – l'intero mondo per me. Quelli io vedevo e non altro – e così per molte ore- quelli solo io vedevo – finché la luna non tramontò. Quali selvagge storie del cuore erano inscritte in quelle celestiali sfere di cristallo! Quale fosco dolore! E sublime speranza! Quale tacito e pacato mare d'orgoglio! Quale audace ambizione! E che profonda- insondabile capacità d'amore! Ma disparve infine Diana alla mia vista, velata in un giaciglio di scure nuvole a ponente; e tu – uno spettro – tra i sepolcrali alberi ti dileguasti. Solo i tuoi occhi rimasero. Essi non vollero andar via – mai più disparvero. Quella notte illuminando il mio solingo cammino, non più mi lasciarono (come invece, ahimé, le speranze! ). Ovunque mi seguono, mi guidano negli anni. Sono i miei ministri – ma io il loro schiavo. Loro compito è d'illuminarmi, d'infiammarmi, e mio dovere è d'esser salvato da quella luce, in quel loro elettrico fuoco purificato, in quel loro elisio fuoco santificato. Mi colmano l'anima di beltà, di speranza – su nel cielo – le stelle a cui mi prostro nelle tristi, mute veglie delle mie notti; e nel meridiano splendore el giorno ancora io le vedo – due fulgenti e dolci Veneri, che il sole non può oscurare.
Or son molti e molti anni che in un regno in riva al mare viveva una fanciulla che col nome chiamerete di Annabel Lee: e viveva questa fanciulla con non altro pensiero che d'amarmi e d'essere amata da me. Io ero un bimbo e lei una bimba, in questo regno in riva al mare; ma ci amavamo d'un amore ch'era più che amore- io e la mia Annabel Lee – d'un amore che gli alati serafini in cielo invidiavano a lei ed a me. E fu per questo che –oh, molto tempo fa- in questo regno in riva al mare un vento soffiò da una nube, raggelando la mia bella Annabel Lee; così che vennero i suoi nobili parenti e la portarono da me lontano per rinchiuderla in un sepolcro in questo regno in riva al mare. Gli angeli, non così felici in cielo come noi, a lei e a me portarono invidia – oh sì! E fu per questo ( e tutti ben lo sanno in questo regno in riva al mare) che quel vento irruppe una notte dalla nube raggelando e uccidendo la mia bella Annabel Lee. Ma molto era più forte il nostro amore che l'amor d'altri di noi più grandi- che l'amor d'altri di noi più savi- e né gli angeli lassù nel cielo né i demoni dentro il profondo mare mai potran separare la mia anima dall'anima della bella Annabel Lee: - giacché mai raggia la luna che non mi porti sogni della bella Annabel Lee; e mai stella si leva ch'io non senta i fulgenti occhi della bella Annabel Lee: - e così, nelle notti, al fianco io giaccio del mio amore – mio amore – mia vita e mia sposa, nel suo sepolcro lì in riva al mare, nella sua tomba in riva al risonante mare.
Al mattino, al meriggio, al fosco crepuscolo - tu hai udito il mio inno, Maria! In affanno e letizia - nel bene e nel male - tu, madre di Dio, ancora rimani con me! Quando più liete per me scorrevan le Ore, e non una nuvola oscurava il mio cielo, la tua grazia trepida guidava a te l'anima mia perché non si smarrisse; e ora che il Destino per me più addensa le sue tempeste e in me confonde presente e passato, fa' che almeno risplenda il futuro e per me irraggi dolce speranza di te!
O bella isola, che dal più bel fiore prendi il tuo nome, fra tutti il più gentile! Quante memorie di raggianti ore da te si ridestano al tuo solo apparire! E parvenze di quale perduta felicità! E pensieri di quali speranze sepolte! E visioni di una fanciulla, sui tuoi verdi pendii, che non è più, che non è più! Non più! Ahimè, quel magico e triste suono che tutto trasmuta! Non più loderò i tuoi incanti, non più il ricordo di te! Un esecrato suolo d'ora in avanti riterrò il tuo lido fiorito, o isola giacintea! O purpurea Zante! Isola d'oro! Fior di Levante!
Elena, la tua bellezza è per me come quei navigli nicei d'un tempo che, mollemente, sull'odorato mare riportavano il pellegrino stanco d'errare alla sua sponda natia.
Da tempo avezzo a disperati mari, la tua chioma di giacinto, il tuo classico volto, la tua grazia di Naiade riportano me anche in patria, a quella gloria che fu la Grecia, a quella maestà che fu Roma.
Là, nel rilucente vano della finestra, come statua eretta io ti vedo, con in mano la tua lampada d'agata! Ah, Psyche, qui venuta dalle regioni che son Terra Santa.
Elizabet - a me par giusto sommamente (logica e comun senso così ordinando) che nel tuo libro per primo si scriva il tuo nome, checché ne pensino Zenone ed altri saggi; ed io ho poi altri motivi per così fare, oltre al mio innato gusto per la contraddizione: ciascun poeta - se poeta - nel suo tener dietro alle vaganti Muse, per i recessi del Vero e del Finto, ha ben poco studiato la sua parte, letto quasi nulla, scritto ancora meno - è, in breve, uno sciocco senz'anima, senza sensi e senza l'arte, se mostra di ignorare una norma così importante, perfino adoperata nei compiti scolastici - che si chiama - il nome greco non ricordo (ma quale sia, il senso suo non muta): Sempre scriver prima quel che nel cuore hai più in alto.