O mia amata, fra i dolenti affanni così folti sul mio terrestre sentiero - triste, ahimè! - dove mai non cresce un fiore, mai alcuna rosa solitaria - trova sollievi almeno l'anima mia in molti sogni di te: e conosce allora un Eden di blando riposo.
Così, dal ricordo di te si distilla in me un'isola d'incanto, lontana, in mezzo a un tumultuante mare - fremente oceano e immenso, esposto ad ogni tempesta - nel mentre che, intanto, i più sereni cieli, continuamente, solo sorridono su quell'isola fulgente.
Eri per me quel tutto, amore, per cui si struggeva la mia anima - una verde isola nel mare, amore, una fonte limpida, un'ara di magici frutti e fiori adornata: e tutti erano miei quei fiori.
Ah, sogno splendido e breve! Stellata speranza, appena apparsa e subito sopraffatta! Una voce del Futuro mi grida "Avanti, avanti! " - ma è sul Passato (oscuro gugite! ) che la mia anima aleggia tacita, immobile, sgomenta! Perché mai più, oh, mai più per me risplenderà quella luce di Vita! Mai più - mai più - mai più - (è quel che il mare ripete alle sabbie del lido) - mai più rifiorirà un albero percosso dal fulmine, nè potrà più elevarsi un'aquila ferita.
Vivo, trasognato, giorni estatici, e tutte le mie notturne visioni mi riportano ai tuoi grigi occhi di luce, a là dove tu stessa ti porti e risplendi, oh, in quali eteree danze, lungo rivi che scorrono perenni.
Vorresti essere amata? E tu fa' che il tuo cuore non si discosti dal sentiero di ora! Essendo ogni cosa che ora tu sei, non esser mai altro che non sei. Così i tuoi cortesi modi di vita, la tua grazia, la tua più che bellezza saranno un tema d'elogio senza fine, e l'amore - non altro che un puro dovere.
È scritta questa rima per colei i cui occhi lucenti ed espressivi come i gemelli di Leda, troveranno il suo stesso dolce nome annidato sulla pagina, celato ad ogni lettore. Osservate i versi attentamente! Vi è in essi un tesoro divino - un talismano - un amuleto - che si deve portare sul cuore. Osservate poi il metro - le parole - le sillabe! Nulla si tralasci, o sarà vana la fatica! E non v'è, nondimeno, nessun nodo gordiano che senza una spada non potreste disciogliere, se solo n'afferraste il soggetto. Tracciate sul foglio, scrutate da occhi in cui l'anima balena, s'ascondono, perdute, tre parole eloquenti, spesso dette e spesso udite da un poeta a un poeta - e d'un poeta è anche il nome. Le sue lettere, benché ingannino, ovviamente, come il Cavalier Pinto - Mendez Ferdinando - sono, invece, sinonimo del Vero. - Ora basta! Pur facendo del vostro meglio, non sciogliereste l'indovinello.
"Di rado troviamo", dice Salomone Allocco, "una mezza idea nel più profondo sonetto. Attraverso i suoi sottili espedienti scorgiamo agevolmente, come in un berretto di Napoli - ciarpame! Robaccia! - come può portarlo una signora? E più pesa, però, della vostra stoffa petrarchesca - piumate assordità che un lieve soffio disperde e ammucchia in cartaccie sol che l'esaminiate". E Salomome ha invero ragione. I soliti versi tuchermaniani sono bubbole notorie - effimere e così trasparenti - ma questa mia, ora - potete esserne certa - è solida, nitida, immortale - e tutto questo a causa dei cari nomi che vi sono celati.
Un tempo sorrideva silenziosa una piccola valle dove nessuno più abitava: la gente era partita per le guerre, affidando ai miti occhi delle stelle, a notte, dalle alte torri azzurre, la custodia di quei fiori, sopra i quali, per tutto il giorno, pigramente indugiava la rossa luce del sole. Ora invece al viandante che di lì passasse si mostrerebbe il tristo stato di quella valle. Nulla è ora lì che stia senza un moto: nulla, tranne l'aria che immobile sovrasta su quella magica solitudine. Oh, non un soffio più sommuove quelle fronde, che ora palpitano come gelide onde d'intorno alle nebbiose, lontane Ebridi! Oh, non un vento sospinge quelle nuvole, che con gravezza si spostano nel cielo inquieto, dal chiaro mattino fino a sera, sui fitti campi delle viole non colte - miriadi d'occhi umani d'ogni foggia - e sui gigli che ondeggiano e gemono sopra una tomba che non ha nome! Ondeggiano: dalle cime profumate rugiade cadono in gocciole immortali. Gemono: dagli steli delicati discendono gemme d'eterne lacrime.
Il giorno più felice Il giorno più felice - l'ora più felice questo mio inaridito cuore ha già conosciuto; ogni più alta speranza di trionfo e d'orgoglio sento ch'è fuggita via.
Trionfo? Oh sì, così fantasticavo; ma da gran tempo svanirono ormai le visione di quel mio giovanile tempo - e sia pur così.
E quanto a te, orgoglio, che dirti? Erediti pure un'altra fonte quel veleno che approntasti per me - Ora acquietati, o mio spirito.
Il giorno più felice - l'ora più felice - che quest'occhi avrebbero visto - hanno già visto, il rifulgente sguardo di trionfo e d'orgoglio sento che è spento ormai.
Ma mi fosse pur riofferta quella speranza di trionfo e d'orgoglio, e con la pena che allora avvertivo - quella fulgente ora io non vorrei riviverla:
giacché oscure scorie erano su quelle ali e, al loro agitarsi, una maligna essenza ne pioveva - fatale per un'anima che già l'ha conosciuta.
Fanciullo, io già non ero come gli altri erano, né vedevo come gli altri vedevano. Mai derivai da una comune fonte le mie passioni - né mai, da quella stessa, i miei aspri affanni. Né il tripudio al mio cuore io ridestavo in accordo con altri. Tutto quello che amai, io l'amai da solo. Allora - in quell'età - nell'alba d'una procellosa vita - fu derivato da ogni più oscuro abisso di bene e male il mistero che ancora m'avvince - dai torrenti e dalle sorgenti - dalla rossa roccia dei monti - dal sole che d'intorno mi ruotava nelle sue dorate tinte autunnali - dal celeste baleno che daccano mi guizzava - dal tuono e dalla tempesta - e dalla nuvola che forma assumeva (mentre era azzurro tutto l'altro cielo) d'un demone alla mia vista -.
Ti vidi nel tuo giorno nuziale e t'invase una vampata di rossore, quantunque felicità ti brillasse d'intorno e il mondo fosse tutto amore innanzi a te.
E il baleno che s'accese nei tuoi occhi (quale ch'esso fosse per me), fu quando alla Beltà di più conforme potesse svelarsi alla mia vista dolente.
Fu quel rossore, credo, pudore di fanciulla - e ben si comprende che così fosse. Ma un più fiero incendio quel baleno sollevò - ahimè! - nel petto di colui
che ti vide nel tuo giorno nuziale, allorché ti sorprese quell'acceso rossore, quantunque felicità ti brillasse d'intorno e il mondo fosse tutto amore innanzi a te.
La stella della sera L'estate era al suo meriggio, e la notte al suo colmo; e ogni stella, nella sua propria orbita, brillava pallida, pur nella luce della luna, che più lucente e più fredda, dominava tra gli schiavi pianeti, nei cieli signora assoluta - e, col suo raggio, sulle onde. Per un poco io fissai il suo freddo sorriso; oh, troppo freddo - troppo freddo per me! Passò, come un sudario, una nuvola lanugiosa, e io allora mi volsi a te orgogliosa stella della sera, alla tua remota fiamma, più caro avendo il tuo raggio; giacché più mi allieta l'orgogliosa parte che in cielo svolgi a notte, e di più io ammiro il tuo fuoco distante che non quella fredda, consueta luce.