Amore mio, mio lontanissimo e disperatissimo Amore, che mi hai relegato in quest'isola di smarrimento, dove la notte sono mille notti e la tua assenza mille assenze, dove il vento soffia tra gli alberi il tuo nome come un canto di sirena e vago selvatica come una lupa senza mai cibo, senza mai pace, questo è l'inferno che non ti piace, il purgatorio della mia colpa d'amore. Sono un'anima in pena che la morte ha colto il giorno in cui la musica mi portò via il tuo sguardo e la luna distese sul mio cadavere il silenzio di una voce più nuova. Risusciterò, quando al cospetto di Dio, quest'amore, maledettamente negato, spiegherà per ogni dove nell'universo un gioiosissimo peana e ritrovando i tuoi occhi di brace nel cuore di Dio, egualmente intensi, egualmente puri come pietre fluviali o terra, chinerò la mia bocca irrorata di nuovo sangue verso di essi a cercare dolcemente il bacio che tu, allora, Amore mio, non saprai negarmi.
Pastorello, amore del gregge, fiore dei campi, non piangere più. La tua pecora nera l'hai persa e non tornerà più. Le cicale non cantano e il fico è amaro sopra la testa. La melodia dl flauto è letale più della spada. La tua pecora nera l'hai persa e non tornerà più. Le tue lacrime non rompono i sassi, scorrono come rugiada sulla terra, i tuoi canti sono bocci di rosa che si schiudono nella notte. La città non ti fa giustizia, le porte del tuo bene sono serrate come gli occhi della morte. Ghirlande di melograno, corone di speranza, vana lusinga. Le dolci lune sono già dimenticate e la brezza di mare accarezza più teneri fiori. La tua pecora nera l'hai persa e non tornerà più. E se la gelosia brucia nel cuore come l'estate e assidera le ossa come il più gelido inverno, ferma lo sguardo al tepore del firmamento. Pastorello, amore del gregge, fiore di campo, non piangere più. La tua pecora nera è lontana e non ritornerà più.
Il giorno mi sorprende ancora sullo stesso cammino, in cui sei dappertutto e ad ogni passo. Quale altro cammino potrei percorrere? E anche se la resina congela dai tronchi e molta neve è caduta sugli alberi, io mi avvolgo nel tuo mantello di ricordi e non ho più freddo. Mi stringo al tuo piumato petto di colomba, e nel cavo delle tue ali, imploro il tuo respiro che è un'incomprensibile araldica in vapore di pioggia. Così resto un tempo che toglie via tempo al tempo, con le mammelle turgide di latte e un bimbo sulla pancia che succhia avidamente tutta la mia carne. Ma, da lontano, il mare d'inverno che s'infrange contro la scogliera, reclama il sacrificio di una vittima innocente a sciogliere la Pace, dentro un abbraccio d'irrevocabile oblio.
Non voglio mai più che il tuo nome mi affiori alle labbra. Non voglio più masticare aria gelida tra i denti. Per molte albe piene di speranza, ho costruito sulla sabbia una piccola casa intrecciando ghirlande di canti, ho raccolto conchiglie, ne ho fatto sentiero per il tuo passo di luce. Poi il cielo, diventato grigio, ha soffiato i suoi venti di tempesta e la furia del mare ha disperso ogni cosa. La sciabola del fulmine ha mozzato la mia testa e pur sballottata dalle onde e sporcata dalle alghe, lo spirito che informa la terra gonfia la lingua in una vela di canto per il pianto di tutte le stelle della notte. Non voglio mai più che il tuo nome mi affiori alle labbra come una delicata ninfea a pelo d'acqua. Non voglio che nessuna libellula ti porti mai sulle ali a comprendere, in un tremito improvviso, il purissimo mistero della lacrima ardente di un uomo innamorato.
Questo telefono è uno strumento maledetto. Perché, ben più delle autostrade, ben più delle lunghe file impazienti di macchine in coda, ben più dei promontori e del mare che vi si distende, come un braccio teso a separarci, questo strumento senza voce, mi dice ogni giorno l'incolmabile distanza fra te e me. Per questo ogni giorno lo tengo penosamente a distanza, come un'arma, perché ogni giorno mi colpisce al cuore. Eppure basterebbe un secondo, nell'incolmabile, e il tuo nome non frastornerebbe più ed io non dovrei filare questa bava di pianto attorno al corpo, questo sudario di parole senza senso, se non ti arrivano, né sognare di non avere scarpe per raggiungerti. Ma la mia codardia è pari soltanto alla tua paura di amare. Così siamo vigliacchi entrambi e, per questo, decisamente troppo fragili, come la creta. *** Tesso la tua immagine nella trama dei sogni quando scendi sui miei occhi e li bendi con una mano come la notte, di notte, quando la solitudine mi si corica di fianco e, proprio allora, mi sussurra in un orecchio il tuo respiro di coniglio, ruvida emanazione di un suono distillato di inquietudine insonne e di pianto, dolcissimo siero di amore affranto. Allora, oh amore, l'Amore, che non si può celare, splende sulle nostre distanze come il sole di mezzogiorno e mai siamo così, meravigliosamente vicini, così, inspiegabilmente, consapevoli, così demonicamente forti, da spezzare le ossa alle parole. E rimane il senso. E ci basta, il senso. E ci basta, questa ubriachezza di follia, che rende liberi, che ci rende amanti fino all'alba, quando sciogli la tua mano dai miei occhi e mi fai cieca al giorno, e come un falco richiamato dalla Ragione, torni a posarti sul suo guanto, per lasciarti bendare da uno stretto laccio sul cuore.
Ho pianto tutte le lacrime in una valle di vetri di bottiglia. E luccicavano, brina in una mattina di fine estate, quando l'azzurro è chiaro e il sole scivola sugli occhi come una morbida rosa, cristallo della terra, lacrima del vetro. Maledetti amori di poeti, gettati in discariche come rifiuti putrefatti, a morire, duri, come fusti di ginestre. Maledetti amori di poeti, covati nel buio di anime affannate, emarginate, amori urlati come frenate di treni dove l'oleandro scoppia nell'ardore dell'estate. Rosso fiore di oleandro... Maledetta carne di poeta, materia informe, che begli occhi scolpirono con scalpello di memorie indelebili. Scultore crudele, possa una rosa bianca sbocciarti nella gola, vindice dei tuoi begli occhi traditori, così le tue mani canterebbero! Ho pianto tutte le lacrime nella crepa d'amore di un piccolo letto d'albergo, che pure era nel paradiso, attendendo il sonno che si attardava sul profilo delle tue forme assenti. Vuoto vasto, come lo spazio, infinito. Vertigine del vuoto, dove neanche una parola salva dalla caduta, se manca il caldo petto di madre su cui posare l'orecchio nel quieto ascolto del battito consolatore. Solo, dalla lunga via in basso, ogni tanto saliva il fragore di uno zoccolo pesante che andava e riandava la via. Un turista si ritrovava, perdendosi tra i palazzi densi di vita nella città di notte. Un vecchio cavallo bendato lo trasportava. E ti portava, la mia preghiera ardente. E mi portava, la tua dolce campana silente.
Spesso mi sono rifiutata di guardare la luna, benché sapessi, che ti avvolgeva tra le braccia, benché desiderassi, il suo riverbero sulla faccia come l'acqua per l'assenzio nei miei occhi. Temevo che mi chiedesse: "Perché, sei più pallida di me?" Ma la luna, che tutto vede, è vereconda, e niente mai chiede. In silenzio, mi guidava lungo la riva del mare, perché potessi confidare all'onda l'amaro sapore della solitudine profonda. Mi faceva camminare scalza sulla battigia e illuminava una conchiglia grigia che sbocciava da un solco di sponda, levigata come un giovane viso, marino narciso. Mi diceva: "Per te, il fiore del mare. Non avere paura di ascoltare." Soffi di bufera, spume infrante contro la scogliera, profumi di brezze, sogni di isole lontane. Musica dolce e feroce. Era la tua voce.
Un giorno, chissà dove e chissà, in quali circostanze, magari vedendoti soltanto passare, una vecchia esclamò: "Che begli occhi, che hai." Vedi, l'esperienza ha un senso. Ma, quella vecchia, non era solo una donna vecchia. Vedi, a volte gli dei si mascherano da mortali, e parlano con voce umana a coloro che sono degni. Sotto le vesti di quella vecchia donna accorta, batteva il cuore eterno di Demetra. E tu, malaccorto amore, chissà, se anche allora, davi pietre di silenzio, o petali di parole. Perché la verità dei tuoi splendidi occhi è legge, persino fra gli dei. I tuoi occhi sono grandi solchi dove scorrono perenni, calde sorgenti sotterranee. In un tramonto di gola e di lussuria, Bacco errabondo strinse Demetra in un abbraccio. E vi piantò una vite. Tanto valse il tuo vigneto: un lunghissimo bacio ubriaco di mosto. La stagione dell'uva, dai tralci alla tua bocca, pende grappoli di stelle, per la tua fame di firmamenti, macerati succhi, per le eclissi delle tue memorie. Ingenua ebbrezza, di passi danzati, in spazi traslati, ai margini del crollo. Ingenua ebbrezza, di canti spiegati, in spazi traslati, oltre i limiti dell'accordo. Tenerissima ebbrezza, di sguardi mozzati, da sguardi affilati, come fulgide spade di pampini.