Scrittore, poeta, giornalista, traduttore e critico musicale, nato lunedì 12 ottobre 1896 a Genova (Italia), morto sabato 12 settembre 1981 a Milano (Italia)
Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi dove in pozzanghere mezzo seccate agguantano i ragazzi qualche sparuta anguilla: le viuzze che seguono i ciglioni, discendono tra i ciuffi delle canne e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le gazzarre degli uccelli si spengono inghiottite dall'azzurro: più chiaro si ascolta il susurro dei rami amici nell'aria che quasi non si muove, e i sensi di quest'odore che non sa staccarsi da terra e piove in petto una dolcezza inquieta. Qui delle divertite passioni per miracolo tace la guerra, qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza ed è l'odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose s'abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto, talora ci si aspetta di scoprire uno sbaglio di Natura, il punto morto del mondo, l'anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità Lo sguardo fruga d'intorno, la mente indaga accorda disunisce nel profumo che dilaga quando il giorno più languisce. Sono i silenzi in cui si vede in ogni ombra umana che si allontana qualche disturbata Divinità
Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta il tedio dell'inverno sulle case, la luce si fa avara - amara l'anima. Quando un giorno da un malchiuso portone tra gli alberi di una corte ci si mostrano i gialli dei limoni; e il gelo del cuore si sfa, e in petto ci scrosciano le loro canzoni le trombe d'oro della solarità.
L'ultima cicala stride sulla scorza gialla dell'eucalipto i bambini raccolgono pinòli indispensabili per la galantina un cane alano urla dall'inferriata di una villa ormai disabitata le ville furono costruite dai padri ma i figli non le hanno volute ci sarebbe spazio per centomila terremotati di qui non si vede nemmeno la proda se può chiamarsi cosí quell'ottanta per cento ceduta in uso ai bagnini e sarebbe eccessivo pretendervi una pace alcionica il mare è d'altronde infestato mentre i rifiuti in totale formano ondulate collinette plastiche esaurite le siepi hanno avuto lo sfratto i deliziosi figli della ruggine gli scriccioli o reatini come spesso li citano i poeti. E c'è anche qualche boccio di magnolia l'etichetta di un pediatra ma qui i bambini volano in bicicletta e non hanno bisogno delle sue cure Chi vuole respirare a grandi zaffate la musa del nostro tempo la precarietà può passare di qui senza affrettarsi è il colpo secco quello che fa orrore non già l'evanescenza il dolce afflato del nulla Hic manebimus se vi piace non proprio ottimamente ma il meglio sarebbe troppo simile alla morte ( e questa piace solo ai giovani)
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, e l'ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l'incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato. Bene non seppi; fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr'occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue.
Forse un mattino andando in un'aria di vetro, arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore da ubriaco.
Poi, come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto alberi, case, colli per l'inganno consueto. Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Felicità raggiunta, si cammina per te sul fil di lama. Agli occhi sei barlume che vacilla al piede, teso ghiaccio che s'incrina; e dunque non ti tocchi chi più t'ama.
Se giungi sulle anime invase di tristezza e le schiari, il tuo mattino è dolce e turbatore come i nidi delle cimase. Ma nulla paga il pianto di un bambino a cui fugge il pallone tra le case.
Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale siccome i ciottoli che tu volvi, mangiati dalla salsedine; scheggia fuori dal tempo, testimone di una volontà fredda che non passa. Altro fui: uomo intento che riguarda in sé, in altrui, il bollore della vita fugace uomo che tarda all'atto, che nessuno, poi, distrugge. Volli cercare il male che tarla il mondo, la piccola stortura d'una leva che arresta l'ordegno universale; e tutti vidi gli eventi del minuto come pronti a disgiungersi in un crollo. Seguìto il solco di un sentiero m'ebbi l'opposto in cuore, col suo invito; e forse m'occorreva il coltello che recide, la mente che decide e si determina. Altri libri occorrevano a me, non la tua pagina rombante. Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli ancora i groppi interni col tuo canto. Il tuo delirio sale agli astri ormai.
Antico, sono ubriacato dalla voce ch'esce dalle tue bocche quando si schiudono come verdi campane e si ributtano indietro e si disciolgono. La casa delle mie estati lontane, t'era accanto, lo sai, là nel paese dove il sole cuoce e annuvolano l'aria le zanzare. Come allora oggi in tua presenza impietro, mare, ma non più degno mi credo del solenne ammonimento del tuo respiro. Tu m'hai detto primo che il piccino fermento del mio cuore non era che un momento del tuo; che mi era in fondo la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso e insieme fisso: e svuotarmi così d'ogni lordura come tu fai che sbatti sulle sponde tra sugheri alghe asterie le inutili macerie del tuo abisso.