Case cresciute in fretta, alla cui nuca risplende la morte dei prati. Bottegucce dall'aria caduca, dagli odori confusi; orti stremati. Le strade a sera cadono in ginocchio, dove finire non lo sanno più. Ma chi frena i mattini, e l'arrossire delle mille finestre, e il lieto spacco del blu sopra il cantiere. Il sole infila rose sulla gru. Ragazzi acerbi apparsi sulla breccia d'uno sterrato alzano braccia, strida e avanguardie di passeri: a che gloria?
Mattutina elemosina! Al cancello un gorgheggio di sole ancora implume, da un flabello di nuvola. Reclina nella cassetta l'ala di una lettera. Conosco i segni - le nervose piume... Già sull'angolo - e dunque ho camminato - se so il foglio a memoria, e tutta rido mentre la via mi soffia dove vuole. In me come in un nido le sue parole usignuole.
Ma io, passando d'estate nel materno respiro d'un tramonto fuori città – l'anima spalancata nella sacralità di quel raggiante disfacimento... Potevo immaginare che un prato più splendente della bracia mi alzasse contro un nuvolo di fiele. Cadendo, non mi dolse tanto il morire, quanto la ferocia dei distillatori di miele.
E più spesso la notte, quando scorre senza difesa il rivolo dell'anima, ecco – si leva un vento fuori stagione, come questo in sonno sento baciare i muri della casa, fra bisbigli di nidi e di fogliami già trapassati: e invasa mi sorprende di fantasmi d'amore, con ludibrio e gaudio insostenibile. Chè ormai già l'autunno s'appresta e la rondine già scruta la rotta. E pende fra uno sciame alto di stelle dall'abisso notturno la Bilancia: sopra il vivere mio lucida, esatta, non turbata da venti, in equilibrio fra il cielo già trascorso e quel che resta.
Qui dunque fui bambina. Alla marina crescevo accanto: l'anima digiuna d'ogni perché - famelica altrettanto. Gigli ad oriente, la riva era una spada. Stupendo sacrilegio imporvi un segno - l'arco del piede - premere col viso La freschezza deposta dalla luna. Il mare straripava nel sereno a livello dei cigli. Ah, la bellezza che pativo, non mia, che mia stringevo in quel primo singhiozzo di creatura che s'arrende all'immenso - era già il pegno, la stigmata che in me sfolgora e dura.
Mi scinderò dalla perpetua danza, dal flusso senza fine che mi porta, creatura di lucente libertà - io - che piangete morta. Invaderò la casa: un solo giro come fa il lampo.
In consistenza d'aria assumerò il colore d'ogni stanza. Senza toccar le cose - non ho mani -. Senza lasciare firme sugli specchi - non ho respiro -.
Vi stupirà la tenda che ferma taglia un brivido, il vermiglio tumulto dei gerani, lo scompiglio dei libri nell'eremo della scansia. Poi, subito riemersi come statue da un vento: "Che cosa è stato" attoniti vi chiederete. Diletti, non v'offenda se durerà il mio avvento solo l'attimo di rifluire via.
La mia giovane figlia, se la vita la spaura nell'anima – che un posto cercandosi, in nessuno si fa quieta-, si stringe chiusa, dura, come nelle sue ciglia la margherita sotto il temporale. Ieri sera era triste: e col suo male s'aggruppava nel sonno. Ma il mattino, dritta come una pianta, spensierata, m'è presso il capezzale, che con l'aroma del caffè mi canta "sveglia", col carillon del cucchiaino.
Tu, che senza sospetto mi sei amico, non osare cercarmi. Tu sapessi. Quest'amore che s'apre a tradimento dentro di me – questo coltello a scatto, affilato in cantine d'insonnia e di vergogna, sepolto nel cuscino a tormento dei sogni – cerca te. M'inebrio al colpo che t'assalirebbe all'altezza dell'anima. M'inebria pensare come il volto ti si farebbe pallido, e smarrita l'onestà dello sguardo. Chiaro sguardo – offuscato. Animo – morsicato. Per mia colpa. Tua Eva, divenuta, tuo serpente – io – battezzata!
Creatura appena nata, cieca – ermetica – nuda. Tocca a te, adesso: rompere il profondo magma dei sensi, salire ad esser viva dalla ferita della tua pupilla, approdare nel mondo. Innumerata nell'innumere mare – infima stilla – tu – gettata all'assalto della riva?
Di luglio, al lungo sole della sera le case stanno appese in un silenzio d'arnia dopo il volo. Ragazzi se ne vanno alti leggeri giù per la via. Farfalle svolano le ragazze. All'ombra delle tende azzurre gialle approda il vecchio. Siede, guarda intorno la scena: mitemente nel suo castello d'ossa si consola di farne ancora parte. Ma l'anima – è in disparte.