Sudici, irsuti, sopra la Terra strisciano demoni muti. Notte, dentro le nubi affonda orripilante mano l'uragano. Corre. Mantello nero. Immensamente amaro, ha svelato il destino...
Dormi, bambino. Splendido, stanotte l'Angelo verrà. Gemma. Fiocco di neve. Poserà candido sul tuo cuscino.
Guardo la splendida voluta barocca risplendere dall'alto dell'infinito del mio cervello tetro. Col becco adunco e quindici artigli rossi di vergogna, seduto su mezzo cavallo bianco, ho cinque scudi di vetro sulla fronte bruciata dal sole.
Sogni, lamenti, grida di gioia, smeraldi luccicanti stanotte ho udito vagare lenti nella radura.
Poi ti ho veduto, e ho pianto. Parlare, no. Gridare, no. Pregare, piangere, morire, no.
Resti qui muto, e guardi fisso dentro la mia anima, dentro i miei antichi nervi di marmo... perciò ti uccido, e canto.
Canto alla Luna, e sogno un mondo nuovo, dove il vuoto sia falso, il vero vero, la vita, vita... e nel cielo sereno le stelle sappiano in silenzio brillare; o vivere, ed amare.
Suona ancora quella chitarra lontana, e mi tormenta ogni sera, mi scortica vivo quel pianto tenue sospeso nel vento caldo d'estate, che mi accompagna nella nebbia fittissima che cela il tuo volto coperto di veli, tremendo in quel mescersi assurdo di gioia e di dolore, di luci e di ombre fuggenti, o fantasma indistinto che mi tormenti ogni sera e mi scortichi vivo ghignando nel pianto tenue del vento caldo d'estate.
Riposi lunghi, profondità di spazi vuoti di pianto e d'ansia, valli senza frontiere, cieli immensi, luminosi, fecondi di pietà senza lamenti; amor perenne, fraternità d'intenti tesi alla verità, destini eterni, pace... pavento ancor, morte solenne.
Se sapessi chi sono, mi condurresti per mano a giocare nel bosco. Mi stringeresti sul cuore lieve come farfalla. Mi doneresti la vita senza voltarti indietro. Ti riempiresti di stelle, se sapessi chi sono.
Quando ti ritroverò, costruirò un castello bianco per rinchiudervi la tua tristezza; chiamerò a raccolta le stelle del cielo per posarle sulla tua fronte; tramuterò le tue labbra in rose; farò sorridere il fango col sorriso di Dio per rallegrare il tuo cuore; verserò il mare nei tuoi occhi profondi.
Un uomo sedeva in silenzio, guardando una vetta lontana. Gli dissero: "Vieni, è finita". Ma lui rimase a scrutare le cime splendenti di neve, e ai prati deserti, ai fiori morenti, all'ultimo raggio di sole, all'ultima stilla divina rimasta a vedere la fine rispose: "Ho visto sbocciare una vita, ho visto sorridere un fiore, ho visto le stelle specchiarsi nel mare, ho udito il respiro profondo dell'onda baciare la riva bagnata di sole. Perciò resto qui, ad aspettare".
Le scale: chi le scende, chi le sale, chi ne è sceso e le risale, chi le guarda e gli vien male, chi diventa un animale a vedere chi le sale con fatica minimale in virtù del nazionale calcio in culo sindacale, baronale, clericale, sessuale, episcopale...
Ma...
c'è chi vive un sostanziale equilibrio razionale tra l'affanno esistenziale e la lotta abituale di chi scende, chi risale, chi li guarda e gli vien male, chi diventa un animale a guardare chi le sale; e sta là, col cannocchiale, nella piana alluvionale, dove non ci sono scale.
Non le scende, non le sale; e gli sembra innaturale, maniacale, demenziale, quella scala artificiale, quel furente carnevale, quella stramba cattedrale di miserie e capitale, quel groviglio colossale sindacale, baronale, sessuale, episcopale, comunale, provinciale, nazionale, universale...
Non le scende, non le sale. E neanche gliene cale.