Tic tac, voce incessante del tempo scandito che inesorabile scorre; delle ultime luccicanti gocce che scendono da una gronda, residuo della cessata pioggia.
Tic tac, un ritmo obbligato, una necessaria cadenza, una misura per il tuo respiro, per cogliere il pulsare dell'universo, il fremito della vita, per armonizzare con l'immenso.
Tic tac, il battito del cuore, il palpitar della gioia, dell'amore, sprazzi di accecante luce, marcate note di melodie arcane.
Tic tac il tuo passo frettoloso verso di me, desideroso di abbracciarti.
Colonne di nero veleno sputate da mostruose ciminiere imbrattano il fulgido azzurro del cielo; tutto si tinge di grigior di morte, piovono acide piogge che contaminano i fertili campi e le pure sorgenti e le fresche falde. Dentro cappe funeste volan gli uccelli, mentre il mare sempre più povero discarica diventa e non profuma.
Quanta violenza alla Natura che ci ha dato la vita e ci sostiene! Chi dà diritto a questo insano uomo di seminar rovina in ciò che suo non è, in un mondo in cui soltanto precaria ospitalità gli è concessa.
Ed i nostri eredi cosa troveranno? Un retaggio di aggressivo cemento, di rifiuti, di scorie mortali, oceani boccheggianti, cieli violati da corpi spaziali vaganti come muti inquietanti fantasmi; non più profumi di natural freschezza ma l'appestato tanfo dei miasmi.
Per favore, tacete, non ho orecchie per angeli e demoni, soffro gli odori di incensi, il fumo di candele votive, prediche, sermoni, litanie. Non parlatemi di castighi eterni, di luminosi, accecanti futuri, non datemi gratuiti sensi di colpa: non sento alcun bisogno di espiare per esser venuto al mondo e vissuto sempre cercando il meglio. Son sereno così. Io l'assoluto non ho bisogno di cercarlo in cielo, in feticci trafitti da penose spade, in petti squarciati e sanguinanti. Pura energia, lo vedo attorno a me, nel sole, nella luna e nelle stelle, lo riconosco nella rigenerante primavera, nei colori dei fiori, nella fecondità dei campi, nella forza del mare e nel turbinar del vento, nell'ordinato alternarsi delle stagioni e nel costante rinnovarsi della vita; lo riconosco in te, madre natura, che dal tuo seno ci hai estratto e nel tuo seno ci disperderai.
Contorti, sofferenti i miei pensieri ballano tetre danze nella mente sconvolta da antico dolore; gelido il sorriso sulle mie labbra, forzato, quasi un ghigno beffardo, mistificazione di gioia, paravento di un'amarezza che tutto mi pervade e che stroncarmi mi vuole. Arduo è vincere la voglia di cedere, di arrendersi senza un grido, un lamento, dicendo solo: basta... hai vinto! Poi l'abbandono cede alla speranza, alla rabbiosa riscossa, al sano orgoglio: rispetto mi devo, risorgere occorre, ridestarsi dal torpore! Ed anche se a denti stretti e nascondendo le lacrime, mi ridipingo un sorriso sulla faccia e riprendo a recitar la mia commedia.
Corre il treno del mio lungo viaggio, adesso ha come fretta di arrivare, di scaricarmi all'ultima stazione. Vorrei che rallentasse un po' il suo passo per soffermar lo sguardo tutt'intorno, per affacciarmi e respirar la vita e captare sorrisi e ricambiarli, per riempir le mani di qualcosa. Quando salivo ero accompagnato da amorevole gente ch'è poi scesa, allora il treno avanzava lento e scalpitava il cuor per arrivare; nei miei bagagli sogni ad occhi aperti, dopo le ambizioni, poi gli impegni; ora solo ricordi porto appresso, di momenti felici, fortunati, di volti amici e tenerezze avute, ma anche delusioni ed amarezze. Ma domina su tutto l'incertezza di cosa troverò alla stazione, e la paura di abbracciare il nulla mi fa talvolta perder la ragione.
La spiaggia ormai è deserta; a piedi nudi amo passeggiare sulla battigia, là dove l'onda increspandosi e con amorevole sussurro viene a baciar la riva, lasciando in dono qualche conchiglia, un gonfio legnetto, delle alghe strappate chissà a quale scoglio.
Affonda il mio piede nel bagnato arenile, un'onda s'affretta a richiuder la ferita, in un baleno scompare la mia orma ed il geloso mar torna a giocare.
Ora il sole già basso all'orizzonte, il suo purpureo saluto manda al cielo ed il mare sembra col suo perenne moto voler essere culla al suo dormire ed acquieta le onde e fa più dolce il canto. Più tardi, l'abbraccio della candida luna lo troverà già calmo e le stelle stupite lo scintillio del pelago godranno.
Seduto sul mio scoglio a pochi passi dalla spiaggia, la brezza fra i capelli, respirando umida salsedine, seguo le onde che una dopo l'altra, in un ritmo costante quasi di musica arcana, vengono a lambire il sasso, inondandolo di candida schiuma, per poi ritirarsi a riprender la rincorsa.
Cullato da quel suono cadenzato, incurante degli spruzzi sul viso, penso a quanti occhi prima dei miei si sono posati su questa azzurra immensità, a quanti come me hanno ascoltato l'incessante fragorosa risacca, hanno sentito questo profumo di alghe, persone svanite ormai nel tempo, senza più volto, né nome, né ritorno.
E lui sempre lì, immutabile, col suo perpetuo spumeggiante moto, con la sua perenne voglia di giocare e carezzare il mio masso.