La luna, qui, non si vede. Forse perché il sole è troppo e lei, gelosa, non si concede. Le colazioni sanno di mattino, le notti di ritorno al sorriso. Assonnata, albeggia l'arte alle cinque e diciotto, abbracciando l'orizzonte alla stessa ora, qualche ora dopo. Le basse maree sono umori apocopati, le alte l'apostrofo oscuro della perfezione. Granelli di sabbia occultano conchiglie orgogliose, invidiose della ragione per cui vengono raccolte.
Ma sabato, qui, resteranno. Promessa infranta. Perdonami.
Mentre il passato non s'intromette, il presente sa applaudirmi sincero. Tutto è migliore, questa notte. Tutto ricorda il cielo.
Vorrei guardassi chi sto guardando io.
In questa notte, dove la luna che non si vede inizia a esistere, dove alte e basse maree non dipendono dall'umore del futuro, ma dal nostro, dove le conchiglie regalano orgoglio e non esistono perdoni né promesse infrante.
Dove solo tu ed io esistiamo, perché siamo qui, accanto a noi, e nudi ci ascoltiamo.
Risorgo e ricordo il sapore del tuo sguardo tra le nostre recenti labbra d'Oriente.
Ho capito di esserci essenziali e vivrò per accarezzarti dormendo, quasi per crederci, guardare un destino condiviso fin dalla prima notte, a parole, a indecisioni, a bassa voce.
Sapevo, in quella fine d'inverno, che in qualche modo noi esistevamo.
Non potevamo non essere, non poteva non nascere chi sapevamo di conoscere sull'altra sponda dell'oceano, ma senza nome.
Dovevamo essere, e adesso che siamo e scrittura mai sola si insinua tra volere e avere, sono chi volevo essere quando ancora non lo sapevo.
Sono il noi nato il giorno della stessa alba di una impossibile morte.
Ispira la tua voce quando perde il significato del verbo, ed io sono nato in lei, senza nessuna paralisi da cercare, in angeli di cristalli che piovevano, tra perle di distanze che strillavano per la paura di avvicinarsi e poi smarrirsi tra frantumi di magie infinite nello specchio di attimi dispersi.
Quella voce non aveva nome, o quella voce non esisteva senza quello stesso nome, e le cose cambiano o le cose muoiono, e il nome le chiama o le vivifica, quindi adesso devo farlo, posso farlo, e quando voglio non voglio perché l'attesa è tutto e la sua fine un delitto.
Ispira la tua voce se pronuncia il mio nome, quando il margine di un'anca affonda nell'addio di un bacio e il suo oblio definisce la parola, sulla schiena un neo e accanto al labbro un altro, il sorriso di chi si accende nella solitudine di una compagnia.
Riduco a verso un dolore presunto, svesto le cicatrici socchiuse e le ricopro d'amore. Senza voler usare la parola, quando da sempre significa tutto, mi ripeto che lo sei, e mi riappacifico.
Vorrei prendere le tue mani e descrivere con loro la vita. Non sei qui, la storia si ripete. Chiamiamo affanno l'idea dell'assenza e perderla, il non-dove, significa flagello. Distratto divago per l'antica pelle accarezzata, rievoco il suo odore, profumo d'argento assonnato nel vivere il riposo. Assaggia l'amore, dipingi il suo fuoco e annienta la speme d'oltreoceano fasullo. Non ho alimento, né cielo, né luce, sguardi distanti perduti in demenze. Torno alle tue mani, odo il loro plauso e mi accingo a rapirlo, renderlo mio per poi piangerlo: felicità per armonia illusa. Voglio sposarti, non ci sei e mi confesso. Nel desiderio di un futuro, a te prometto di non abbandonarmi, di morir d'aria in un lento, bollente, generoso riso tuo.