Arresa al paesaggio alle variazioni del verde m'adagio su me stessa. Il miracolo non accade e i germogli non muoiono. Ritorno più sola col peso delle negazioni e delle assenze, libera nel mio cielo di memorie, intatta donna seminata a piaghe.
Sul mio ventre non crescono dolcezze. Arido muschio ed escrescenze, pustole. L'acqua volge il capo altrove ogni mattina e sempre più malvagia si fa la mia vagina infeconda.
I giacinti vogliosi, le turrite margherite gialle e quel canto di stelle filanti. Tutto inghiottito dal paradiso di cicale allocche dai mesti funerali d'albe spente.
Le ore spente le spente chimere di lumi che fuggono angosciati. Morti lasciati lì a imputridire nel soffio deleterio dell'abbraccio di ragni troppo grandi troppo orrendi.
Non c'è pietà per gli orli, pei tamburi che restano chiuso dentro il sogno del suono. Vanno a schiera le svergognate aurore a passo lento e non una che sosti non un brivido che le costringa o le condanni al giogo dolce dei miei sussurri.
La Deutzia fiorisce invade l'aria di sussurri belanti occhi perduti nel periplo di nomi eclatanti, nel guasto impero della dissolvenza. Invocare la nebbia! Nell'imbuto delle sevizie rimanevo al palo sterzando gli occhi al bulbo del rimastico nel fulcro cielo di chissà che mese.
Così rifulse il resto di memorie in arbitri, rare spoglie, scorie d'ingenui cimiteri. Che potevo farci delle metafore issate in bella vista delle corride sotto il solleone nel sudore sanguigno neutro sporco dei gridi dei tori fatti a pezzi nel ludibrio ingannevole d'un'alba che a passo doppio corteggiava orrori?
Chi mi costrinse a ingoiare rane e coccodrilli e tegami, bottiglie? Avevano una voce e mi ci coricai avida di carezze. Facevo le rincorse sui davanzali e ingiuriavo l'alba con congetture orribili. Il sogno si arenava nel murmurare inquieto delle ascelle sudate, nel rimario analfabeta del vento, nell'orgasmo dal sapore di calvario.
È offesa la carne, la pelle, gli occhi, le mani. È offesa la mia anima che ha trovato calcare e grumi di tempesta e morte nel suo giardino di chimere. Un fiotto di larve che si spampana per l'aria, una parte di me ancora combatte per non cadere nel logoro dondolare del non dolore, del non esistere esistendo.
Dannato il cigno che si veste d'ansia e vende l'anima al cerchio del risaputo. Il cronista di me fui io stessa e blateravo di catene e cifre. Leggevo Kafka, mi tagliai le vene.
Agisci nel silenzio come una biscia insidiosa convinta che nessuno si accorga della tua libidine e della tua avidità e convinta che il tempo sia assenza, e invece è rumore assordante, fiele e voce maleodorante di narciso. Il tempo con la sua malattia degli addii, con la sua facoltosa fanfara di residui, con il suo vorticoso e dirompente grido ti ha schiavizzata, oh povera, oh incatenata al tuo compito di ragioniere, oh sperma amaro della solitudine.
Se sono stata madre non lo so. Tutto è possibile. Mesi di silenzio assoluto, ovatta di parole, gesti, ronzii. La tramontana dava la mano al sole marcio, cadevano torri antiche senza far rumore. Il mio ventre non sentiva aromi, né sussurri, era un davanzale di pietra e aveva tanto sonno.