E mi sovviene ancor nella memoria la voce di un'impavida maestra che mossa dal suo senso del dovere mi conduceva in classe a dire versi... Ricordo la chiamavo "signorina", malgrado i vezzi bianchi sulla chioma, e dentro quattro mura un po' annerite mi preparava ad affrontar la vita!
Il freddo dell'inverno era passato con le gelate e i segni sulle gote che ancor cercavano rifugio nel morbido tepor delle sue dita. Portava camicette di cotone con dei ricami al passo di stagione e mi colpiva l'odorosa trama di candeggina e fiori di lampone.
La mano sempre sporca di gessetti, che manovrava con un fare accorto ad evitare di sentir le lagne di chi soffriva, con la pelle d'oca, la stridula scrittura su lavagna...
Ricordo quando entrava il direttore, e gli mostrava i nostri quadernetti, barchette senza remi alla deriva d'un mare che spiaggiava per l'affetto...
Poi ci portava fuori a primavera per liberare sogni di fanciulli, e l'aria tersa s'inondava d'un canto che graffiava le tonsille.
Pesanti come pietre quei ricordi: un alfabeto che costeggia i cigli dei giorni nostri divenuti tristi per noi che ci sentiamo sempre figli!
Era una maestra... Ma quando il cor s'infiamma, per tutti noi rimane una seconda mamma!
Notte alla stazione dove l'ultimo mostro, sbuffando, ha ingoiato il suo carico umano. Un altro giorno corre via come il fischio di quel treno in lontananza...
Nell'aria scura solo l'eco degli affanni e quegli appunti di vita che tornano a parlare, in soliloquio, dagli intonaci freddi di una sala d'attesa.
Il "libro degli ospiti" sulle pareti stanche: nomi, date, messaggi di coppie innamorate fedeli a una promessa, di uomini delusi cresciuti troppo in fretta, di chi si sente solo sopra un binario morto!
Notte alla stazione crocevia di quei pensieri dispersi come cicche sui binari che muoiono la sera tra le pietre dissolte in una nuvola di fumo.
Stazioni di notte, metafore di vita, dove puoi perdere l'ultimo treno e rimanere al punto di partenza, oppure proseguire nel tuo viaggio sperando in una nuova... coincidenza!
E ti ritrovo uomo all'improvviso Tu che rimani sempre il mio bambino Con quello sguardo ingenuo ed indeciso Che mi rapisce quando ti ho vicino... Sapessi figlio mio con quanta intensità Io vivo le tue giovani apprensioni, E il tuo passaggio alla maggiore età Mi fa provar sussulti ed emozioni...
Con te mi sento adulto E finalmente padre, Rivedo le speranze E il senso della vita. E dopo i sacrifici Sofferti con tua madre, Vorrei che la tua strada Non fosse mai in salita... Se un giorno attorno a te Vedrai solo deserto, Ripiglia piano il fiato E non morire dentro: La nostra vita è barca In mare aperto E può colare a picco Se tu non stai nel centro...
E se ti troverai a sopportar gli affanni Di un mondo che pretende soltanto i risultati, Non perdere la calma e vivi quei tuoi anni Col solito entusiasmo e i gesti misurati. Ricordati di sentirci a te vicini Anche quando un dì non ci saremo: Per sempre veglieremo il tuo cammino, Al cuore e alla tua mente parleremo...
Lo sguardo smunto e senza pace sul frutto tuo che al seno allatti, nutrice non più gravida di linfa sull'arsa terra che conduce a morte.
Palme chiare scavate dagli stenti, denti in fuori a mordere la rabbia, rami secchi agli angoli degli occhi e un velo d'innocenza che riluce dal breve gocciolar che bagna il viso.
Nostalgie di fiumi e d'argini fecondi, di noviluni spesi intorno ai sacri fuochi quando l'eco delle danze e dei tamburi vibrava forte nei visceri terreni fin dentro la capanna ove cullavi, al canto di guerrieri generosi, i tuoi sogni primitivi di fanciulla.
Ricordi antichi di un'età svanita nell'avida terra, tra l'aride pietre, di gesta superbe non più cantate, di nenie tribali divenute pianti, di madri fiere dentro le capanne.
Ora solo i gemiti a riempir le foreste, a vagar su gli altipiani e le radure, in un mondo che non dà più voce né terre su cui tracciare solchi né piante di cui godere i frutti né sogni, né memorie familiari.
Nubi polverose sui declivi spinte dal vento secco di stagione ove il respiro tuo s'impiglia e annaspa tra i bagliori del tramonto.
La pelle cede e ha un ultimo sussulto al labbro ritmato del tuo frutto che succhia dai tuoi seni inariditi la speme d'un futuro cancellato.
E allora volgi il guardo tuo morente sui campi un tempo sazi di manioca ove l'immago tua rivedi ancora tra le braccia vigorose dei tuoi avi...
Tra suoni antichi mi sovvien la voglia di un ritmo che s'insinua nella mente e mi riporta al tempo adolescente quando miravo il mare da uno scoglio...
La spiaggia dei ricordi adesso tace, quel tratto di costiera sempre in guerra che corre da "Bagnoli" al "Rione Terra", un tempo approdo dei coloni Greci!
Rivivo gli assolati pomeriggi trascorsi sotto l'ombra dei costoni per evitare a scuola le lezioni e l'indolenza di quei banchi grigi...
Nell'aria quei tramonti di calcare d'un sole che affogava all'orizzonte tra il luccichio di reti appena pronte sugli argani impazienti di salpare!
Ed io un intruso dentro la cornice sentivo, a tratti, le sommerse voci di oracoli e sibille senza pace salir da quei fondali in superficie...
Godevo in quel respiro di maestrale, di venti aperti al canto di sirene, e un fremito mi entrava nelle vene quando scoppiava forte un temporale!
Sul viso assaporavo quelle gocce asperse come un gesto spirituale e rimanevo assorto in quel rituale seduto sul gradino di una roccia.
E m'incantavo a lungo ad ascoltare lo sciabordìo dei flutti sotto costa che raccontava a tutti senza sosta l'eterna lotta tra la terra e il mare...
E nel silenzio resto qui a soffrire senza dar più voce al mio dolore, poiché l'ansia moderna di apparire ha già serrato, forte, i vostri cuori! Come un clown racconto la mia storia a Voi che fate finta di capirmi, in un'arena dove non c'è gloria per me che tento invano di esibirmi...
Io sono quel gabbiano con le ali fratturate costretto ad inciampare su scogli della vita. Un tempo volteggiavo per i ventosi lidi fra guizzi di marosi ed arroccati nidi... Ed or che vò ramingo sui litorali bassi, confido le mie pene alle ginestre e al mare, e cerco nutrimento nei cumuli di sassi, tra reti sforacchiate e gusci di calcare...
Rimiro i miei compagni volar sulle banchine, danzar con eleganza nel tempo degli amori, sfiorando con la coda quel limitar di pini nel vespero che smorza l'asprezza dei colori... Ed io rimasto solo, su questa baia deserta, non provo più l'ebbrezza giocosa del volare. Ma so di avere, alfine, una risorsa certa: un cuore così grande per amare!
Quando l'inverno avrà steso all'orizzonte l'ultimo velo grigio e l'alito vaporoso di cucina s'incollerà sulle finestre fredde, allora cercami: io ti sarò vicino ad aspettare l'alba.
Prima che l'imbrunire abbia fugato impietoso la fioca luce del meriggio Noi, con le dita sui vetri, tracceremo innocenti arabeschi del nostro imperituro amore. E non saranno i pensieri ad inghiottirci come prede, né noia o solitudine ad affogarci l'anima.
Quando la pioggia batterà impetuosa sui tetti delle case e un tuono repentino vibrerà nel cuore tuo, allora cercami: prima che in mare s'acqueti la risacca e un volo di gabbiani rinnovi il suo vissuto insieme resteremo fino all'ultimo minuto...
Non piangete figli miei sopra questa terra che mi consuma! Alzate gli occhi al cielo, da oggi io sono qui: nel regno dell'eterno, dove spazio e tempo non hanno più misure.
Voglio dirvi ancora parole di padre e chiedervi scusa se qualche volta non ho saputo mutare i miei silenzi in parole, la mia rabbia in ascolto, la mia foga in abbraccio.
Se solo avessi scavato più a lungo nei vostri occhi, a volte bassi...
Oggi, più di prima, io resto al vostro fianco esortandovi a non cedere ai silenzi del cuore, al rumore delle passioni, alle lusinghe della vita!
Non rinunciate mai a cercare il significato delle mie parole tra le pieghe del vissuto. E non basteranno le tempeste, anche nelle notti più buie, a spazzare via i ricordi a voi più cari.
Cercate nei giorni che verranno i segni della mia presenza e risentiamoci nei sogni: io saprò parlarvi ancora...