Dove gli alberi ancora abbandonata più fanno la sera, come indolente è svanito l'ultimo tuo passo che appare appena il fiore sui tigli e insiste alla sua sorte.
Una ragione cerchi agli affetti, provi il silenzio nella tua vita.
Altra ventura a me rivela il tempo specchiato. Addolora come la morte, bellezza ormai in altri volti fulminea. Perduto ho ogni cosa innocente, anche in questa voce, superstite a imitare la gioia.
Il mio canto ha deposto ogni artificio. Non sfoggia splendide vesti né ornamenti fastosi: non farebbero che separarci l'uno dall'altro, e il loro clamore coprirebbe quello che sussurri.
La mia vanità di poeta alla tua vista muore di vergogna. O sommo poeta, mi sono seduto ai tuoi piedi. Voglio rendere semplice e schietta tutta la mia vita, come un flauto di canna che tu possa riempire di musica.
Al mattino gettai la mia rete nel mare. Trassi dall'oscuro abisso cose di strano aspetto e di strana bellezza - alcune brillavano come un sorriso, alcune luccicavano come lacrime, e alcune erano rosee come le guance d'una sposa. Quando, alla fine del giorno, tornai a casa con il mio bottino, il mio amore sedeva nel giardino sfogliando oziosamente un fiore. Esitante deposi ai, suoi piedi tutto quello che avevo pescato.
Lei guardò distrattamente e disse: "Che strani oggetti sono questi? Non capisco a che possano servire". Chinai il capo, vergognoso, pensando: "Non ho lottato per conquistarli, non li ho comperati al mercato; non sono doni degni di lei". E per tutta la notte li gettai a uno a uno sulla strada. Al mattino vennero dei viaggiatori; li raccolsero e li portarono in paesi lontani.
Agglutinati all'oggi I giorni del passato E gli altri che verranno,
Per anni e lungo secoli Ogni mattino sorpresa Nel sapere che ancora siamo in vita, Che scorre sempre come sempre il vivere, Dono e pena inattesi Nel turbinio continuo Dei vani mutamenti.
Tale per nostra sorte Il viaggio che proseguo, In un battibaleno Esumando, inventando Da capo a fondo il tempo, Profugo come gli altri Che furono, che sono, che saranno.
Fuggiva la barca sull'onda fuggitiva; la notte allungandosi in pacifica sera alla luna in cielo pallida, meditativa, fornica un dolce riparo nel suo abito nero;
Nella brumosa lontananza una campana lamentosa sospira il pio suono dal campanile del maniero; scorre all'orecchio attento il santo rumore, come un'ombra che a tratti l'occhio crede d'intravedere;
Alla devota voce la docile navicella sull'onda fremente s'arresta, vacilla, e sul flutto dormente, senza svegliarlo, s'assopisce;
Mosso il nocchiero da una mano rude e degna curva la fronte rugosa, devoto si degna, e riprende la barca verso il porto il cammino.
Destandomi all'alba ho trovato la sua lettera. Non so che dica, perché leggere non so. Lascerò il savio, solo cò suoi libri, senza turbarlo: chi sa mai s'egli possa leggervi dentro?
Io me la vò posare sulla fronte, io me la vò premere sul cuore. Quando la notte placida s'inoltr e sorgano le stelle ad una ad una, io me la spiegherò sul grembo, e rimarrò in silenzio. Ad alta voce me la leggeranno stormendo le foglie, me la intonerà la correntìa del torrente, e le sette stelle veggenti me la canteranno dal cielo.
Non riesco a trovare quel che cerco; non posso comprendere ciò che sapere vorrei; ma questo messaggio non letto mi ha già reso più lieve ed ha cambiato in cantici i miei pensieri.
In un cupo deserto io vagavo dalla sete dello spirito oppresso, ed ecco un serafino con sei ali mi apparve ad un tratto da presso. Lieve come un sogno si avvicinò e gli occhi stanchi mi sfiorò. Si aprirono le profetiche pupille come alle aquile impaurite. Poi toccò le mie orecchie, e di suoni esse furono empite: e vidi in alto degli angeli il volo e udii il cielo che fremeva, e scorsi il moto delle serpi marine e il vinco delle valli che cresceva. Poi si accostò alla mia bocca, strappò la mia lingua veemente, ma frivola, vuota e maligna, e l'aculeo del saggio serpente nella mia bocca agghiacciata ficcò con la destra sanguigna. Poi il petto mi aprì con la spada, ne tolse il mio cuore tremante, e nel petto aperto egli depose un carbone ardente e fiammante. Come salma nel deserto giacevo, ma la voce divina intendevo: "alzati, guarda e ascolta, o profeta, fa ciò che ho scritto nella mente, percorri terre e mari senza tregua, con la parola accendi il cuore della gente".
Già mi parla l'autunno. Al davanzale buio, tacendo, ascolto i miei pensieri piegarsi sotto il vento occidentale che scroscia sulle foglie dei miei neri alberi solo vivi nella notte. Poi mi chiudo nel letto. E mi saluta il canto di un ragazzo che la notte, immite, alleva: la vita non muta.
Cos'altro mai puoi dirmi che io non sappia, vena del sol che sangue dai alla terra, sfilacciar quieto di nebbia rifratta tra l'azzurro del mare e il ciel vermiglio? Quanti tramonti affollano i ricordi, quante lingue di fuoco sulle acque, e tutti si confondono, di notte, quando, calato il sole, chiudi gli occhi.