Un lecca lecca un aquilone suona il campanello, sono pronto, ecco il pallone!
Un amichetto e un bel gelato, caramelle e cioccolato, miele, zucchero e marmellata
sul lungomare ci sono le giostre, sul cavalluccio sull'altalena, un salto sulla schiena del papà che porta a spasso, sull'acqua rimbalza un sasso, un nuovo amico, un nuovo gioco, un litigio un occhio nero, mai a letto, giù per strada per un giorno intero
a due a due i gradini di una rampa, saltellare su una gamba
il grembiule e la cartella, è arrivata la più bella, il cuore batte, il viso è rosso, il primo amore la prima stella a brillare sulla testa, sento i fuochi inizia la festa
via i cuori tristi, via faccia mesta, arriva un sorriso spostatevi, pistaaaaa!
Lenox Avenue, Park Ave Long Island I see you baby Jamaican Ave, Queens KRS, let's go!
Krs One, New York New York
Linea F
Un sassofono Accende, spegne e poi riaccende Le finestre di questi Colossi contemporanei; Queensborough Bridge, Chinatown, Lettle Italy, l'"Urlo" Allen Ginsberg; blues nella downtown, Blecker Street, Terra Blues, Billie Holiday, Peggy Lee, Ruby Dee, Aretha Franklin, Dixie club, Colombous Circles, Cetral Park, Ellis in Wonderland, streets ad avenues, colori primari, colori impuri Piet Mondrian; MOMA, dripping, Jackson Pollock, Met, Frick Collection; afroamericani riempiono il cielo dalle chiese di Harlem, Malcolm X, RAP, Grandmaster Flash, Melle Mell, Furious Five, Kurtis Blow, Marley Marl, Salt and Peppa, Stetsasonic, Africa Bambaata, Vanilla Ice, B. I. G. KRS One, "if you don't stop [...]" Public Enemy; Fà la cosa giusta, Spike Lee, Il Cloisters (ricorda i versi di Borges) Washington Bridge, Broadway, Chorous Line, BB King pub and grill; City Hall, Brooklyn Bridge, York Street, Flatbush, Prospect Park, New York New York, cielo caleidoscopico, uno scratch, spray, un breacker. Different Strokes, I Jefferson, Fat Albert and the Cosby Kids, Keat Haring, Basquiat, Mapplethorpe, Lucio Amelio, Velvet Underground, Warhol; Dal Queens L'Exultet della periferia Sui muri di una vecchia fabbrica Ai piedi della City Bank, Electric Boogaloo, Wild Style; Metropolis, Fritz Lang, Manhattan, Woody Allen, tra i boondocks e l'oceano Coney Iseland e gira una ruota panoramica lasciando la scia di un taxi giallo.
Percorro la strada che mi conduce a casa, percorso scandito dal lavoro, di una segheria; si sente un martello picchiettare. Antichi casali, stemmi dei Sanseverino sui portali, due stemmi, mi ricordano la Pietra del Sole, forse un culto apotropaico d'oltre Oceano, portato dai coloni. Un casale diventato poi, l'abitazione di Antonio Villari. Dal mio balcone, un albero di pepite di Amalfi, il campanile avverte, l'inizio della Messa; residui di saggezza popolare, seduti alle panchine, dove si innalza la chiesetta dedicata a Sant'Andrea; all'interno, una tela di Angelo Michele Ricciardi; nella piazzetta, un tiglio squarciato nel ventre, dal tempo, quanti bimbi ha visto uscire da scuola, quante parole di amici e di innamorati, ha conservato nel suo ventre dalla placenta di brina e resina, dove è collocata una Madonnina. Un colonnato di castagni, di quel che resta di un bosco.
Gli archivi sono vita, tra fogli e polvere, il tempo non è fermo, è in continuità, sudore, forse lacrime. Cerco in un faldone, come in un forziere, c’è una lettera di un emigrante. Attraversa l’oceano per “trovare l’America”, lasciando una scia di sacrificio, una scia che lo avvicina a chi aspetta all’altra sponda. Leggo, un’altra lettera, si rinnova in me, il tremore della voce, di chi pronunciava queste parole, mentre le scriveva. Emigrato in Argentina, qualche parola in spagnolo, quiero, falta. Un sospiro, lo sguardo nel buio, fissa il cono di luce della lampada, ritorna alla lettera, accanto c’è la foto dei bambini, la mano tra i capelli, un altro sospiro, deglutisce, un sorriso. Ritornerò, sto bene, non ti preoccupare, ti aspetto, tornerò presto, ti voglio bene, ti amo, salutami i bambini, a presto.
Io e Dorothy in mezzo al bosco, a cercare le scarpette rosse. Il grillo parlante istruisce il nostro percorso, il gufo Anacleto vola su di noi. Uomini di latta in cerca dell’amore, lungo il cammino. Una casetta di marzapane,dolce tentazione. Il Bianconiglio ha tanta fretta, due porcellini senza casa, per aver disobbedito al terzo. Fermiamoci qui, in questa casetta, due ciotole piene ed una vuota, Riccioli d’oro dorme di sopra, Corriamo! Prima che arrivino i tre orsi. Dalla palude scandisce il tempo, il tic tac di una sveglia inghiottita da un coccodrillo; si sente la musica di una band di gatti, 101 cuccioli ci fanno compagnia. Eccoci giunti al mare, un pescecane enorme, ha nel suo stomaco, il piccolo Pinocchio. Torniamo indietro, c’è un grande castello, è mezzanotte, Cenerentola scappa via, Semola ha estratto la spada dalla roccia. Uno Stregone dal cappello stellato, anima una ramazza. Un principe scambia il suo ruolo con un povero, Dumbo troppo timido inciampa su un orecchio. Le scarpette rosse erano solo un pretesto, per cominciare quest’avventura, che potrebbe continuare, lascio spazio ad Alice e ad Andrea per poterlo fare. Buon viaggio!!!
Ho pregato, ho affidato la mia anima ad Allah, il mio corpo non ha avuto scelta qui, su questa terra. Guardo dalla finestra, c’è una grande Cupola, la sua convessità è interrotta da tante sfaccettature; il vetro diventa opaco d’improvviso, tante notti di tante lacrime, colmano i miei occhi. La mia vita avrebbe potuto avere la convessità di quella Cupola, avere un movimento ciclico, cercare un lavoro, scegliere un uomo. Forse, la mia vita, avrebbe potuto avere tante sfaccettature, come quella Cupola che vedo dalla mia finestra. Sembra la metà di un grande limone d’Amalfi, terra evidenziata dal mare, come la mia. Come un limone, intenso profumo, insito nella preghiera e del mio essere donna, succo amaro, addolcito da Sure di zucchero. Magari, sarei potuta essere un’ape, dolce e maliziosa, ronzare, pungere chi mi pare, libera di poter scegliere il mio fiore; usare il mio burka come un aquilone. Alzo gli occhi, tutto è più chiaro, una mezza luna sulla sommità della Cupola mi rassicura, posso ancora scegliere per la mia anima, scegliere di affidarla ad Allah. Una pesante mano Mi scuote la testa, cade un velo che mi copre anche gli occhi. I miei occhi, cosa potrebbero raccontare, delle lunghe conversazioni con il mio Etereo Sposo. la mia mente si confonde con la preghiera dell’Imam, che si diffonde dappertutto. La mia anima è al sicuro, così anche il mio corpo. Il mio Sposo tiene il mio capo poggiato al Suo petto, la pesante mano, diventa una candida carezza sotto il velo, mi accarezza i capelli. Ho pregato, Prego ancora.
Dimmi tiresia [...] la conoscenza è distanza che separa la fatica di conoscere è più grande fatica di essere creduti? Tu che dimentichi e ricordi e poi dimentichi e così purifichi a che mi servirà sapere vinicio capossela marinai, profeti e balene (2011) dimmi tiresia ... e intanto il treno va...
uno sconfinato prato verde, un cielo blu reso azzurro, da tocchi di bianche nuvole, di zucchero filato, mescolati, danno agli occhi, il giallo dei campi di girasole, che sotto l'egida del sole, sembrano fondersi come candele. Piccole casette, come briciole di cioccolato, sembrano sciogliersi, sotto lo scettro del sole. Sembra, il tocco del pennello, del più grande artista dell'universo. Tutto è giustapposto, persino qualche serra, sembra faccia parte di questo melodico contrappunto, magnifico spartito mozartiano. Una casa, poi di nuovo il prato, una serra, ecco di nuovo il grano, punctum contra punctum, spighe, fiere, sull'attenti, nella loro corazza splendente, i loro chicchi, come piccoli diademi, in questo interminabile campo, dorato e incandescente. Profumi circondano, questa cattedrale naturale, odori estatici simili a quelli dell'incenso. Un falco con le sue ali, fa piccoli tagli a questa tela, è lui il principe di questo regno. Lepri si rincorrono, in un'eterna acchiapparella, battono con il loro salti, la terra arida. Danno un ritmo, a questo torpore estivo. Si dà inizio a danze tribali, le lepri con i loro giochi, come colpi su di un tamburo, girano intorno al fuoco eterno, il sole. E intanto la mente va, il cuore va, l'anima va, e intanto il treno va.
Minuscoli paesi della Bosnia, tra montagne di cartapesta e corsi d'acqua che massaggiano l'udito. Stradine sinuose, come i sentieri dinnanzi le casette, nei disegni dei bambini. Case in blocchi di pietra, come cubetti di zucchero e tetti con piccole tegole rosse. Piccoli bar, dove all'ombra siedono gli anziani; donne affaccendate, vanno su e giù per le strade. Il tempo scorre lentamente, lo straniero viene osservato con curiosità. Comignoli sbuffano un morbido fumo bianco, simile a schiuma; terra che non è mai sazia del Sole, nessuno lamenta questo torpore, anzi, sembrano attirati, gli appartiene, corrono a nutrirsi di questa esplosione, una filigrana di raggi, attirati come un'ape al suo fiore. Antiche civiltà, sulla collina, hanno lasciato, un piccolo castello; anch'io l'ho costruito, tempo fa, sul fresco pavimento della mia stanza. Ora sotto i miei piedi sento salire, diretto al nucleo della mia anima, fino a raggiungere la mia crosta terrestre un caldo che non soffoca, anzi, mi scuote dentro, come il furore, che rende sempre più appassionati; la sconfinata orbita, raggiunta dopo un bacio o una carezza. Terra calda, di questa campagna, inondata da una cascata d'oro. Non lontano dal centro, monoliti, con ominidi muniti di arco, pronti alla caccia; su quanta Storia, i miei piedi mi conducono, le gambe sono instabili per l'emozione. Qualcosa di incandescente, corre lungo la schiena e mi ricorda il Cilento. Stolac, Ottati, Mostar, storia e farfalle colorate; a Jaice cade una limpida pioggia; si abbraccia la cascata con il fiume, brancusiano bacio terra e acqua; acqua del cielo si mescola a quella della terra; castello interiore, Santa Teresa d'Avila, calda Reminiscenza, che trova refrigerio, nelle acque della Neretva, come un purificante Giordano; la storia ha solcato la terra, sono evidenti le radici, come il solco che a Sant'Angelo ha lasciato il Fasanella, come quello che il Sebeto a Napoli ha scavato il suo vallone La civiltà fa da perno, alla musica Naturale che c'è intorno, come un Derviscico volteggiare, un rilassante carillon, una ninna nanna di zenzero, in una magica notte dal cielo pentagrammato, le note di un'arpa, in un chiostro antico.
La timidezza dà inchiostro alla mia penna. Fiumi e fiumi di aride parole sprecano il colore della notte. Esalazioni di antico sudore, emanate da scrigni di inchiostro, riposti come in un lungo letargo, nell'attesa del risveglio, dalla mano curiosa che sfoglia e accarezza la pelle che copre le loro pagine di ostia, che si sciolgono avvolti dal calore delle dita tremanti dall'emozione, di chi si immedesima in soffi che ruotano nel tempio di legno e carta.
L'arte, credo, sia una parte di noi stessi, alla quale non possiamo approcciare per giungere a fini materiali, manuale alla mano, inizia la lezione, o almeno, non solo.
Prendiamo forma in placenta di acquarello, tempera ed olio, tutto mescolato da un pennello ombelicale.
Il primo strillo critico all'esterno, cullati e poi accomodati in una culla-tavolozza.
È da lì che cominciamo a battere le mani alla mamma, al mondo intero e quindi di nuovo alla mamma.
È da lì, che ci giriamo e rigiriamo su noi stessi in un estenuante gioco che ci conduce al sonno e poi al sogno.