In quel quartiere era semplicemente un dato di fatto che la gente fosse di colori diversi. I bambini del nostro palazzo erano neri, bianchi, ispanici, asiatici, di razza mista e quant'altro, anche se quando giocavamo insieme l'unica cosa che avevamo in testa, naturalmente, era la stessa cosa che avevano in mente la maggior parte dei bambini in America, e cioè fin dove potevamo spingerci senza essere beccati dagli adulti. Dietro il nostro palazzo c'era una lunga area circondata da un muro e chiamata eufemisticamente "il cortile". Priva di ogni forma di vegetazione, era il sogno proibito dei dentisti e degli avvocati che si occupavano di lesioni personali. Ogni superficie era in calcestruzzo, con l'eccezione della struttura per fare arrampicare i bambini, che era di ghisa ed era sicura e attraente come una gigantesca pentola perforata. Io e i miei compagni di gioco correvamo per questo cortile come una squadra dei marines sotto anfetamine. Sfrecciavamo giocando a rincorrerci, poi a Fuoco fuochino o a Uno due tre stella, poi mettevamo in scena salti suicidi dai tubi di ghisa, restavamo coinvolti in catastrofici incidenti a catena con i nostri tricicli, biciclette e Big Wheels, organizzavamo competizioni per vedere chi era in grado di buttarsi dalla parte più alta del muro di cinta senza rompersi un dente. Non era necessario che qualcuno ci dicesse che la nostra pelle poteva essere di colori diversi ma che sotto eravamo tutti uguali. Data la quantità di sangue che versavamo tutti i giorni in quel cortile, ce ne rendavamo conto di persona.
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