“Pensi che ce l’abbia?”
“Che abbia cosa?”
“Un futuro.”
“Non puoi avere un futuro.”
“Sei sempre così sottile.”
“Lo sai, sono fatto così.”
“E io, io ce l’ho un futuro?”
“Sì, tu ce l’hai.”
“è un bene?”
“Non lo so, penso di si.” disse lui, sdraiandosi sul prato.
Era una notte in cui si potevano vedere un sacco di stelle.
“Raccontami qualcosa di rassicurante” le disse lei.
“Non ho niente da raccontarti.”
“Questo è rassicurante.”
“Trovi?”
“Sì, è rassicurante che tu non abbia niente da raccontarmi.”
Stettero in silenzio per dieci minuti, sdraiati sulla terra asciutta,
pancia in su, a guardare il cielo.
Lui cominciò a dire: “Sai, questo...
Questo mondo alle volte mi fa un po’ schi-fo.
È patetico vivere così.”
“E come vorresti vivere?”
“Non lo so, questo è l’unico modo in cui ci è dato vivere,
in cui ci è dato saperlo.”
“E allora di che ti lamenti?” – chiese lei.
“Non lo so.” – rispose lui.
“Non sai un sacco di cose.” – gli disse.
I rami di un ciliegio iniziarono a scarmigliarsi.
I fili d’erba si piegarono e sui loro corpi
qualche cosa come polline e petali, passò rapido in folata.
Il vento s’era alzato quasi d’improvviso.
Lui pensò che fosse una cosa strana, perché non era nuv0loso.
E anche lei pensò qualcosa di simile.
“Vorrei che fosse così per sempre”
disse lei coprendosi appena gli occhi con la mano.
“Così come?”
“Così.”
Il vento non accennava a diminuire,
Ora al resto si era aggiunta qualche foglia,
qualche pigro volatile notturno risvegliato dalla corrente d’aria
sorvolò il pezzo di cielo sopra di loro.
“Secondo te sta per venire una tempe-sta?”
Lei si era alzata,
la gonna era piegata tutta da una parte come i suoi capelli.
“Siamo nell’occhio del cicl0ne. Ci siamo sempre stati,
solo che adesso tira vento.” Anche lui si era alzato in piedi.
“Che facciamo?”
“Aspettiamo che passi.”
“Passerà subito?”
“Quando sarà passato, ti sembrerà un secolo fa.”
“Ho pa-ura.”
“Non devi fare nulla,
quando sei nell’occhio del cicl0ne devi restare ferma.”
Il vento disperse le loro voci e il loro ricordo,
fra gli alberi, tra le dune di fiori.
Tutto passa, tutto va, nulla resta. Mah...
Ciao
12 anni e 9 mesi fa
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L'AGO C'era una volta un sarto, che campava la vita mettendo toppe e rivoltando vestiti usati.
Nella sua botteguccia ci si vedeva appena; perciò lavorava sempre davanti la porta, con gli occhiali sul naso; e, tirando l'ago, canterellava:
- Il mal tempo dee passare,
Il bel tempo dee venire.
Zun! Zun! Zun!
Aveva una figliuola bella quanto il sole, ma senza braccia, ed era la sua di*sperazione. Le vicine lo aiutavano: oggi una, domani un'altra, si prestavano a vestire la ragazza, a pettinarla, a lavarle la faccia; e doveva imboccarla. A ogni boccone, brontolava:
- Chi non ha braccia, non dovrebbe aver bocca!
La ragazza, invece di arrabbiarsi per questo continuo brontolio, si metteva a ridere e rispondeva:
- Dovevate farmi le braccia e non la bocca. La colpa è vostra.
- Hai ragione.
E il vecchio riprendeva a lavorare, canticchiando:
- Il mal tempo dee passare.
- Il buon tempo dee venire.
Zun! Zun! Zun!
Invece il cattivo tempo peggiorò: gli venne meno la vista, gli occhiali non lo aiutarono più; e gli avvenatori vedendo quei puntacci da orbo, che facevano parere più brutte fin le toppe, non ne vollero più sapere di lui e del suo lavoro.
- Figliuola mia, come faremo?
- Faremo la volontà di Dio.
- Il bel tempo dee venire.
Per abitudine, ogni mattina il sarto, aperta la botteguccia, si metteva a sedere davanti la porta con le mani in mano, aspettando gli avvenat0ri che non comparivano, e al suo solito cantarellava.
Un giorno passa una signora, che vicino a lui si china e raccatta da terra un ago lucente:
- Quest'ago è vostro, buon uomo.
- Grazie. Che debbo farne? A cucire non ci vedo più.
La ragazza, sentendo parlare, s'era affacciata alla porta.
- Prendentelo voi, bella figliuola.
- Non ho le braccia, signora mia.
- Ve l'appunto sul busto; è un buon ago.
Il vecchio disse:
- Biscotto a chi non ha denti. Così va il mondo!
- Allegro, compare!
- Il mal tempo se n'è andato,
Il bel tempo è già arrivato.
Zun! Zun! Zun!
La signora, ridendo, scantonò e sparì.
Poco dopo, ecco un avvenatore con in mano una giacca vecchia, tutta strappi e buchi:
- Rattoppatemi questa qui. Vi pago avanti; ecco uno scudo. Verrò a riprenderla domani.
Il sarto, vedendosi in mano quello scudo, che arrivava a proposito, non ebbe animo di rispondergli: - A cucire non ci vedo più. - Rimase lì, con naso all'aria, stupito dalla buona fortuna.
Andò subito a fare un pò di spesa, e poi si mise a cuocere la minestra, rimuginando le parole dello sconosciuto: Verrò a riprenderla domani.
- Figliuola mia, come faremo domani?
- Da qui a domani c'è ventiquattr'ore.
Finito di desinare, la ragazza guarda per caso la giacca e da un grido di sorpresa: la giacca era già bell'e rattoppata, e così bene, che pareva quasi nuova. In una manica c'era appunto un ago.
- E' l'ago della signora!
Infatti l'ago non era più al posto, dove la signora lo aveva messo.
- Zitta, figliuola; quest'ago è la nostra fortuna.
Il padrone della giacca venne a riprenderla, e rimase contentissimo del lavoro. Chiunque vedeva quella raccomodatura, restava meravigliato.
E gli avvenatori tornarono ad affluire alla botteguccia del sarto. Sul banco c'era sempre una montagna di vestiti ve*cchi, così stra*cciati che neppure il cenciai0 li avrebbe voluti. Il sarto se ne stava tutta la giornata seduto davanti la porta con le mani in mano canterellando:
- Il mal tempo de n'è andato,
- Il bel tempo è già tornato.
Zun! Zun! Zun!
- Sarto, e il lavoro chi lo fa?
- Lo faccio io.
- Stando con le mani in mano?
- Stando con le mani in mano.
Verso sera gli avvenatori tornavano e trovavano tutto bell'e allestito. Le raccomodature erano fatte così bene, che quei vestiti vecchi parevano quasi nuovi.
- Sarto, e il lavoro chi l'ha fatto?
- L'ho fatto io.
- Stando con le mani in mano?
- Stando con le mani in mano.
Un giorno il Reuccio, passando a cavallo insieme con uno scudiero davanti la bottega del sarto, vide la ragazza che stava a sedere accanto al padre e rimase incantato di quella bellezza.
- Ha un aspetto da Regina!
- Ma è senza braccia, Reuccio!
- Peccato!
Ci ripensò tutta la notte, e il giorno appresso volle rivederla. Passò a cavallo, insieme con lo scudiero, e rimase più incantato del giorno avanti.
- Ha un aspetto da Regina. Pec*cato non abbia le braccia!
Ci ripensò tutta la notte, e al giorno appresso volle rivederla. Giunto davanti la bottega, sentendo canterellare il sarto, fermò il cavallo:
- Che canterellate, buon uomo?
- Il mal tempo se n'è andato,
Il bel tempo è già arrivato.
Zun! Zun! Zun!
Il Reuccio incantato teneva fissi gli occhi su la ragazza. Il sarto, che non sapeva chi egli fosse, lo sg*ridò:
- Eh, amico! Che guardate?
- Guardo vostra figlia, che è più bella del sole.
- Se fosse più bella del sole, rimarreste acc*ecat0.
- Ahi! Ahi!
Il Reuccio portò le mani agli occhi; a quelle parole del sarto gli occhi gli s'erano seccati.
Lo scudiero condusse per mano il Reuccio ciec0 a palazzo, e raccontò quello ch'era accaduto.
Il Re e la Regina montarono in fur0re contro il sarto.
- Vec*chio streg0ne! Arr*estatel0 e conducetelo qui.
Lo legar0no peggio d'un ladr0 e lo condussero innanzi al Re.
- Maestà, io non ci ho colpa!
- Vec*chi0 streg0ne! O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arr0stire vivo vivo!
Il p0vero sarto, dallo sp*avent0, era già mezzo m0rt0.
- Maestà, io non ci ho c0lpa!
- Ti do tre giorni di tempo.
E lo fece chiudere in una prigione dello stesso palazzo reale.
Ogni mattina il Re andava a trovarlo, e dallo sportellino dell'uscio gli diceva:
- O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arr0stire vivo vivo. E' passato un giorno.
- O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arr0stire vivo vivo. Son passati due giorni.
Il p0vero sarto non rispondeva; si stru*ggeva in la*crime, pensando alla figliuola senza braccia, di cui non sapeva niente da più giorni, e che sarebbe rimasta da sola al mondo in balìa della cattiva sorte:
- Figliuola mia sv*entura*ta!
E il Re, dallo sportellino dell'uscio:
- O rendi la vista al Reuccio o ti fo arrostire vivo vivo. Sono passari tre giorni.
- Maestà, non ci ho c0lpe! Grazia Maestà!
Alemno, prima di morire, fatemi rivedere la figliuola!
La grazia gli fu concessa.
Il Re e la Regina, che avevano sentito magnificare da Reuccio la grande bellezza di costei, vollero vederla quand'ella venne a apalazzo reale.
Appena entrata nel salone, dov'essi si trovavano insieme co, Reuccio ciec0, questi, battendo le mani dall'allegrezza, si mise a gridare:
- La vedo! La vedo! Accanto a lei c'è una signora.
Il Re e la Regina credettero che il Reuccio fosse ammattito.
Dov'era quella signora?
- E' lì, accanto a lei, e la tiene per la mano.
- Per la mano? Se non ha braccia!
- Io la vedo con le braccia; ma non vedo voialtri.
Il Re e la Regina, per accertarsi se il Reuccio la vedeva davvero, facevano muovere la ragazza, in punta di piedi, per il salone; e il Reuccio la seguiva con gli occhi ina*riditi:
E' lì... Ora si affaccia alla finestra... Ora fa così col capo... Ora si siede per terra; e la signora che l'accompagna fa pure quel che fa lei.
Il Re e la Regina, stupiti, non sapevano che pensare di quel miracolo.
- Chi è, la bella ragazza, la signora invisibile che vi accompagna?
- Maestà, non lo so; son venuta a palazzo....Ahi! Ahi!
La ragazza sentiva acuti d0lori nel punto dove avrebbero dovuto essere attaccate le braccia.
- Ahi! Ahi!
Ed ecco venirle fuori prima la punta delle dita, poi le mani, poi i polsi, poi gli avambracci, poi le braccia intere, bellissime e bianche come l'alabastro.
- Il Reuccio, urtando il Re e la Regina, si pre*cipitò verso la ragazza, le prende ansiosamente le mani e comincia a strofinarle su gli occhi:
- Manine fatate, sanatemi voi!
ma strofinava inutilmente.
- Manine fatate, sanatemi voi!
Ma strofinava inutilmente.
- Zitti - fece il Reuccio. - La signora parla.
Il Re e la Regina, dopo tutto quello che avevano visto, erano proprio atterriti di quella signora invisibile.
- Che dice?
- Manina, manina,
Non è mano di Regina.
Per toccare e sanare
Di Regina diventare.
Era chiaro: se il Reuccio voleva recuperare la vista, doveva sposare quella ragazza.
La Regina si s*degnò:
- Sposare a figlia d'un sarto!
Ma il Re, che voleva molto bene al figliuolo, non se lo fece ripetere due volte.
- Siano mani di Reginotta; parola di Re!
E gli occhi del Reuccio, toccati dalle mani della ragazza, tornarono a un tratto qali erano una volta, anzi più vivaci e più splendenti!
Naturalmente il sarto fu cavato di prigi0ne e si cominciarono subito i preparativi delle nozze del Reuccio.
La ragazza, vestiva con gli abiti da Reginotta, pareva davvero un sole.
La ragazza, senza scomporsi, andò di là, prese l'ago datole dalla signora e, inginocchiandosi, cominciò umilmente il rammendo del manto della Regina.
La Regina, vedendola così rassegnata, diventò una vi*pera:
- Non sapete dare nemmeno un punto!
E le strappò di mano il manto reale.
- Infatti, - rispose la ragazza - non ho mai dato un punto in vita mia.
L'ago intanto era rimasto attaccato alla stoffa e durante la cerimonia degli sponsali la Regina si sentiva cucire, cucire tutti i panni addosso, senza saperesi spiegare che diamine di lavoro fosse quello. Era così ravviluppata, che non poteva muovere le gambe.
E l'ago cuciva, cuciva, cuciva; e quando non ebbe più niente da cucire nei panni, cominciò a cucire questi alle ca*rni della Regina.
Figuratevi i suoi strilli! Tentava di strap*parsi le vesti; ma la cucitura era così forte, che ci voleva ben altro per disfarla.
E l'ago cuciva, cuciva, cuciva; e la Regina stri*llava come una paz*za, sentendosi trappassare le ca*rni da quella punta aguzza che non esitava un momento. Braccia, spalle, gambe, l'ago cuciva ogni cosa, cuciva, cuciva, cuciva; e gli str*illi della Regina salivano al cielo!
Alla fine, non potendone più, si bu*ttò ai piedi della Reginotta:
- Reginotta, perdono! Salvatemi voi!
La Reginotta, che aveva già capito di esser protetta da una Fata, pregò:
- Fata benigna, salvatela voi!
Appena detto questo, l'ago cessò di cucire, e tutte le cuciture si disfecero da sé.
Reuccio e Reginotta vissero felici e conenti,
E NOI SIAMO QUI, SENZ'AGO NE' NIENTE.
13 anni e 1 mese fa
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È qui che si può scrivere di tutto?
Sì? Bene, allora beccatevi questa lingua di cane!
Chi può fornire traduzione, si faccia vanti.
~~~
Poeti in rissa in osteria virtuale Riportiamo un bellissimo scambio di omaggi e di invettive più o meno poetiche, frullanti una macedonia di lingue e di dialetti ebbra di spasmi, intercorso sulla bacheca del gruppo feisbucchieroLa superbia punita ovvero Diciamo basta alla poesia mediocrefondato dal nostro colendissimo accademico Nicola Legatore da Pisa. Del signore che ha provocato la «cagnara» modifichiamo il nome in Pelusius, seguendo la lezione di Daniele Ventre. Partecipa anche Marco Palasciano, Presidente dell'Accademia Palasciania. Raffaello Sorbi, Osteria a Fiesole (1889) PELUSIUS Bene-bene... infine gli eletti-censori-giudici... io che sono un poeta d'osteria me ne strafotto del vostro olimpo... preferisco la mer-da della vita comune all'asettico effluvio da pronto-soccorso che mi riempie le narici mentre "sento" le vostre auliche parolone!
LEGATORE E simmetricamente io me ne strafotto della tua osteria e del suo sano effluvio di letame. Se questo posto non ti piace, vattene! (Ma chi l'ha invitato?)
PALASCIANO Embè? embè? a Llegató, e cche è? che fine nce hai fatto fà alle tóie bbone manère? addò stammo? daddovèro drento a n'ostarìa? e ddàmoce nu tono; simmo li Olimpionici, nùie, o no? e cche ccacchio d'Olimpo famo mò, si ce mettìmo ad attaccà cagnara co li furastieri gnuranti? arricòrdate da addò ne venimmo; dietro di noi c'è tutta una cordata, che da Omero arriva all'Oulipò; e ti pare che Kafka si sarebbe inkafkato così? che Rabelais, arrabbliandosi, si sarebbe rabbassato a tanto? risollèvati, o frato mio, e racquieta l'acque inturbinate e intorbidate del tuo spirito; torna, deh, torna sulla dritta via, e lascia altrui menarsi all'osteria.
LEGATORE A Palascià, lassame fà: spigni de qua, tira de là, s'à da aggiustà 'sta storia qua! O che tte ttu ti credi ch'i' m' lass' vuttà 'a lutamm' ncuollo dar primo o dar seconno che passa pe dde qqua? E nno! Me spiace! Diciamo pane ar pane e vvino ar vino! Mò quanno questi vèneno cor venèno ner core e se vonno sfogà
de quarche lloro frustrazzione amara,
io li manno a accattarse na chitara
ar paese da ndove so' vvenuti!
Se n'èschino de qqua, e ttanti saluti:
nun ce tórnino a rrompe li cojoni
cor dì che semo caca-paroloni!
E ddaje e ddaje, e shfutt' 'a mazzarella,
m' shcass' u cazz' e 'a vott' i' na petrella!
Poi nun v'allamentate si ve còce:
n'ata vòta 'a tenìue 'n cuorp', 'a voce!
PALASCIANO Ma il bon ton,
ussignùr?
sù, fa' il buon,
Ligatùr!
Fuori è ormai
di controllo;
qui son guai;
io lo mollo.
LEGATORE Quiètate, Palascià; me so' arripriso,
cu na durmuta e na sciacquata 'e viso.
Sulamente me resta stu vernacolo
ibrido, intriso 'e vino e avanspettacolo,
e forse restarrà pe qquarche iorno,
ad alitarme mmocca e ttorno torno.
Agge pacienza, primma o poi me passa;
ll'ànema mia nunn è, nce 'o ssai, vaiassa.
Chest'è la differenza tra 'o sapiente
e chi nun se ne fotte 'e sapè niente:
'o primmo sape pure 'e nun sapè,
ll'ato crede 'e sapè 'a vita ched è;
'o primmo può anche scendere dal monte
Parnaso al piano, e all'osteria di fronte;
l'altro può solo stare in osteria,
ché del monte salir non sa la via.
PALASCIANO Applausi! Applausi! Applausi! Applausi! Applausi!
Legatore, che orgasmo che mi causi!
LEGATORE Grazie! E a ffinì 'n bellezza, mano ar Chianti:
un giro de bbevute a ttutti quanti!
PELUSIUS Lasciando questa stanza
brindo a comparanza
mi sono divertito
ritorno al mio partito
di quelli poveracci
che cantano mo-rtacci
e se v'ho provocato
chiamate l'avvocato ma quel che più mi piace:
io sono contumace.
Iu su de lu Salentu
e comu dicu pensu
e core tengu am' piettu
vu tornu lu rispettu
ca prima vja rrubbatu
iu fiaccu e malfamatu.
Però iu su sinceru...
me stonu cullu mieru!
BUONAVITA A TUTTI Dimenticavo: mi son veramente divertito a scatenare la "cagnara"... anche perchè in che modo avrei mai potuto godere della verve di Nicola e Marco?... grande rispetto, dunque... e scusate la presunzione.
PALASCIANO Viva lu mieru che face ballare!
Senza lu mieru no pozzu campà!
Viva el signur che avviò la cagnara,
senza la qual non cantàuimo qua!
Viva fratel Ligatùr brontolìn!
I tarallucci azzuppiamo nel vin!
LEGATORE Viva! Ma tu nun me pòi far rimare
are con ara, diobòn, Palascià!
Viva! Pacienza! Fernuta è ogne gara,
viva la pace che l'è riturnà!
Viva el Salento e el signur salentin
che diè la stura ai mie' versi ed al vin!
VENTRE Me l'avete fatto uscire dal cuore con tutto questo vespaio:
Ecce, ferox caupo Pelusius odit Olympum:
fervida contemptos suscitat ira deos.
«Vim Bavii, socii, patimur: servemus Olympum»
Iuppiter adloquitur Marcius, «arma viris!»
Carmina mutantur: cauponia laudat Olympus:
rident Volcani numina læta iocis.
Instabilis vario casu vapulatur Olympus:
tanta movet vates vana volubilitas!
Insomma, much ado for nothing...
12 anni e 8 mesi fa
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Buona lettura
OCCHIO DEL CI-CLO-NE
“Pensi che ce l’abbia?”
“Che abbia cosa?”
“Un futuro.”
“Non puoi avere un futuro.”
“Sei sempre così sottile.”
“Lo sai, sono fatto così.”
“E io, io ce l’ho un futuro?”
“Sì, tu ce l’hai.”
“è un bene?”
“Non lo so, penso di si.” disse lui, sdraiandosi sul prato.
Era una notte in cui si potevano vedere un sacco di stelle.
“Raccontami qualcosa di rassicurante” le disse lei.
“Non ho niente da raccontarti.”
“Questo è rassicurante.”
“Trovi?”
“Sì, è rassicurante che tu non abbia niente da raccontarmi.”
Stettero in silenzio per dieci minuti, sdraiati sulla terra asciutta,
pancia in su, a guardare il cielo.
Lui cominciò a dire: “Sai, questo...
Questo mondo alle volte mi fa un po’ schi-fo.
È patetico vivere così.”
“E come vorresti vivere?”
“Non lo so, questo è l’unico modo in cui ci è dato vivere,
in cui ci è dato saperlo.”
“E allora di che ti lamenti?” – chiese lei.
“Non lo so.” – rispose lui.
“Non sai un sacco di cose.” – gli disse.
I rami di un ciliegio iniziarono a scarmigliarsi.
I fili d’erba si piegarono e sui loro corpi
qualche cosa come polline e petali, passò rapido in folata.
Il vento s’era alzato quasi d’improvviso.
Lui pensò che fosse una cosa strana, perché non era nuv0loso.
E anche lei pensò qualcosa di simile.
“Vorrei che fosse così per sempre”
disse lei coprendosi appena gli occhi con la mano.
“Così come?”
“Così.”
Il vento non accennava a diminuire,
Ora al resto si era aggiunta qualche foglia,
qualche pigro volatile notturno risvegliato dalla corrente d’aria
sorvolò il pezzo di cielo sopra di loro.
“Secondo te sta per venire una tempe-sta?”
Lei si era alzata,
la gonna era piegata tutta da una parte come i suoi capelli.
“Siamo nell’occhio del cicl0ne. Ci siamo sempre stati,
solo che adesso tira vento.” Anche lui si era alzato in piedi.
“Che facciamo?”
“Aspettiamo che passi.”
“Passerà subito?”
“Quando sarà passato, ti sembrerà un secolo fa.”
“Ho pa-ura.”
“Non devi fare nulla,
quando sei nell’occhio del cicl0ne devi restare ferma.”
Il vento disperse le loro voci e il loro ricordo,
fra gli alberi, tra le dune di fiori.
Tutto passa, tutto va, nulla resta. Mah...
Ciao
(’’v’’)
’v’
(’’v’’)
’v’
(’’v’’)
’v’
Forse ho messo qualche doppia di troppo...
Forse, ma non ne sono sicura.
Controllo.
L'AGO
C'era una volta un sarto, che campava la vita mettendo toppe e rivoltando vestiti usati.
Nella sua botteguccia ci si vedeva appena; perciò lavorava sempre davanti la porta, con gli occhiali sul naso; e, tirando l'ago, canterellava:
- Il mal tempo dee passare,
Il bel tempo dee venire.
Zun! Zun! Zun!
Aveva una figliuola bella quanto il sole, ma senza braccia, ed era la sua di*sperazione. Le vicine lo aiutavano: oggi una, domani un'altra, si prestavano a vestire la ragazza, a pettinarla, a lavarle la faccia; e doveva imboccarla. A ogni boccone, brontolava:
- Chi non ha braccia, non dovrebbe aver bocca!
La ragazza, invece di arrabbiarsi per questo continuo brontolio, si metteva a ridere e rispondeva:
- Dovevate farmi le braccia e non la bocca. La colpa è vostra.
- Hai ragione.
E il vecchio riprendeva a lavorare, canticchiando:
- Il mal tempo dee passare.
- Il buon tempo dee venire.
Zun! Zun! Zun!
Invece il cattivo tempo peggiorò: gli venne meno la vista, gli occhiali non lo aiutarono più; e gli avvenatori vedendo quei puntacci da orbo, che facevano parere più brutte fin le toppe, non ne vollero più sapere di lui e del suo lavoro.
- Figliuola mia, come faremo?
- Faremo la volontà di Dio.
- Il bel tempo dee venire.
Per abitudine, ogni mattina il sarto, aperta la botteguccia, si metteva a sedere davanti la porta con le mani in mano, aspettando gli avvenat0ri che non comparivano, e al suo solito cantarellava.
Un giorno passa una signora, che vicino a lui si china e raccatta da terra un ago lucente:
- Quest'ago è vostro, buon uomo.
- Grazie. Che debbo farne? A cucire non ci vedo più.
La ragazza, sentendo parlare, s'era affacciata alla porta.
- Prendentelo voi, bella figliuola.
- Non ho le braccia, signora mia.
- Ve l'appunto sul busto; è un buon ago.
Il vecchio disse:
- Biscotto a chi non ha denti. Così va il mondo!
- Allegro, compare!
- Il mal tempo se n'è andato,
Il bel tempo è già arrivato.
Zun! Zun! Zun!
La signora, ridendo, scantonò e sparì.
Poco dopo, ecco un avvenatore con in mano una giacca vecchia, tutta strappi e buchi:
- Rattoppatemi questa qui. Vi pago avanti; ecco uno scudo. Verrò a riprenderla domani.
Il sarto, vedendosi in mano quello scudo, che arrivava a proposito, non ebbe animo di rispondergli: - A cucire non ci vedo più. - Rimase lì, con naso all'aria, stupito dalla buona fortuna.
Andò subito a fare un pò di spesa, e poi si mise a cuocere la minestra, rimuginando le parole dello sconosciuto: Verrò a riprenderla domani.
- Figliuola mia, come faremo domani?
- Da qui a domani c'è ventiquattr'ore.
Finito di desinare, la ragazza guarda per caso la giacca e da un grido di sorpresa: la giacca era già bell'e rattoppata, e così bene, che pareva quasi nuova. In una manica c'era appunto un ago.
- E' l'ago della signora!
Infatti l'ago non era più al posto, dove la signora lo aveva messo.
- Zitta, figliuola; quest'ago è la nostra fortuna.
Il padrone della giacca venne a riprenderla, e rimase contentissimo del lavoro. Chiunque vedeva quella raccomodatura, restava meravigliato.
E gli avvenatori tornarono ad affluire alla botteguccia del sarto. Sul banco c'era sempre una montagna di vestiti ve*cchi, così stra*cciati che neppure il cenciai0 li avrebbe voluti. Il sarto se ne stava tutta la giornata seduto davanti la porta con le mani in mano canterellando:
- Il mal tempo de n'è andato,
- Il bel tempo è già tornato.
Zun! Zun! Zun!
- Sarto, e il lavoro chi lo fa?
- Lo faccio io.
- Stando con le mani in mano?
- Stando con le mani in mano.
Verso sera gli avvenatori tornavano e trovavano tutto bell'e allestito. Le raccomodature erano fatte così bene, che quei vestiti vecchi parevano quasi nuovi.
- Sarto, e il lavoro chi l'ha fatto?
- L'ho fatto io.
- Stando con le mani in mano?
- Stando con le mani in mano.
Un giorno il Reuccio, passando a cavallo insieme con uno scudiero davanti la bottega del sarto, vide la ragazza che stava a sedere accanto al padre e rimase incantato di quella bellezza.
- Ha un aspetto da Regina!
- Ma è senza braccia, Reuccio!
- Peccato!
Ci ripensò tutta la notte, e il giorno appresso volle rivederla. Passò a cavallo, insieme con lo scudiero, e rimase più incantato del giorno avanti.
- Ha un aspetto da Regina. Pec*cato non abbia le braccia!
Ci ripensò tutta la notte, e al giorno appresso volle rivederla. Giunto davanti la bottega, sentendo canterellare il sarto, fermò il cavallo:
- Che canterellate, buon uomo?
- Il mal tempo se n'è andato,
Il bel tempo è già arrivato.
Zun! Zun! Zun!
Il Reuccio incantato teneva fissi gli occhi su la ragazza. Il sarto, che non sapeva chi egli fosse, lo sg*ridò:
- Eh, amico! Che guardate?
- Guardo vostra figlia, che è più bella del sole.
- Se fosse più bella del sole, rimarreste acc*ecat0.
- Ahi! Ahi!
Il Reuccio portò le mani agli occhi; a quelle parole del sarto gli occhi gli s'erano seccati.
Lo scudiero condusse per mano il Reuccio ciec0 a palazzo, e raccontò quello ch'era accaduto.
Il Re e la Regina montarono in fur0re contro il sarto.
- Vec*chio streg0ne! Arr*estatel0 e conducetelo qui.
Lo legar0no peggio d'un ladr0 e lo condussero innanzi al Re.
- Maestà, io non ci ho colpa!
- Vec*chi0 streg0ne! O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arr0stire vivo vivo!
Il p0vero sarto, dallo sp*avent0, era già mezzo m0rt0.
- Maestà, io non ci ho c0lpa!
- Ti do tre giorni di tempo.
E lo fece chiudere in una prigione dello stesso palazzo reale.
Ogni mattina il Re andava a trovarlo, e dallo sportellino dell'uscio gli diceva:
- O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arr0stire vivo vivo. E' passato un giorno.
- O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arr0stire vivo vivo. Son passati due giorni.
Il p0vero sarto non rispondeva; si stru*ggeva in la*crime, pensando alla figliuola senza braccia, di cui non sapeva niente da più giorni, e che sarebbe rimasta da sola al mondo in balìa della cattiva sorte:
- Figliuola mia sv*entura*ta!
E il Re, dallo sportellino dell'uscio:
- O rendi la vista al Reuccio o ti fo arrostire vivo vivo. Sono passari tre giorni.
- Maestà, non ci ho c0lpe! Grazia Maestà!
Alemno, prima di morire, fatemi rivedere la figliuola!
La grazia gli fu concessa.
Il Re e la Regina, che avevano sentito magnificare da Reuccio la grande bellezza di costei, vollero vederla quand'ella venne a apalazzo reale.
Appena entrata nel salone, dov'essi si trovavano insieme co, Reuccio ciec0, questi, battendo le mani dall'allegrezza, si mise a gridare:
- La vedo! La vedo! Accanto a lei c'è una signora.
Il Re e la Regina credettero che il Reuccio fosse ammattito.
Dov'era quella signora?
- E' lì, accanto a lei, e la tiene per la mano.
- Per la mano? Se non ha braccia!
- Io la vedo con le braccia; ma non vedo voialtri.
Il Re e la Regina, per accertarsi se il Reuccio la vedeva davvero, facevano muovere la ragazza, in punta di piedi, per il salone; e il Reuccio la seguiva con gli occhi ina*riditi:
E' lì... Ora si affaccia alla finestra... Ora fa così col capo... Ora si siede per terra; e la signora che l'accompagna fa pure quel che fa lei.
Il Re e la Regina, stupiti, non sapevano che pensare di quel miracolo.
- Chi è, la bella ragazza, la signora invisibile che vi accompagna?
- Maestà, non lo so; son venuta a palazzo....Ahi! Ahi!
La ragazza sentiva acuti d0lori nel punto dove avrebbero dovuto essere attaccate le braccia.
- Ahi! Ahi!
Ed ecco venirle fuori prima la punta delle dita, poi le mani, poi i polsi, poi gli avambracci, poi le braccia intere, bellissime e bianche come l'alabastro.
- Il Reuccio, urtando il Re e la Regina, si pre*cipitò verso la ragazza, le prende ansiosamente le mani e comincia a strofinarle su gli occhi:
- Manine fatate, sanatemi voi!
ma strofinava inutilmente.
- Manine fatate, sanatemi voi!
Ma strofinava inutilmente.
- Zitti - fece il Reuccio. - La signora parla.
Il Re e la Regina, dopo tutto quello che avevano visto, erano proprio atterriti di quella signora invisibile.
- Che dice?
- Manina, manina,
Non è mano di Regina.
Per toccare e sanare
Di Regina diventare.
Era chiaro: se il Reuccio voleva recuperare la vista, doveva sposare quella ragazza.
La Regina si s*degnò:
- Sposare a figlia d'un sarto!
Ma il Re, che voleva molto bene al figliuolo, non se lo fece ripetere due volte.
- Siano mani di Reginotta; parola di Re!
E gli occhi del Reuccio, toccati dalle mani della ragazza, tornarono a un tratto qali erano una volta, anzi più vivaci e più splendenti!
Naturalmente il sarto fu cavato di prigi0ne e si cominciarono subito i preparativi delle nozze del Reuccio.
La ragazza, vestiva con gli abiti da Reginotta, pareva davvero un sole.
La ragazza, senza scomporsi, andò di là, prese l'ago datole dalla signora e, inginocchiandosi, cominciò umilmente il rammendo del manto della Regina.
La Regina, vedendola così rassegnata, diventò una vi*pera:
- Non sapete dare nemmeno un punto!
E le strappò di mano il manto reale.
- Infatti, - rispose la ragazza - non ho mai dato un punto in vita mia.
L'ago intanto era rimasto attaccato alla stoffa e durante la cerimonia degli sponsali la Regina si sentiva cucire, cucire tutti i panni addosso, senza saperesi spiegare che diamine di lavoro fosse quello. Era così ravviluppata, che non poteva muovere le gambe.
E l'ago cuciva, cuciva, cuciva; e quando non ebbe più niente da cucire nei panni, cominciò a cucire questi alle ca*rni della Regina.
Figuratevi i suoi strilli! Tentava di strap*parsi le vesti; ma la cucitura era così forte, che ci voleva ben altro per disfarla.
E l'ago cuciva, cuciva, cuciva; e la Regina stri*llava come una paz*za, sentendosi trappassare le ca*rni da quella punta aguzza che non esitava un momento. Braccia, spalle, gambe, l'ago cuciva ogni cosa, cuciva, cuciva, cuciva; e gli str*illi della Regina salivano al cielo!
Alla fine, non potendone più, si bu*ttò ai piedi della Reginotta:
- Reginotta, perdono! Salvatemi voi!
La Reginotta, che aveva già capito di esser protetta da una Fata, pregò:
- Fata benigna, salvatela voi!
Appena detto questo, l'ago cessò di cucire, e tutte le cuciture si disfecero da sé.
Reuccio e Reginotta vissero felici e conenti,
E NOI SIAMO QUI, SENZ'AGO NE' NIENTE.
Sì? Bene, allora beccatevi questa lingua di cane!
Chi può fornire traduzione, si faccia vanti.
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Poeti in rissa in osteria virtuale
Riportiamo un bellissimo scambio di omaggi e di invettive più o meno poetiche, frullanti una macedonia di lingue e di dialetti ebbra di spasmi, intercorso sulla bacheca del gruppo feisbucchiero La superbia punita ovvero Diciamo basta alla poesia mediocrefondato dal nostro colendissimo accademico Nicola Legatore da Pisa. Del signore che ha provocato la «cagnara» modifichiamo il nome in Pelusius, seguendo la lezione di Daniele Ventre. Partecipa anche Marco Palasciano, Presidente dell'Accademia Palasciania.
Raffaello Sorbi, Osteria a Fiesole (1889)
PELUSIUS
Bene-bene... infine gli eletti-censori-giudici... io che sono un poeta d'osteria me ne strafotto del vostro olimpo... preferisco la mer-da della vita comune all'asettico effluvio da pronto-soccorso che mi riempie le narici mentre "sento" le vostre auliche parolone!
LEGATORE
E simmetricamente io me ne strafotto della tua osteria e del suo sano effluvio di letame. Se questo posto non ti piace, vattene! (Ma chi l'ha invitato?)
PALASCIANO
Embè? embè? a Llegató, e cche è? che fine nce hai fatto fà alle tóie bbone manère? addò stammo? daddovèro drento a n'ostarìa? e ddàmoce nu tono; simmo li Olimpionici, nùie, o no? e cche ccacchio d'Olimpo famo mò, si ce mettìmo ad attaccà cagnara co li furastieri gnuranti? arricòrdate da addò ne venimmo; dietro di noi c'è tutta una cordata, che da Omero arriva all'Oulipò; e ti pare che Kafka si sarebbe inkafkato così? che Rabelais, arrabbliandosi, si sarebbe rabbassato a tanto? risollèvati, o frato mio, e racquieta l'acque inturbinate e intorbidate del tuo spirito; torna, deh, torna sulla dritta via, e lascia altrui menarsi all'osteria.
LEGATORE
A Palascià, lassame fà: spigni de qua, tira de là, s'à da aggiustà 'sta storia qua! O che tte ttu ti credi ch'i' m' lass' vuttà 'a lutamm' ncuollo dar primo o dar seconno che passa pe dde qqua? E nno! Me spiace! Diciamo pane ar pane e vvino ar vino! Mò quanno questi vèneno cor venèno ner core e se vonno sfogà
de quarche lloro frustrazzione amara,
io li manno a accattarse na chitara
ar paese da ndove so' vvenuti!
Se n'èschino de qqua, e ttanti saluti:
nun ce tórnino a rrompe li cojoni
cor dì che semo caca-paroloni!
E ddaje e ddaje, e shfutt' 'a mazzarella,
m' shcass' u cazz' e 'a vott' i' na petrella!
Poi nun v'allamentate si ve còce:
n'ata vòta 'a tenìue 'n cuorp', 'a voce!
PALASCIANO
Ma il bon ton,
ussignùr?
sù, fa' il buon,
Ligatùr!
Fuori è ormai
di controllo;
qui son guai;
io lo mollo.
LEGATORE
Quiètate, Palascià; me so' arripriso,
cu na durmuta e na sciacquata 'e viso.
Sulamente me resta stu vernacolo
ibrido, intriso 'e vino e avanspettacolo,
e forse restarrà pe qquarche iorno,
ad alitarme mmocca e ttorno torno.
Agge pacienza, primma o poi me passa;
ll'ànema mia nunn è, nce 'o ssai, vaiassa.
Chest'è la differenza tra 'o sapiente
e chi nun se ne fotte 'e sapè niente:
'o primmo sape pure 'e nun sapè,
ll'ato crede 'e sapè 'a vita ched è;
'o primmo può anche scendere dal monte
Parnaso al piano, e all'osteria di fronte;
l'altro può solo stare in osteria,
ché del monte salir non sa la via.
PALASCIANO
Applausi! Applausi! Applausi! Applausi! Applausi!
Legatore, che orgasmo che mi causi!
LEGATORE
Grazie! E a ffinì 'n bellezza, mano ar Chianti:
un giro de bbevute a ttutti quanti!
PELUSIUS
Lasciando questa stanza
brindo a comparanza
mi sono divertito
ritorno al mio partito
di quelli poveracci
che cantano mo-rtacci
e se v'ho provocato
chiamate l'avvocato
ma quel che più mi piace:
io sono contumace.
Iu su de lu Salentu
e comu dicu pensu
e core tengu am' piettu
vu tornu lu rispettu
ca prima vja rrubbatu
iu fiaccu e malfamatu.
Però iu su sinceru...
me stonu cullu mieru!
BUONAVITA A TUTTI
Dimenticavo: mi son veramente divertito a scatenare la "cagnara"... anche perchè in che modo avrei mai potuto godere della verve di Nicola e Marco?... grande rispetto, dunque... e scusate la presunzione.
PALASCIANO
Viva lu mieru che face ballare!
Senza lu mieru no pozzu campà!
Viva el signur che avviò la cagnara,
senza la qual non cantàuimo qua!
Viva fratel Ligatùr brontolìn!
I tarallucci azzuppiamo nel vin!
LEGATORE
Viva! Ma tu nun me pòi far rimare
are con ara, diobòn, Palascià!
Viva! Pacienza! Fernuta è ogne gara,
viva la pace che l'è riturnà!
Viva el Salento e el signur salentin
che diè la stura ai mie' versi ed al vin!
VENTRE
Me l'avete fatto uscire dal cuore con tutto questo vespaio:
Ecce, ferox caupo Pelusius odit Olympum:
fervida contemptos suscitat ira deos.
«Vim Bavii, socii, patimur: servemus Olympum»
Iuppiter adloquitur Marcius, «arma viris!»
Carmina mutantur: cauponia laudat Olympus:
rident Volcani numina læta iocis.
Instabilis vario casu vapulatur Olympus:
tanta movet vates vana volubilitas!
Insomma, much ado for nothing...
Grazie per gli applausi!
Quando posso ritirare il premio? :-))