A volte, m'accendo una candela dentro per restare punto cardinale al mio costante perdermi; è così che mi segno cammino e destino, sui viali scoscesi e sinistri, piluccando briciole lasciate per depistarmi le traiettorie. E più m'accendo, più m'annerisco.
Mi dico ad ogni tramonto che il buio custodirà il rosso d'un cielo che mi cade sulle iridi, a conservarne l'impressione e lo spettro e dirmi che l'alba lo rinnova in scoppio, il respiro in tremore, il cuore in palpito, tu accanto.
Quando più risucchia, tanto libro e quanto più plano, allora, sprofondo; se fossi acqua di lago, con la sua calma, fluirei, ma in sorte ho la lava del vulcano e ribollo nella mia fucina, aggrovigliando i nervi anche alle caviglie tremanti.
Ti porgo verità nuove, eludendo ogni pesantezza spuria, retaggio d'anelli a trama stretta che ci tenne prigionieri. Con polpastrelli tremuli, levigati, t'accompagno il mento a volgere il volto e staglio il tuo profilo di tre quarti su questo nero che c'ammanta le anime duellanti, come spadaccini che non vogliono ferirsi. La mia pelle è maieutica del tuo piacere mentre intingi pennelli colorati nella mia tela glabra.
Nella mia testa, tutto assume la forma dell'appartenenza. Possiedo i mondi ed i confini, sponde di fiumi ed argini. Mi riservo per ultime le emozioni ed il cuore. Da che qualcosa entra nella mia testa, io lo immagino un po' anche mio e so che nessuno mai lo avrà come appartiene a me.