Scritta da: Mariella Buscemi
Credo alle funi mentali che tirano a sé e imbrigliano i pensieri dell'altro, fatta eccezione per chi se ne va in giro con le cesoie, come la vecchia parca che decide i destini.
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Credo alle funi mentali che tirano a sé e imbrigliano i pensieri dell'altro, fatta eccezione per chi se ne va in giro con le cesoie, come la vecchia parca che decide i destini.
A masticarci gli orli come se nei corpi ci fossero cerniere, avanzando di taglio netto con la lama poco affilata di forbici arrugginite. In punta, lo strappo. Sui bordi, il tetano. Non si era visto amore più odio di così.
Stretta all'accadere dell'acqua, la risacca mi fa corda. Funi d'appiglio, noi, ogniqualvolta ci siamo detti mare. Tra l'immenso e l'abisso, trattenuta a malapena, agguantata in riva, increspata dal tocco. Sei stato alba e marea, ché sul fare della sera basto già io con il mio buio che scende tra le dita ad ammettere la paura e a chiedere l'abbraccio. E tu, vivo e io notturna. Dormirci. Poi, confonderci. Dirmi cielo, in una notte di mare pieno. Come la luna.
Se dovesse venirti voglia di cercarmi ancora, vorrei lo facessi col pretesto più sciocco che esista al mondo, con la richiesta più insulsa, con i modi più impacciati, venendomi sotto casa, gridandomi qual è la farmacia di turno, ché le farmacie nella tua città non rispettano la reperibilità e hai pensato bene di dover prendere il primo volo per cercarne una nei miei pressi. Dirmi che, se proprio non se ne trovasse una aperta, vorresti un mio bacio al sapore di ketoprofene e che per le tue algie più acute, sarebbe bene prendere precauzioni - che si sa che prevenire è meglio che curare - e salire su da me e restarci tutta la notte per assumere abbracci al bisogno.
Sapessi essere mancanza, sarei il bisogno del cielo che volta le spalle a Dio rimasto senza preghiera da professare. Mi rimarrebbero le mani giunte e il corpo in avanti, ma il ginocchio che non vuol toccare terra. È stato triste lo schiaffo. La pelle mi s'è oscurata del viola vergogna. L'avrebbero chiamato livido. Sapessi ritornarmi, sarei l'ascesa e l'asciutto dopo una pioggia scosciante. La redenzione e il perdono.
Ritorno con i segni in evidenza. Fotostatica, a rubarmi il sangue. Non ricordo. Sono una memoria ambulante con l'anima in rewind.
Non ho bisogno di scritture estetiche, ma di uncini che mi sbrindellino la carne come le bocche dei pesci nel bacio dell'amo.
Ho avuto pudore della luce quando mi hai scostato le ombre.
Non parlo del tempo perso a guardare indietro, né dell'inciampo, né del come io mi sia incamminata, di come non mi sia arrestata per molto tempo senza arrivare, né di come mi sia fermata e, ad un certo punto, mi sia vista. Parlo di come sia rimasta di tre quarti, tra due tempi che sono due mondi ed io che mi sono fatta doppia per sopperire allo sminuirmi e al dimezzarmi. Io, che di somma vivo, sono stata sottrazione, ché degli spazi m'era rimasto solo il senso dell'angusto e di tutti i sogni, il tetto spiovente sopra la testa. Ora, è tempo nuovo.
Attendo. Protesa. Ho spiegato le ali come se la natura umana non mi appartenesse più. Inguainata dai miei mali come fossero tatuaggi sulle arterie, ché quando il sangue pompa e irrora è lì che la pelle si tinge di ciò che è stato. Sotto i resti della paura, il coraggio è in residuo. Se seppellisco ricordi, l'antico cova sotto ai bracieri d'un'anima in ebollizione. Dentro, i tizzoni ancòra vivi. Attendo. Protesa. Ed è fulmine sulle visioni. Il passato ha ciglia lunghe, ma pretende i miei occhi. Io, che ho iridi attaccate sui pori. Sono in mancanza dei meno, dei forse, del medio. Esisto nel più e più forte, ché in un giorno vivo tutto il bene del mondo e in quello a seguire, mi chiedo se sono io il male. Attendo. Protesa. Le albe che sorgono ogni mattina, ma che a me sembrano sempre impreviste e credo che ogni alone di luce sia un equivoco o una provocazione delle mie notti.