Io sono fatta così: quando sto male, non venitemi a dire che c'è di peggio o devo guardare ai grandi mali del mondo. Non mi interessano i paragoni, se sto male il mio dolore ha dignità d'essere e non devo o voglio dimenticarmene o lasciarlo sbiadire se confrontato rispetto a ciò che è oggettivamente grave. Se ragionassimo così, nessuno di noi potrebbe dire d'aver problemi e roba simile, infatti.
Hanno dato per disperse le mie mani. Ho inseguito la linea della vita fin dove una vena – coraggiosa – in evidenza, pompava tanto di quel sangue da sentirmi così viva che ad ogni battito avanzavo d'un passo e sul cuore in gola sono, addirittura, arrivata a scalare un'intera montagna alla ricerca della mia anima esule, eremita, a ottocento piedi da terra. Libravo. Non direi fossero nuvole, ma le mie mani dentro alle tue. Lì, le ho ritrovate. Così immense nella conca dei palmi con il dorso della difesa rovesciato e le nocche a offrire le spalle al passato. Sono state ritrovate le mie mani. Avrebbero dovuto, sin da sùbito, seguire le tue impronte – io, così attenta alle orme degli altri – sono state ritrovate anche le tue mani. Senti come stringono forte le mie?
Del verbo accadere, più volte, mi sono soffermata sul precipitare tra ciò che moriva ammazzato e ciò che risorgeva forte. Ho lasciato un segno nuovo sul braccio; è china con punti di sutura vistosi e ho preso a gridare tutte le frasi a gran voce, disturbando il male e la menzogna. Le ciglia di molti hanno creato ombra appena sopra gli zigomi, ché così vanno a finire gli occhi che evitano gli sguardi per la vergogna. Ho preso a passeggiare sui crinali delle vene gonfie di rabbia. E pulsavano agli incroci della pena. E fluiva sangue come fiumi. Ingorgo. C'è chi ha sognato di api senza miele, creandomi - dentro - arnie vuote e il cuore a rinsecchirsi di sciami di cadaveri sentimentali. Accusata di apologia al mio cuore.
Ti ho scelto e ti sceglierei perché mi hai scelta sin dalla prima sera. D'estate. Con il sapore dell'inaspettato e il presagio dell'eterno stampato nei gesti che si son messi subito a proprio agio. Scandisco le stagioni ed elencarle mi dà la concezione del tempo che trascorriamo insieme. Ti scelgo ogni mattina, come oggi, presto, sui sigilli dei nostri baci che a fior di bocca non si danno il tempo di dirsi buongiorno. Ti ho detto "sì" in ottobre perché l'aria è più fresca e mi pareva che ti somigliasse perfettamente. Ti ho scelto con gli occhi verdi, belli come la tua anima. Ti ho detto "sì" perché sei stato l'unico a placarmi la boria, perché mi culli l'ansia di sempre con le risate di pancia e perché hai un modo veramente bello di darmi i baci sui pomi delle spalle mentre sto facendo i piatti. Ti vivo avendo cura di costruire casa e renderla più accogliente ogni giorno di più perché l'aggettivo "nostra" possa essere inequivocabile e possa tenere il resto fuori. Ti ho scelto perché mi sono data la libertà di guardarmi attorno e a un tratto ho capito come tu sapessi essere diverso e autentico, con la genuinità e la semplicità stampate sul sorriso e ho sentito l'esigenza impellente del tuo abbraccio per sempre. Non ti cambierei neanche quando rubi tutto lo spazio del letto e mi ritrovo a sopportare anche i momenti no dei litigi con la voglia pazza di fare subito pace. Ti ho detto "sì" con un bouquet di girasoli stretti sul petto.
È notte alla finestra e ci sono sprazzi di autunno ovunque. Ho detto al tempo d'essere tutto sul cuore e niente sulle rughe e mi son fatta eccedenza e residuo d'ogni impressione della vita, fintanto che il troppo vuoto e il troppo pieno si fossero fatti spazio e capienza dentro agli organi del corpo. Mi sono spiata bella e nuda per molto. Sono stata viva sulla tua bocca e al richiamo, ché il nome m'è rimasto fedelmente attaccato a identificarmi unica e distinguermi dal resto. Io. Ferma. Caparbia rarità alle condizioni più imperfette, imprecisa anche nei passi, zoppicante in salita dov'era richiesto d'essere svelti. Volgo gli occhi al basso e fisso i palmi quando rifletto. Avrei voluto che tu m'imparassi, ché sul fatto di avermi non sarebbe stato poi così importante. Avrei voluto che tu m'insegnassi, ché sui soli occhi non ho mai fatto affidamento. Sul cuore, sì. Ho avuto pudore della luce quando mi hai scostato le ombre.
Sono fatta di legno. Io stessa, cassetto: contenuto per contenitore. Sogno, incubo e scheggia smarrita in serie di metonimie. Li ho nascosti, i sogni, perché qualcuno avesse curiosità di scoprirli. Ho messo da parte un colore, due visioni e tre ricordi e li ho ripetuti a memoria come le poesie, ché se la vita mi avesse interrogata, io sarei stata pronta a rispondere. Ma le domande sono state diverse. Ho costruito mensole per tenere le emozioni di poco conto in bella vista, nascondendo d'averne messe altre da parte, nei luoghi più sicuri tra lo sterno e il respiro, ché ad ogni emissione di fiato fuoriuscivano anche le tarme e i sacchettini di lavanda bucati. Sono fatta di legno umido e gonfio. L'inverno muta anche i materiali più resistenti. Sbeccata tra i cardini sotto l'olocausto dei nervi. Chiusa ad aria compressa. Dentro, solo il nero, ma i sogni candidissimi. Ogni tanto, qualcuno ha aperto e io mi son versata un po', liquida, inconsistente, a perdere dosi massicce di attese. Così sono io: anemica d'illusioni, in trasfusione di desideri. Sono fatta di fuoco e sottili lamelle d'amianto. Mi appicco incendio da dentro, tra gli umori di tiglio e le vene di delicato larice. Fuori, la pelle dura come l'olmo. La malìa di chi vuole mantenermi intatti i sogni, non realizzandoli.
Chiederei. Fossi stata abituata, lo farei. Non lo faccio quasi mai, infatti. Le volte in cui alzando gli occhi al cielo è caduta pioggia. Gocce che parevan aghi in cerca di fili e mi son infilzata tutta io, mentre entravo a fatica dentro le crune, ché i miei sogni dimoravano nel vuoto circoscritto dall'acciaio e la possibilità permaneva nell'attraversare. Ho punti di sutura tra le giunture dei "voglio" e gli strappi vistosi sulle stoffe poco pregiate dei "fa che sia così", ma la pelle è rimasta lasca e i palmi si son sdruciti a furia di lasciarsi scivolare via l'inafferrabile. Non chiedo. Non so farlo e prima delle stelle conto le loro code, ché dalla mia parte ci son sempre state le scie dei resti, negli scarti dell'accontentarsi e far buon viso a cattivo gioco. E sì! Le stelle amano giocare tra le congiunture astrali e nella lettura degli oroscopi manomessi. Chiedo. Per la prima volta. La possibilità di scegliere ciò che è meglio, il divario tra le alternative, il mutare delle catene in ali, il volo senza schianto.
Chiedo perdono per il mio "altrove" che m'invade anche le possibilità a essere e sentire. Chiedo perdono in nome di questo mio non luogo ch'è un perenne alibi; peccato che invece di scagionarmi, m'inchioda.
Penso d'esser fatta di ritorni, ché le mie partenze han sempre avuto il carattere della fuga e l'impressione dell'irrisolto. Il cuore è immenso selciato e le emozioni ghiaiose han sempre fatto rumore sotto i passi lesti, sul parallelo sbagliato e su un meridiano che mi tagliava di netto. Tre scalini a salire e raggiungo l'equatore. Sì! Mi avevano sempre parlato dei toni di mezzo e dei colori brillanti, dell'eccesso che si smorza, delle sfumature calde, delle ore di luce e delle notti di luna nel riverbero d'ogni onda increspata. Quanta neve mi son portata dietro. Paura artica che mi faceva rimanere ferma, ferma e zitta, zitta. È stata una bella traversata. Se migrerò un altro po' più a sud, sarà mare e litri di coralli ovunque. Le nuvole sembrano seguirmi. Hanno sempre dell'indefinito, così sfumate e spugnose, ma un arcobaleno nuovo ha dipinto il cielo nero e l'oceano ritornerà azzurro. Devo esser già passata di qui; erano solo briciole quelle che avevo abbandonato, ma oggi mi stanno aiutando a ritrovare la strada di casa. A ritrovare te. Sento già i gabbiani.