Lago o argento, in me cercano identità consolazione e angoscia. Sono eterno e dannato: ritraggo verità, ma racconto menzogne. Alterno luce e buio tra compiaciuti sorrisi adolescenti, e guido mani ignote, urlanti e incredule sui visi della vecchiaia. Disegno spazi falsi, inesistenti. Brucio perfido le navi d'ogni illusione, da cui già vidi cadere Icaro. Sono giudice venerato e sadico: acceco chi mi brama e annego tutti i miei amanti dall'apparente calma di un riflesso. A volte cado, infranto da una strega isterica. Io mi odio, io mi odio. Stupro di donna o sorriso d'infante ritraggo spietato in crudele indifferenza. I miei frantumi stillano orchidee insanguinate. Forzato da un demone divoro vergini che, domato il bianco unicorno, sfidano ingorde l'Ade per il crine di Pegaso, mostruosa chimera.
Tornò di nuovo seguendomi nelle prime tenebre l'ombra sua spettrale.
Nel tonfo di catene servili furtivo tolsi il fuoco dal mio corpo, nel risuono dei verbi dannati, nel vento improvviso, nello squarcio del tempo che lacera ore e antichi calendari.
Ma dall'oscurità rinacque dal palpito vitale, fenice inattesa, l'azzurra agonia.
Tornai nel vecchio maniero, dal luogo dell'oblio, agitai i drappi del forse, l'eco di ogni caso, nella sete della pace, e del passato che fu.
Ma da felicità ormai perdute, ritorno l'ossesso nella nenia di poi: "Né carne, né ora, né nome, né donna. Solo sogno, solo ombra, strinsi a me, persi".
Ho già iniziato il cammino sapendo che le fiere sinuose, perverse prima docili nel lungo occhio di velluto, nel profumo notturno di pioggia e lussuria, di boschi d'autunno e frutti, di miele nero; di promesse eterne e di paradisi terrestri nell'età fiorita amiche, -ormai distanti compagne- in un momento che non so dire, dovranno annientarmi. Finché il testimone non toccò l'altro palmo, colsi due parole che non dissi, più e più volte ripetute diverse per l'Ade e una turba in fuga un tempo da Thera, al centro del guscio d'osso lunare. Pronto al sacrificio, l'angelo della notte mi raggiunse sull'ara, con passo sensuale. E ogni cosa ora è illuminata: Le monete cavò dagli occhi il sozzo traghettatore sfasciando il sudario tra talloni d'infante immortale fino al gancio vermiglio del ventre di una sposa, alla luce purissima del primo giorno.
Parlano di me le prime luci, nei profumi freschi e teneri delle carni di un infante, nenia di voci e carillon battente la danza di una cieca. Parlano di me la sabbia dei deserti, le oasi del vuoto, le ore del chiarore, gli astri dello spazio e poi le tenebre; la ruota delle stagioni. Ora sono una lanterna: forzata dalla corrente del fiume, rincorro l'abbraccio di uno spettro che fugge da Obon. Puoi guardare il mio volto dalle acri forme di fumo di una candela votiva, in quella chiesa. Spargo petali di rose strappate ancora chiuse dalla gola ferita di un giardino notturno. Perché ti lamenti? Tutto ciò che devo, io non lo nego: fuor di me c'è solo il lato oscuro di un presagio, la carezza del boia, e un tetro corvo d'ebano.
Mai più udrai voce amica nel travaglio dei tuoi giorni. Mai più.
Sorgerai dopo notti insonni dai lunghi occhi di laguna, nella tenue bruma.
Raccoglierai nell'alba le gambe esili, candide come il tuo corpo di pesca nella tua stanza tutta bianca di luce polare, splendida nei raggi di Venere, dell'aurora della vita, ormai perduta.
Tu, smarrita sull'immenso scacchiere quel giorno, tu, altéra Regina d'avorio, affronterai l'alfiere, innalzerai la torre per difendere il tuo re; e nuda, la dolce caviglia imprigionata da chi ti dirà l'altro passo!
E verranno i giorni bianchi, e verranno i giorni neri.
Tu, novella virgo Camilla, trafitta dall'oro, accecata, tu, guarderai rapita il passaggio, dal profumo perverso estasiata, spianando il passo malvagio a chi, con la mortal veste del sovrano già amato, l'anima tua darà!
Tornò di nuovo seguendomi nelle prime tenebre l'ombra sua spettrale.
Nel tonfo di catene servili furtivo tolsi il fuoco dal mio corpo, nel risuono dei verbi dannati, nel vento improvviso, nello squarcio del tempo che lacera ore e antichi calendari.
Ma dall'oscurità rinacque dal palpito vitale, Fenice inattesa, l'azzurra agonia.
Tornai nel vecchio maniero, dal luogo dell'oblìo, agitai i drappi del forse, l'eco di ogni caso, nella sete della pace, e del passato che fu.
Ma da felicità perdute, ritorno l'ossesso nella nenia di poi: "Né carne, né ora, né nome, né donna. Solo sogno, solo ombra, strinsi a me, persi".
Sul tuo viso di sole e salsedine porti l'eco lontana del tuo Paese.
Di fuoco, di ghiaccio, di poeti, di eroi.
Se potessi, per pochi istanti, confondermi con l'Oceano, sovrano danzante dei tuoi freddi inverni, potrei coglierti nel lungo abbraccio di un'onda.
Forse eterno ormai, perché tu vinta.
Nel vento delle scogliere, morrebbe poi l'impeto mio placato.
E se tu stessi riposando sulla spiaggia solitaria, solleverei ali stanche di vecchi albatri per venirti a cercare, mentre il libeccio accarezza lascivo, poi sferza, il collo nudo.
Mentre cerchi di capire cos'è che muove il mare, perché mai non riposa.
Come gazza ingorda nell'orbita iridata, coglierei per sempre, segreto inviolato, i tesori sommersi nella verde luce del tuo sguardo.
Cadono dalla Gota del Signore gli angeli sonori della pioggia. Afferrano nel Suo giorno, tre le braccia morbide, il paradiso riverso sulle tue guance. Nei petali d'aurora, liberi ormai dai calici d'incenso, nella dolce guerra di arpe. E risuona ancora tra cori d'indaco, il silenzio del tuo pianto. Dal Narciso ricordo, dall'azzurro tuo iride perduto, già caddero in volo gli angeli mortali di sale, d'avorio, nelle ali tarpate. Ad esitare, nell'unico sguardo dalla morte loro concesso, tra il tuo viso, e il resto del Creato.