Non ho mai capito chi di noi due abbia amato di più, se io te o tu me, so di averti guardato sempre come a una stella che batte la luce nella cupola notturna del cielo, e so di averti in cuor mio amata a tal punto che quasi a te somiglio come una rosa è simile a un'altra, come la goccia cadendo e gemella all'acqua. Racchiuso in quest'inverno e prigioniero alla tua rete mentre la luna cantava con la voce delle madri della terra, tutti questi anni mi sentii soffocare da un amore troppo grande, e udii l'anima vibrare.
Un tempo il tuo amore forgiato nel grembo partorì il suo frutto nelle gioia e nell'affanno, dalle albe andate che ne fanno più rosso il sangue nelle epoche, col sacrificio le mani più dure delle armi, sempre penetrante nella scorza della carne, negli abissi dell'anima la tua presenza, sino a a far saltare l'identicità al proprio figlio, il legame antico, l'urlo del tuo amore immortale.
O immensità di un prato, così come un milione di rose fluttuanti nel vento di una dea o visto il tuo volto scintillare madre mia nelle specchio del mio cuore, nelle foglie della mia anima solitaria, e dentro il petto di nutrice bisbigliare parole care come schegge di sole al mare, come semi nella terra stracolma nell'ultima pioggia autunnale. Cade la sera, ed io dal mio profondo venire al tuo sguardo antico di bella cometa, canto al cigno un bianco verso notturno, canto senza più esitare di averti amato di più, o Madre.
Dedicata a mia madre, Amaddio Antonia, alba e tramonto di tutte le mie giornate con amore infinito e gioia filiale.
Il vento muove i rami delle acacie fra lucide formiche qui scivola e s'inabissa nel braciere cuore la tua immagine sottile, nomade fugge il tuo canto oltre il crinale di cime e nel sangue la speranza s'imprime.
Era nella pietra immota come un grido schiuso d'antiche leggende il tuo nome, riarso sfavilla al sole tra fuscelli in rovine. Dove leggiadra passeggi non s'ode traccia di un Dio, libera e rompe la scorza per esistere ogni raccordo di vite. S'udiva a novembre la tua mano sulle erbe vive, fiato d'innesto amore sui folti papiri.
Ogni raggio a te volge, si china di suono ai ventagli del giorno, muore per un docile ritorno fianco al tuo cuore camminando.
Non so se fosti musa o dea per i poveri del mondo, per gli ultimi che scalano spacchi cocciuti di strapiombo, per me che fuggo la curva al tramonto fosti donna vera, odoroso corallo a primavera di fatiche umane, dolceneri capelli intrigo della mia anima annodata delle mie tante ferite, pane di un miracolo nella terra arsa piovuto stanotte tra le mie gemme recise.
L'ambra di una stella Batte nel notturno cielo, come il tuo cuore svegliato al mio apparire batte. Nuovi come i boccioli di gigli al mattino cantanti l'alba i miei occhi inzuppati alla luce dei petali sentii, alle fresche essenze le tue nari, ora mentre sospesi camminiamo nel giorno che traspare come le acque e balena il volto degli antenati, nello specchio di una fontana nel mezzo di una chiarità un limpido sorridere tra le foglie piegate, di loro poi le voci appena, troppo fugaci.
Mia amata, nell'amore ti ho donato il grido disperato mentre la spina mi tagliava il dito, e sulla rosa accolta, una gioia sanguinava, e il mio scialle di pensieri fremeva per la bocca impregnata di un lieve filo d'aria e un Dio fuggente dalle caverne mattine il cuore liberava.
Quante le volte che ho sussurrato al tuo orecchio "amami che ti amo" Nel fondo senza fine di una notte, nel tuo sogno immemore senza paesi, con un calore che scioglieva i ghiacciai, braccato dalla luna, vieni ancora a me sulle zampine del vento, mia venere immortale, profumo degli angeli, ora mentre scuote il vento le cime spezzate, e mi disseti abbattuto sui tuoi baci.
Ecco che torno ancora qui, cammino sospeso a un viale di croci e Angeli che solo il grido delle rondini taglia, quando la luce è trasparente come l'acqua e l'odore di buganvillea la trapassa. Allargo le braccia e sento che sei nell'aria, un'immagine che riveste il cielo la tua, alta su un piccolo lume acceso più che straordinaria. Anche i cipressi avanzano un loro canto nella tenera ombra dei meriggi, qui nei silenzi precipitati da secoli che richiamano i lamenti delle vedove.
Dove sei pittore di ponticelli esigui, tu custode delle proprie dimore, passo leggero di piume, labbra di innocenze schiuse, anche queste rose che urtano il venticello a te connettono, e i sensi di queste ortensie oltre con me ti afferrano, il sorriso tenue.
Ma se il tempo del dolore prosciuga il mare di lacrime, le dighe dell'anima svuotano a effluvi il proprio alito e le iridi si spaccano, viene il dubbio se sbandiamo ciò che sarà il futuro, non resta alto che un suono di preghiera sussurro nella sera. Era ciò quella sinuosa linea nella tua mano che leggevo, sottile in cui figurava il passato, una lettera in cornice a testimonianza di una combattuta fede romantica, col tuo nome bene iscritto, era per te l'amore amato fatto presagio, col cuore e un pesciolino li lasciato.
Ora i tuoi occhi sono come questo mare limpido che palpita un suono universale, culla in cui la mie labbra si specchiano nel magico seguitare delle voci che compongono il canto vitale.
Dove sei tu Mentore, tu emblema di speranze, sguardo di paesi lucenti nel mare, tu veliero su tempeste e prode condottiero.
Ho provato a riempire quel vuoto che hai lasciato con una sciarpa e un occhiale che solevi portare, per darmi speranza, ma non ho fermato una sola lacrima, dove sei cacciatore di fortune, tu vincitore vinto, pifferaio fischiettante in vetta a un sole, libero dalle catene ci vedi ora nei contorni più accesi, ma come chi è partito lontano dalla dolce amata a cercar fortuna noi ti aspettiamo venire col vestito nuovo e le canzoni dell'epoca rare, il sorriso furbo scintillante di chi visita paesi oltremare, tu l'amico fedele
il miglior padre.
A Calogero Spallino mio padre con tutto il mio amore filiale, scritta e dedicata.
dove sei incarnazione della luna, emozione della forza di un mare alle porte naufraghe del mio petto, sospiro dell'inverno sulle foglie lacrimose dei miei occhi incendiati, neve bianca sul mio cuore che il tuo nome ha inciso coll'acciaio, diluvio nel cielo incrinato della mia torre, delle mie sabbie, e della mia anima mortale, morire e facile accanto alla sorgente vitale di ogni tua parola, vibrazione dell'assoluto ventre di ogni atomo. Dove sei Elisabetta! Labbra di un Dio fuggente che mi baciarono ad agosto mentre si spezzava l'aria.
In mezzo a una giostra di gabbiani al tramonto mi abbracci, sento il tuo scrigno cuore sul mio petto felice che batte, ascolto i sospiri tra le miti foglie recline sfiorare il tuo chiaro volto gentile chino al porto delle mie labbra, volo sugli orizzonti madreperlacei ora sul mantello di sabbie.
Tra le siepi dondolanti ti svegli per baciarmi, dalla mongolfiera di pensieri stramazzo accolto dal tuo ventre bianco, ammaliato dalla vertigine del tuo canto.
Il maestrale ha soffiato Nei miei occhi il suo Muro gelido, nel secchio scuro Il polipo muove l'acqua, non abito mai, le mie ali sbattono sui tuoi seni irti attaccati nell'aria, Divinità spogliata, strappata a se stessa viene con il sue pube di potenza, fiore di mandorlo che si gode il cielo, la luce nel suo polline, il giallo, la campana, il solco sulla terra, ho ammazzato i miei occhi a guardarti le anche sfiorate dalle tende, annusate già dalla penombra dov'eri più bella, Oblio e Rinascenza, ieri, oggi, chissà, sotto la veste il nero increspato come la cerosia scrutavo, le chiavi nelle tue mani, piacere che ha invaso a cascate, l'anima lasciata la dov'era moriva, trasformato in colei che amo non sono più, le mie labbra cadute sui tuoi piedi bianchi, la stanza e il sangue, il bicchiere col rossetto impresso, la goccia del sudore della tua carne, il ghiaccio, gli amati lamenti. Luna nuova, Giove porta fortuna, Alba, un tempo noto con un lampo nel primo corso nel cielo arrivai a te, nei tuoi occhi riposi i miei vividi, apparvero i mondi, le terrazze e bevvi nei calici le tue offerte, l'oro era, l'oblio, e quando fui ubriaco felice, condor sui crinali delle cime, tu fosti irriverente apparenza, meretrice.
Non vedremo più i tamerici avvinti all'assetata luce nembo o vortice che assonna i lidi dal mare irrompe in spume, torneremo alla tempesta che sparpaglia un'acqua a un suolo che barbaglia, ricorderemo ch'era l'ambra il presagio, il cane impazzito che abbaia.
Fosse vera la chimera che mi chiude la vista a una verità piu grande l'accoglierei, spalancherei l'ultima aria, ma non sono ne saremo mai quella fiaba amorosa che l'occhio umano talvolta ubriaca.
Allora rimarrò qui tra il nulla e il vuoto sperduto senza lasciare traccia.
Mi eri troppo piaciuta sui colli fronzuti d'erba Che odono l'oblio lento di mare che l'anime fa placare. Nell'ore molli come l'ostia sui rovi solitari e crespi tacita l'estate, camminavi e sorridere ti fu facile e ascoltare il suono del mondo tanto che il tuo pallore divenne vermiglio come gelsi luccicanti di fulgore solare, bella più che mai, mai così ti vidi!
Se sorridi tu che di rado lo fai, la terra fiorisce d'improvviso, la sera soffia sui granai galoppanti ed è festa per le verdi campagne. Dammi la tua mano chiara fresca di fontana E allieta la mia casa Li dove estua nera l'uva arrampicata e la notte si adagia.
Dondolano i tuoi capelli castani Per l'aria vive e si dilata il sogno che regala. Vieni, usciamo, so che hai l'anima ingombra! Vieni tra le ristoppie a scoprire un eremo tulipano, non ti negare, ti sembrerà l'aprire, un dolce rinsavire in petto un vivere tra l'argento lontano dal tempo andato, vieni a camminare sul tramonto infuocato.