Scritta da: Mariella Buscemi
Nella tragedia di un fuoco sacro
a farmi guizzo e scintilla
e scheggia in aria
carpiscimi in volo
a braccare la fuga
e legami le caviglie ai polsi
alzo gli occhi e ti guardo
sotto il segno del tuo comando.
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Nella tragedia di un fuoco sacro
a farmi guizzo e scintilla
e scheggia in aria
carpiscimi in volo
a braccare la fuga
e legami le caviglie ai polsi
alzo gli occhi e ti guardo
sotto il segno del tuo comando.
La tempesta parla del vuoto
e le solitudini spirano dentro
con il vento delle memorie
che si portano dietro detriti
sul suolo dell'anima s-battuta,
in travaglio,
stanotte,
partoriente
- dall'utero deserto -
aghi di pino e scaglie liquide di fiume,
ché nessun corso mi è dentro
spaccato dalle crepe
profonde rughe
di giovane vecchiaia.
Chè se sono avanzo
o mi avanzo
eccedendomi
sottraendomi
dimezzandomi
scarseggiandomi
e mi rimango
accogliendomi
sfrattandomi
ospitandomi
sgusciando
dall'uscio incustodito
per far ritorno
io con le cose perse
che m'appartengono più delle cose avute
ed avuto e perso
_insieme
come scarto abbandonato
al manicomio dei miseri
che elemosinano appendici e lungaggini
mai sazia di rimasugli
sorseggio residui
e tu ed io
intimi commensali
al convivium scarno
con le coppe rovesciate
e le braccia incrociate sul petto
cibarci di noi
- cannibali -
ad azzannarci la carne per la fame.
Come un grottesco funambolo
d'un circo infernale.
Gravitano lame di forbici taglienti,
lucide cesoie,
a lambire i miei fili esistenziali
- circuiti elettrici -
Mòire sugli spalti a tesserne le trame,
scorbutiche ed oscure.
Traballo
zoppicando,
su un ineluttabile dis-equilibrio,
di sbieco
obliqua
inclinata
declinata
reclinata
instabilità dei giorni
in-definizione di pensieri notturni
_così
al confine di buio e luce
come
di bianco e nero
e dentro e fuori
io
sul filo del rasoio
come arma inesorabile,
inevitabile,
mi spacco le piante
per affondare e tenere,
sbilanciando lo sguardo
verso ciò che so
e ciò che devo sapere.
Ho un pungolo
piantato nello sterno
a generare singulto
tra-salire in volto
scattando con un salto
nessuno l'ha mai tolto
è un assalto
resto in ascolto
con il dolore avvolto
il coraggio disciolto
il peccato dissepolto
un nodo irrisolto
l'anima in tumulto
buio in risalto.
E tu sei il prescelto.
Ho ore infinite,
estenuanti,
con la testa tra le mani
come se reggessero il vuoto
o il tutto pieno
o il saturo
o l'inutile,
il superfluo
di un pensiero moribondo,
sul tramonto,
che indica la fine,
segna l'atrofia,
bagnarsi col gesso
ed indurirsi.
Non flettersi,
ma spezzarsi.
Sono, appena, un sentore,
acqua che scivola e si fa varco
senza che le rocce se ne avvedano,
ma che si sentono spaccare
quando sono già arrivata
alla marea del mare,
oltre la riva delle cose viste che si vedono,
giù,
annegate,
verso le cose cieche che si sentono.
Scrivimi.
Raccontami.
Al cospetto di pelle nuda
che non conosce ancora i sadici intarsi di polpastrelli crudeli,
come fossi papiro,
macchiato dal tuo inchiostro nero che,
come coito,
m'imbratta dei suoi umori ed essenze,
conseguenza di piaceri cerebrali.
Vieni.
Ch'io t'aspetto.
Dove metto la lingua sono affari miei!
Quali parole le faccio battere
e quante volte la faccio schiaffeggiare dal palato
per ripetere quei "No" che mi vengon fuori tanto bene,
sono sempre affari miei!
Quanto possa piacerle il gusto del rischio,
viscido sulla lama affilata,
cospargerla di saliva
e renderla innocua,
non più aguzza sul taglio,
questi,
sono "affari amari" della lama che s'avvicina,
incauta!
Mi stacco!
Ebbrietudine solitaria.
Penzolo dai tentativi di furto
degli altri,
ché non m'appartengo,
ma mi tengo
e non voglio sfrattarmi,
diseredarmi,
farmi "non mia",
irriconoscibile,
estranea e forestiera al mio esser stata.
Mi ritorno,
ché essere "con"
non è essere "in",
ma,
dover essere "per".
Mi rimango,
dando l'illusione del prestarmi,
dell'affittarmi,
ma non sono all'asta,
fatiscente,
antica,
diroccata,
ma mi tengo.