E ti vengo a cercare anche solo per vederti o parlare perché ho bisogno della tua presenza per capire meglio la mia essenza. Questo sentimento popolare nasce da meccaniche divine un rapimento mistico e sensuale mi imprigiona a te. Dovrei cambiare l'oggetto dei miei desideri non accontentarmi di piccole gioie quotidiane fare come un eremita che rinuncia a sé. E ti vengo a cercare con la scusa di doverti parlare perché mi piace ciò che pensi e che dici perché in te vedo le mie radici. Questo secolo oramai alla fine saturo di parassiti senza dignità mi spinge solo ad essere migliore con più volontà. Emanciparmi dall'incubo delle passioni cercare l'Uno al di sopra del Bene e del Male essere un'immagine divina di questa realtà. E ti vengo a cercare perché sto bene con te perché ho bisogno della tua presenza.
Che grande scultore sei tu che hai scolpito il tuo volto di pietra tra le mie braccia e ormai amore morto mi sei diventato figlio ti tengo sulle ginocchia e piango perché il ricordo di te mi pesa come un sepolcro.
Quando facevo le elementari il maestro ci raccontò la storia di un marinaio che disse al capitano: "La bandiera? Spero di non vederla più, la bandiera!" "Molto bene," gli fu risposto, "il tuo desiderio sarà esaudito!" E lo chiusero nella stiva e ce lo tennero, mandandogli cibo di sotto e morì laggiù senza vederla mai più la bandiera.
Una storia davvero spaventosa per dei bambini, molto efficace. Ma non efficace abbastanza per me. Stavo lì seduto a pensare, bene, è brutto non vedere la bandiera, ma il bello è non dover vedere la gente. Però non alzai la mano per dir niente del genere. Sarebbe stato ammettere che non volevo vedere neppure loro. Ed era vero.
Guardavo dritto alla lavagna che sembrava migliore di chiunque.
Qualcuno che la sa lunga mi spieghi questo mistero: il cielo è di tutti gli occhi di ogni occhio è il cielo intero. È mio, quando lo guardo. È del vecchio, del bambino, del re, dell'ortolano, del poeta, dello spazzino. Non c'è povero tanto povero che non ne sia il padrone. Il coniglio spaurito ne ha quanto il leone. Il cielo è di tutti gli occhi, ed ogni occhio, se vuole, si prende la luna intera, le stelle comete, il sole. Ogni occhio si prende ogni cosa e non manca mai niente: chi guarda il cielo per ultimo non lo trova meno splendente. Spiegatemi voi dunque, in prosa od in versetti, perché il cielo è uno solo e la terra è tutta a pezzetti.
Non importa che non ti abbia, non importa che non ti veda. Prima ti abbracciavo, prima ti guardavo, ti cercavo tutta, ti desideravo intera. Oggi non chiedo più né alle mani, né agli occhi, le ultime prove. Di starmi accanto ti chiedevo prima, sì, vicino a me, sì, sì, però lì fuori. E mi accontentavo di sentire che le tue mani mi davano le tue mani, che ai miei occhi assicuravano presenza. Quello che ti chiedo adesso è di più, molto di più, che bacio o sguardo: è che tu stia più vicina a me, dentro. Come il vento è invisibile, pur dando la sua vita alla candela. Come la luce è quieta, fissa, immobile, fungendo da centro che non vacilla mai al tremulo corpo di fiamma che trema. Come è la stella, presente e sicura, senza voce e senza tatto, nel cuore aperto, sereno, del lago. Quello che ti chiedo è solo che tu sia anima della mia anima, sangue del mio sangue dentro le vene. Che tu stia in me come il cuore mio che mai vedrò, toccherò e i cui battiti non si stancano mai di darmi la mia vita fino a quando morirò. Come lo scheletro, il segreto profondo del mio essere, che solo mi vedrà la terra, però che in vita è quello che si incarica di sostenere il mio peso, di carne e di sogno, di gioia e di dolore misteriosamente senza che ci siano occhi che mai lo vedano. Quello che ti chiedo è che la corporea passeggera assenza, non sia per noi dimenticanza, né fuga, né mancanza: ma che sia per me possessione totale dell'anima lontana, eterna presenza.
In me c'è qualcosa di rotto. Sono come l'orologio che si ferma poco dopo averlo caricato, come il piatto incrinato che non torna nuovo se anche lo incolli con cura. In me c'è qualcosa di schiacciato. Sono come il tubetto di dentifricio quando nulla ne esce se anche lo premi, come la pallina da ping-pong ammaccata che non può tenere più in gioco nemmeno un buon giocatore. Ci sono oggetti distrutti e schiacciati dal principio, senza motivo, in me: l'ombrello che non sta aperto, il violino fuori uso e i sandali coi cinturini rotti, il rubinetto intasato, il flauto sfiatato, la lampada consumata. Eppure non mi perdo di morale, l'ira non mi trascina, né mi tormento come una volta, anzi mi auguro di potermi riempire di quelle cose inutili, restando distrutto e schiacciato, in questo trovando il mio orgoglio.
Io desidero te, soltanto te il mio cuore lo ripete senza fine. Sono falsi e vuoti i desideri che continuamente mi distolgono da te. Come la notte nell'oscurità cela il desiderio della luce, così nella profondità della mia incoscienza risuona questo grido: "Io desidero te, soltanto te". Come la tempesta cerca fine nella pace, anche se lotta contro la pace con tutta la sua furia, così la mia ribellione lotta contro il tuo Amore eppure grida: "Io desidero te, soltanto te".