Poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz
Il corruscante cielo d'Oriente
a gran distesa lodano gli uccelli,
Aurora arrossa i bianchi capitelli
sul tempietto di Leda, intensamente.

Tolgon commiato tra le faci spente
gli ospiti stanchi. Un servo aduna i belli
fiori che inghirlandano i capelli
e li gitta allo stagno, indifferente.

Le rose aulenti nella notte insonne,
le rose agonizzanti, morte ai baci
nelle capellature delle donne,

scendon piano con l'alighe tenaci,
in su la melma livida e profonda,
con le viscide larve dei batraci.

II.

Pace alle rose in fondo dello stagno,
in loro fredda orrenda sepoltura;
pur anche la sua gran capellatura
dischioma l'olmo il pioppo ed il castagno.

Il cigno guata, mutolo e grifagno,
lo stagno ricolmarsi di frondura.
Silla, sognamo. Tutto ci assicura
l'ultima pace e l'ultimo guadagno.

Guarda, fratello: innumeri le foglie
attorte e rosse e gialle, senza strazio,
distaccansi dal ramo, lentamente;

la Madre antica in sé tutte le accoglie.
Sognamo, Silla, memori d'Orazio,
quel sogno confortante che non mente.

III.

Perché morire? La città risplende
in Novembre di faci lusinghiere;
e molli chiome avrem per origliere,
bendati gli occhi dalle dolci bende.

Dopo la tregua è dolce risapere
coppe obliate e trepide vicende -
bendati gli occhi dalle dolci bende -
novellamente intessere al Piacere.

Ma pur cantando il canti di Mimnerno
sento che morta è l'Ellade serena
in questo giorno triste ed autunnale.

L'anima trema sull'enigma eterno;
fratello, soffro la tua stessa pena:
attendo un'Alba e non so dirti quale.

IV.

Che giovò dunque il gesto di chi disse:
«Il gran Pan non è morto! Ecco la via
dell'allegrezze nove. Ovunque sia
dato l'annunzio del novello Ulisse!

Il flavo Galileo che ci afflisse
di tenebrore e di malinconia
e quella scialba vergine Maria
e quella croce diamo alle favisse!»?

Nulla giovò. L'impavide biasteme
non rianimeran lo spento sguardo
dei numi elleni sugli antichi marmi.

«Lor giuventude vive sol nei carmi.»
Secondo la parola del Vegliardo
il fato ineluttabile li preme.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Il frutteto

    Anche né malinconico né lieto
    (forse la consuetudine assecondo
    cara d'un tempo al bel fanciullo biondo)
    oggi varco la soglia del frutteto.

    Ah! Vedo, vedo! Come lo ravviso!
    È bene questo il luogo; in questa calma
    conchiusa, certo l'intangibil salma
    giacque per sempre dell'amor ucciso,

    del vero antico Amore ch'io cercai
    malinconicamente per l'inquieta
    mia giovinezza, la raggiante mèta
    sì perseguìta e non raggiunta mai.

    Or mi soffermo con pupille intente:
    le cose mi ritornano lontano
    nel Tempo - irrevocabile richiamo! -
    mi rivedo fanciullo, adolescente.

    O belle, belle come i belli nomi,
    Simona e Gasparina, le gemelle!
    Pur vi rivedo in vesta d'angelelle
    dolce-ridenti in mezzo a questi pomi.

    Ed anche qui le statue e le siepi
    ed il busso ribelle alle cesoie.
    (Natali dell'infanzia, o buone gioie,
    quando n'ornavo i colli dei presepi!)

    Ma sull'erme, sui cori, sopra il busso
    simmetrico, sui lauri, sugli spessi
    carpini, sulle rose, sui cipressi,
    sulle vestigia dell'antico lusso

    da cento anni un folto si compose
    di pomi e peri; il regno statuario
    ricoperse; nel florido sudario
    sfiorirono le siepi delle rose;

    nell'ombre il musco ricoperse i cori
    curvi di marmo intatto (l'Antenata
    non vede lo sfacelo, contristata?)
    e nell'ombre languirono gli allori.

    Son l'ombre di una gran pace tranquille:
    il sole, trasparendo dall'intrico,
    segna la ghiaia del giardino antico
    di monete, di lunule, d'armille.

    M'avanzo pel sentiero ormai distrutto
    dalla gramigna e dal navone folto;
    ascolto il gran silenzio, intento, ascolto
    il tonfo malinconico d'un frutto.

    Ma quanti frutti! Cadono in gran copia
    in terra, sui busseti, sui rosai:
    sire Autunno, quest'anno come mai,
    munifico vuotò la cornucopia.

    O gioco strano! Pur nella faretra
    di Diana cadde una perfetta pera,
    così perfetta che non sembra vera
    ma sculturata nell'istessa pietra.

    Il frutto altorecato assai mi tenta:
    balzo sul plinto, il dono della Terra
    tolgo alli acuti simboli di Guerra,
    avvincendomi all'erma sonnolenta.

    S'adonta ella, forse, ch'io la tocchi,
    l'erma dal guardo gelido e sinistro?
    (il tempo edace lineò di bistro
    le palpebre lapidee delli occhi).

    Ma un sorriso ermetico, ha la faccia
    attirante, soffuso di promesse,
    - O miti elleni! - s'ella mi stringesse
    d'improvviso, così, tra le sue braccia! -

    E tolgo e mordo il frutto avventurato
    e mi pare di suggere dal frutto
    un'infinita pace, un bene, tutto
    tutto l'oblio del tedio e del passato.

    Ma guardo in torno. Vedo teoria
    d'erme ridenti in loro bianche clamidi,
    ridendi tra le squallide piramidi
    del busso. - Torna la malinconia:

    Ridevano così quando mio padre
    esalò la grande anima e pur tali
    (udranno allor le mie grida mortali?)
    sorrideranno e morirà mia madre.

    Ridevano così che nella culla
    dormivo inconsapevole d'affanno:
    implacabili ancor sorrideranno
    quando di me non resterà più nulla.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      L'altro

      L'Iddio che a tutto provvede
      poteva farmi poeta
      di fede; l'anima queta
      avrebbe cantata la fede.

      Mi è strano l'odore d'incenso:
      ma pur ti perdono l'aiuto
      che non mi desti, se penso
      che avresti anche potuto,

      invece di farmi gozzano
      un po' scimunito, ma greggio,
      farmi gabrieldannunziano:
      sarebbe stato ben peggio!

      Buon Dio, e puro conserva
      questo mio stile che pare
      lo stile d'uno scolare
      corretto un po' da una serva.

      Non ho nient'altro di bello
      al mondo, fra crucci e malanni!
      M'è come un minore fratello,
      un altro gozzano: a tre anni.

      Gli devo le ore di gaudi
      più dolci! Lo tengo vicino;
      non cedo per tutte Le Laudi
      quest'altro gozzano bambino!

      Gli prendo le piccole dita,
      gli faccio vedere pel mondo
      la cosa che dicono Mondo,
      la cosa che dicono Vita...
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        Un tulle, verdognolo d'alga,
        l'avvolge: bellissimo all'occhio,
        ed Ella m'accenna dal cocchio -
        si sfolla il teatro - ch'io salga:

        «Positivista irredento
        un'ora fraterna e un the raro
        a casa vo' darle e il commento
        dell'opere di Fogazzaro».

        Sì! Vengo! Ideale, convertirci
        gli ardori dell'anime calme;
        uniscile come le palme
        toccantesi solo coi vertici.

        Le forme bellissime sue
        non curo, o Signora! Il Maestro
        (non so se pudìco o maldestro)
        ci vieta servircene a due.

        Daniele non bacia la bocca,
        ma fugge per Fede e Speranza,
        vaporeggiando a distanza
        l'amor della Donna non tocca.

        Ah! Lungi l'orrore dei sensi!
        E noi penseremo, o Signora,
        l'azzurreggiante d'incensi
        Cappella Sistina canora.

        Papaveri! E l'ora più blanda
        faremo, Signora, con quella
        del Sonno tremenda sorella:
        (prodigio di versi!...) Miranda.

        Dispongo le carni compunte,
        Marchesa, mia pura sorella,
        la palma pensando, che snella
        non lega le basi alle punte.

        Le basi... le punte incorrotte...
        il the... Fogazzaro... Marchesa!
        Ma questo sparato mi pesa!
        Non ho la camicia da notte...
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          La beata riva

          Quegli che sazio della vita grigia
          navigò verso l'isole custodi
          una levarsi intese fra melodi
          voce più dolce della canna frigia:

          «Uomo! Ritorna sulle tue vestigia
          al dolce mondo! Pel tuo bene m'odi!
          Ché l'acqua stessa dei canori approdi
          quella è che nutre la palude stigia».

          «Con un fiore il passato si cancella!»
          «Cancellerai la faccia della Madre
          e della Sposa?» - «Tu sola mi piaci!»

          «L'amarsi è bello!» - «Ma tu sei più bella!»
          «Fra queste braccia soffrirai!» - «Leggiadre!»
          «Verrà la Morte.» - «Pur che tu mi baci!»
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Elogio del sonetto

            Lodati, o Padri, che per le Madonne
            amate nel platonico supplizio,
            edificaste il nobile edifizio
            eretto su quattordici colonne!

            Nulla è più dolce al vivere fittizio
            di te, compenso della notte insonne,
            non la capellatura delle donne,
            non metri novi in gallico artifizio.

            Nessuna forma dà questa che dai
            al sognatore ebbrezza non dicibile
            quand'egli con sagacia ti prepari!

            O forma esatta più che ogni altra mai,
            prodigio di parole indistruttibile,
            come i vecchi gioielli ereditati!
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              Poeta, or che più lieto arride Maggio
              ritornerai al verde nido ombroso
              «con Quella che d'Amor ti tiene ostaggio».

              E lieto più che mai ti sia il riposo
              però che al tuo fratello hai dato il bene
              del libro salutifero e gioioso.

              Il senso della Vita alle mie vene
              ritorna ed alla mente il dolce lume
              e fuggonsi i fantasmi di mie pene

              se vado rileggendo il tuo volume.

              II.

              Ma tu non sa ch'io sia: io son la trista
              ombra di un uomo che divenne fievole
              pel veleno dell'«altro evangelista».

              Mia puerizia, illusa dal ridevole
              artificio dei suoni e dagli affanni
              di un sogno esasperante e miserevole,

              apprestò la cicuta ai miei vent'anni:
              amai stolidamente, come il Fabro,
              le musiche composite e gl'inganni

              di donne belle solo di cinabro.

              III.

              Or troppo il sole aperto mi commuove
              tanto fui uso alla penombra esigua
              che avvolgon le cortine delle alcove.

              Tu mi richiami alla campagna irrugua?
              Troppo m'illuse il sogno di Sperelli,
              troppo mi piacque nostra vita ambigua.

              O benedetti siate voi, ribelli,
              che verso la salute e verso il vero
              ritemprate le sorti dei fratelli.

              Per me nulla tentar. Più nulla spero.

              IV.

              Me non solleverai. Forse già sono
              troppo malato e forse più non vale
              temprarmi alle terzine del tuo dono.

              Però senti e rispondimi: già un tale
              morbo tenne te pur? Tu pur malato
              fosti e guaristi del mio stesso male?

              Sorella Terra dunque t'ha sanato?
              Io pure ne andrò a lei, ma le mie smorte
              membra distenderò, come il Beato,

              per aspettare la sorella Morte.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Suprema quies

                Serrati i pugni bianchi come cera
                giace supino in terra arrovesciato
                e la faccia pel rivo insanguinato
                è quasi nera.

                Con orrido rilievo l'apertura
                della ferita tutto il sangue aduna
                su la nuca, sul collo, su la bruna
                capellatura.

                Giace supino. E non sembra dolere
                la bella bocca. Quasi ch'Egli avvinga
                ancor la Donna e la sua bocca attinga
                tutto il piacere.

                Due lumi sopra un cofano. Quei lumi
                rischiarano il silenzio sepolcrale:
                allineati stan nello scaffale
                mille volumi

                che alluminava un mastro fiorentino
                d'orifiamme e d'armille in cento nodi.
                Aperti sul divano soni i «Modi»
                dell'Aretino

                e sul divano è un guanto che rimosse
                qui, nell'entrar, la Donna del Convito
                ed un mazzo sfasciato ed avvizzito
                di rose rosse.

                Guata con gli occhi di mestizia pieni
                in capo al letto sull'arazzo infisso
                dolentemente immoto il crocifisso
                di Guido Reni.

                Notte e silenzio intorno. Tutto tace.
                Come in un sogno d'armonia perplessa
                al Poeta ventenne è già concessa
                l'ultima pace.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  L'esperimento

                  «Carlotta»... Vedo il nome che sussurro
                  scritto in oro, in corsivo, a mezzo un fregio
                  ovale, sui volumi di collegio
                  d'un tempo, rilegati in cuoio azzurro...

                  Nel salone ove par morto da poco
                  il riso di Carlotta, fra le buone
                  brutte cose borghesi, nel salone
                  quest'oggi, amica, noi faremo un gioco.
                  Parla il salone all'anima corrotta,
                  d'un'altra età beata e casalinga:
                  pel mio rimpianto voglio che tu finga
                  una commedia: tu sarai Carlotta.

                  Svesti la gonna d'oggi che assottiglia
                  la tua persona come una guaina,
                  scomponi la tua chioma parigina
                  troppo raccolta sulle sopracciglia;
                  vesti la gonna di quel tempo: i vecchi
                  tessuti a rombi, a ghirlandette, a strisce,
                  bipartisci le chiome in bande lisce
                  custodi delle guancie e degli orecchi.

                  Poni a gli orecchi gli orecchini arcaici
                  oblunghi, d'oro lavorato a maglia,
                  e al collo una collana di musaici
                  effigïanti le città d'Italia...
                  T'aspetterò sopra il divano, intento
                  in quella stampa: Venere e Vulcano...
                  Tu cerca nell'immenso canterano
                  dell'altra stanza il tuo travestimento.
                  Poi, travestita dei giorni lontani,
                  (commediante!) vieni tra le buone
                  brutte cose borghesi del salone,
                  vieni cantando un'eco dell'Ernani,
                  vieni dicendo i versi delicati
                  d'una musa del tempo che fu già:
                  qualche ballata di Giovanni Prati,
                  dolce a Carlotta, sessant'anni fa...
                  ...

                  Via per le cerule
                  volte stellate
                  più melanconica
                  la Luna errò.
                  E il lene e pallido
                  stuol delle fate
                  nel mar dell'etere
                  si dileguò...
                  Solo uno spirito
                  sotto quel tiglio
                  dev'ei si amavano
                  s'udia cantar.
                  Ahi! Fra le lacrime
                  di quest'esiglio
                  che importa vivere,
                  che giova amar?...
                  ...
                  ...
                  ...

                  Che giova amar?... La voce s'avvicina,
                  Carlotta appare. Veste d'una stoffa
                  a ghirlandette, così dolce e goffa
                  nel cerchio immenso della crinolina.
                  Vieni, fantasma vano che m'appari,
                  qui dove in sogno già ti vidi e udii,
                  qui dove un tempo furono gli Zii
                  molto dabbene, in belli conversari.

                  Ah! Per te non sarò, piccola allieva
                  diligente, il sofista schernitore;
                  ma quel cugin che si premeva il cuore
                  e che diceva «t'amo!» e non rideva.
                  Oh! La collana di città! Vïaggio
                  lungo la filza grave di musaici:
                  dolce seguire i panorami arcaici,
                  far con le labbra tal pellegrinaggio!

                  Come sussulta al ritmo del tuo fiato
                  Piazza San Marco e al ritmo d'una vena
                  come sussulta la città di Siena...
                  Pisa... Firenze... tutto il Gran Ducato!
                  Seguo tra i baci molte meraviglie,
                  colonne mozze, golfi sorridenti:
                  Castellamare... Napoli... Girgenti...
                  Tutto il Reame delle Due Sicilie!

                  Dolce tentare l'ultime che tieni
                  chiuse tra i seni piccole cornici:
                  Roma papale! Palpita tra i seni
                  la Roma degli Stati Pontifici!
                  Alterno, amica, un bacio ad ogni grido
                  della tua gola nuda e palpitante;
                  Carlotta non è più! Commedïante
                  del mio sognare fanciullesco, rido!

                  Rido! Perdona il riso che mi tiene,
                  mentre mi baci con pupille fisse...
                  Rido! Se qui, se qui ricomparisse
                  lo Zio con la Zia molto dabbene!
                  Vesti la gonna, pettina le chiome,
                  riponi i falbalà nel canterano.
                  Commediante del tempo lontano,
                  di Carlotta non resta altro che il nome.

                  Il nome!... Vedo il nome che sussurro,
                  scritto in oro, in corsivo, a mezzo fregio
                  ovale, sui volumi di collegio
                  d'un tempo, rilegati in cuoio azzurro...
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                    Scritta da: Silvana Stremiz
                    E l'anno scorso è morta.
                    Ebbe un amante. Pare.

                    Ricordi? Io la rivedo,
                    rivedo la compagna,
                    la classe, la lavagna,
                    e lei china alla filza
                    dei verbi greci... Smilza
                    e mascula: un cinedo
                    molto ricciuto e bello...
                    Ricordi? Io la rivedo
                    bionda, sciocchina, gaia:
                    un piccolo cervello
                    poco intellettuale
                    di piccola crestaia
                    molto sentimentale.
                    Non la ricordi? Smorta,
                    con certe iridi chiare
                    dal vasto arco ciliare...

                    E l'anno scorso è morta.
                    Ebbe un amante. Pare.

                    Quella è la casa dove
                    crebbe fanciulla. Guarda
                    quella finestra dove
                    vegliava ad ora tarda;
                    il biondo capo chino
                    su pergamene rozze
                    di greco e di latino,
                    sugli assiomi nudi...
                    Ma poi lascia gli studi
                    maschi, passando a nozze
                    cospicue: un amico,
                    pare, un amico antico
                    della madre, uno sposo
                    ricchissimo ed annoso,
                    inglese, che la porta
                    in terra d'oltremare...

                    E l'anno scorso è morta.
                    Ebbe un amante. Pare.

                    Volsero gli anni. Ed ella
                    esule sul Tamigi
                    non dava più novella...
                    Pure, nei giorni grigi,
                    tra i miei grigi ricordi,
                    vedevo a quando a quando
                    i coniugi discordi:
                    lo sposo venerando
                    e l'esile compagna
                    signora in Gran Bretagna...

                    Quand'ecco fa ritorno
                    fra noi, senza marito;
                    e fu rivista un giorno
                    più bella nel vestito
                    cupo... Cercava intorno
                    col volto sbigottito,
                    con pupilla assorta,
                    chi la volesse amare...

                    E l'anno scorso è morta.
                    Ebbe un amante. Pare.
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