Invecchiando la casa - la fattura si rivela maldestra. Non è saggio lasciare che fra tegoli e cimasa mi spii la pioggia m'adeschi la luna. Con la vela dei venti sempre tesa d'una all'altra finestra, col sole sempre pronto a una fessura a lusingarmi, a simulare maggio. E non una stagione che mi risparmi: un balbettio divino m'assedia di segreti tutto il giorno; e in sonno - sul cuscino! Non ho scampo né pace. Ma che affanno se a volte una ne tace. Chè quel loro affidarsi, più tremendo che dolce, è così dolce tuttavia che non mi sembra inganno, ma verità - né orgoglio par che sia la risposta dell'anima: "comprendo."
Quanto resisterà la rosa incinta nei suoi petali gonfi di segnali e quanto ardita farà fronte al vento la falange dell'erba, con pugnali di papaveri pronti fra le dita - o quanto manca al segno cui m'è dato giungere (batte ancora ogni ferita, cuore sesso intelletto)... sigillato nella natura è il verbo. E il poco suono che se ne ascolta è il canto che ci sale in gola, a dissipare la paura.
Sospinta a recitare - avevo in mente una diversa parte. Nel programma scordavano il mio nome. Le mie quattro parole, del resto, non supponevano un'arte. Poi sospinta al proscenio - nel cascame dell'altrui gloria. Le risa delle luci, gli applausi fitti come bosco in fiamme non erano per me. Fra le quinte e la polvere, felice, me ne stavo in disparte fissando in alto, oltre la gente - attenta a un vuoto parapetto di velluto, al buio dietro, all'ombra di quel re che mai nessuno ha veduto.
Folle incalzai le spalle del mattino – ero gremita d'impeti, d'azzardi –: ma quando, al colmo, consegnò la fiaccola, m'accorsi che già il meglio della luce s'era perduto. Corsi con affanno sulla scia del meriggio: troppo tardi m'udì – già stava a mezzo della scala.
Ormai debbo la sera supplicare di trattenersi ancora (come insiste l'ospite sulla porta, che da solo a rientrarsene in casa si fa triste) La supplico. Si fonde con le rare luci, con l'ombre: è qui – ma non risponde.
Delirassi, chiudetemi la bocca. Non credere, chiamassi un nome in sogno. Soprattutto, negli occhi non guardatemi. Chè incatenato, lacero, alla gogna degli aguzzini (Indietro! Non si tocca! Solo al capestro spetterà l'onore) – qui dalla spia dei miei occhi sorridervi voi lo vedreste, e alla sua sorte, al boia. Come un oltraggio stupireste: niente dell'atteso spettacolo. Un amore reo di morte – innocente.
Fruscio di foglie sulla terra nera, in fila dietro il piffero d'un vento, lacere, scalze, illuse d'essere ricondotte a primavera. Senti nel buio il trepido colloquio cieco, il sussurro per farsi coraggio. – Da loro impara, anima, se indietro sogni torcere il tuo viaggio. – Ah, tradite nell'alba al soliloquio del primo uccello! Sbaragliate al puro chiarore! Senza voce, illividite, fucilate dal sole a piè di un muro.
Sognando, stavo interpretando il sogno della mia morte. Discendendo scesi schiume subito aperte sotto la schiena. Ah quante braccia alzavo verso l'oblò celeste! Verso l'eternità che si sfilava dallo spirito mio come una povera veste. Fra che stelle di melma sarei schiantata, a che mi partoriva la nebulosa che s'era finta Iddio? Nel buio! Assassinata! Finché un raggio infilando la cruna d'un'imposta corse da me pungendomi la palpebra con una spina di rosa m'accusava ch'ero viva.
Più piano coi clarini delle cime, con i profondi salmi dei seracchi! Sulle vette covano fuoco le grandi colombe divine. Per sfuggire al silenzio dell'eco con edelweiss mi tapperò gli orecchi. Scamperò con la testa fra le braccia al diluvio azzurrissimo di Dio. L'anima mia non ha scale di roccia! Non so preghiere di cristallo, io.