Altri mai foco, stral, prigione o nodo sì vivo e acuto, e sì aspra e sì stretto non arse, impiagò, tenne e strinse il petto, quanto 'l mì ardente, acuto, acerba e sodo. Né qual io moro e nasco, e peno e godo, mor'altra e nasce, e pena ed ha diletto, per fermo e vario e bello e crudo aspetto, che 'n voci e 'n carte spesso accuso e lodo. Né fûro ad altrui mai le gioie care, quanto è a me, quando mi doglio e sfaccio, mirando a le mie luci or fosche or chiare. Mi dorrà sol, se mi trarrà d'impaccio, fin che potrò e viver ed amare, lo stral e 'l foco e la prigione e 'l laccio.
Arbor felice, aventuroso e chiaro. Onde i due rami sono al mondo nati, che vanno in alto, e son già tanto alzati, quanto raro altri rami unqua s'alzâro: rami che vanno ai grandi Scipi a paro, o s'altri fûr di lor mai più lodati (ben lo sanno i miei occhi fortunati, che per bearsi in un d'essi miraro), a te, tronco, a voi rami, sempre il cielo piova rugiada, sì che non v'offenda per avversa stagion caldo, né gelo. La chioma vostra e l'ombra s'apra e stenda verde per tutto; e d'onorato zelo odor, fior, frutti a tutt'Italia renda.
Se così come sono abietta e vile donna, posso portar sì alto foco, perché non debbo aver almeno un poco di ritraggerlo al mondo e vena e stile? S'Amor con novo, insolito focile, ov'io non potea gir, m'alzò a tal loco, perché non può non con usato gioco far la pena e la penna in me simìle? E, se non può per forza di natura, puollo almen per miracolo, che spesso vince, trapassa e rompe ogni misura. Come ciò sia non posso dir espresso; io provo ben che per mia gran ventura mi sento il cor di novo stile impresso.
Deh, perché così tardo gli occhi apersi nel divin, non umano amato volto, ond'io scorgo, mirando, impresso e scolto un mar d'alti miracoli e diversi? Non avrei, lassa, gli occhi indarno aspersi d'inutil pianto in questo viver stolto, né l'alma avria, com'ha, poco né molto di Fortuna o d'Amore onde dolersi. E sarei forse di sì chiaro grido, che, mercé de lo stil, ch'indi m'è dato, risoneria fors'Adria oggi, e 'l suo lido. Ond'io sol piango il mio tempo passato, mirando altrove; e forse anche mi fido di far in parte il foco mio lodato.
Chi vuol conoscer, donne, il mio signore, miri un signor di vago e dolce aspetto, giovane d'anni e vecchio d'intelletto, imagin de la gloria e del valore: di pelo biondo, e di vivo colore, di persona alta e spazioso petto, e finalmente in ogni opra perfetto, fuor ch'un poco (oimè lassa! ) empio in amore. E chi vuol poi conoscer me, rimiri una donna in effetti ed in sembiante imagin de la morte e dè martiri, un albergo di fé salda e costante, una, che, perché pianga, arda e sospiri, non fa pietoso il suo crudel amante.
Voi, che 'n marmi, in colori, in bronzo, in cera imitate e vincete la natura, formando questa e quell'altra figura, che poi somigli a la sua forma vera, venite tutti in graziosa schiera a formar la più bella creatura, che facesse giamai la prima cura, poi che con le sue man fè la primiera. Ritraggete il mio conte, e siavi a mente qual è dentro ritrarlo, e qual è fore; sì che a tanta opra non manchi niente. Fategli solamente doppio il core, come vedrete ch'egli ha veramente il suo e 'l mio, che gli ha donato Amore.
Quando i' veggio apparir il mio bel raggio, parmi veder il sol, quand'esce fòra; quando fa meco poi dolce dimora, assembra il sol che faccia suo viaggio. E tanta nel cor gioia e vigor aggio, tanta ne mostro nel sembiante allora, quanto l'erba, che pinge il sol ancora a mezzo giorno nel più vago maggio. Quando poi parte il mio sol finalmente, parmi l'altro veder, che scolorita lasci la terra andando in occidente. Ma l'altro torna e rende luce e vita; e del mio chiaro e lucido oriente è 'l tornar dubbio e certa la partita.
Chiaro e famoso mare, sovra 'l cui nobil dosso si posò 'l mio signor, mentre Amor volle; rive onorate e care (con sospir dir lo posso), che 'l petto mio vedeste spesso molle; soave lido e colle, che con fiato amoroso udisti le mie note, d'ira e di sdegno vòte, colme d'ogni diletto e di riposo; udite tutti intenti il suon or degli acerbi miei lamenti. Ì dico che dal giorno che fece dipartita l'idolo, ond'avean pace i miei sospiri, tolti mi fûr d'attorno tutti i ben d'esta vita; e restai preda eterna dè martìri: e, perch'io pur m'adiri e chiami Amor ingrato, che m'involò sì tosto il ben ch'or sta discosto, non per questo a pietade è mai tornato; e tien l'usate tempre, perch'io mi sfaccia e mi lamenti sempre. Deh fosse men lontano almen chi move il pianto, e chi move le giuste mie querele! Ché forse non invano m'affligerei cotanto, e chiamerei Amor empio e crudele, ch'amaro assenzio e fele dopo quel dolce cibo mi fè, lassa, gustare in tempre aspre ed amare. O duro tòsco, che 'n amor delibo, perché fai sì dogliosa la vita mia, che fu già sì gioiosa? Almen, poi che m'è lunge il mio terrestre dio, che sì lontano ancor m'apporta guai, il duol che sì mi punge non mandasse in oblio, e l'udisse ei, per cui piansi e cantai: men acerbi i miei lai, men cruda la mia pena, men fiero il mio tormento, che giorno e notte sento, fôra per la sua luce alma e serena; e sariami 'l dispetto dolce sovra ogni dolce alto diletto. S'egli è pur la mia stella, e se s'accorda il cielo, ch'io moia per cagion così gradita, venga Morte, e con ella Amor, e questo velo tolgan, ed esca fuor l'alma smarrita; che, da suo albergo uscita, volerà lieta in parte, dove s'avrà mercede de la sua viva fede, fede d'esser cantata in mille carte. Ma, lassa, a che non torna chi le tenebre mie con gli occhi adorna? Se tu fossi contenta, canzon, come sei mesta, n'andresti chiara in quella parte e 'n questa.
Accogliete benigni, o colle, o fiume, albergo de le Grazie alme e d'Amore, quella ch'arde del vostro alto signore, e vive sol de' raggi del suo lume; e, se fate ch'amando si consume men aspramente il mio infiammato core, pregherò che vi sieno amiche l'ore, ogni ninfa silvestre ed ogni nume e lascerò scolpita in qualche scorza la memoria di tanta cortesia quando di lasciar voi mi sarà forza. Ma, lassa, io sento che la fiamma mia, che devrebbe scemar, più si rinforza, e più ch'altrove qui s'ama e disia
Mentr'io conto fra me minutamente le doti del mio conte a parte a parte, nobilitate, bellezza, ingegno ed arte, che lo fan chiaro sovra l'altra gente, tale e tanto piacer l'anima sente, che, sendo tutte le sue virtù sparte, mi meraviglio come non si parte, volando al ciel per starci eternamente. E certo v'anderia, se non temesse che restasse il suo ben da lei diviso, e men beato il suo stato rendesse; perché 'l suo vero e proprio paradiso, quello che per bearsi ella si elesse, è 'l mio dolce signor e 'l suo bel viso.