Passò strosciando e sibilando il nero nembo: or la chiesa squilla; il tetto, rosso, luccica; un fresco odor dal cimitero viene, di bosso. Presso la chiesa; mentre la sua voce tintinna, canta, a onde lunghe romba; ruzza uno stuolo, ed alla grande croce tornano a bomba. Un vel di pioggia vela l'orizzonte; ma il cimitero, sotto il ciel sereno, placido olezza: va da monte a monte l'arcobaleno.
Dov'era la luna? Ché il cielo notava in un'alba di perla, ed ergersi il mandorlo e il melo parevano a meglio vederla. Venivano soffi di lampi da un nero di nubi laggiù: veniva una voce dai campi: chiù... Le stelle lucevano rare tra mezzo alla nebbia di latte: sentivo il cullare del mare, sentivo un fru fru tra le fratte; sentivo nel cuore un sussulto, com'eco d'un grido che fu. Sonava lontano il singulto: chiù... Su tutte le lucide vette tremava un sospiro di vento; squassavano le cavallette finissimi sistri d'argento (tintinni a invisibili porte che forse non s'aprono più?... ); e c'era quel pianto di morte... chiù...
Domenica! Il dì che a mattina sorride e sospira al tramonto!... Che ha quella teglia in cucina? Che brontola brontola brontola... È fuori un frastuono di giuoco, per casa è un sentore di spigo... Che ha quella pentola al fuoco? Che sfrigola sfrigola sfrigola... E già la massaia ritorna da messa; così come trovasi adorna, s'appressa: la brage qua copre, là desta, passando, frr, come in un volo, spargendo un odore di festa, di nuovo, di tela e giaggiolo. La macchina è in punto; l'agnello nel lungo schidione è già pronto; la teglia è sul chiuso fornello, che brontola brontola brontola... Ed ecco la macchina parte da sé, col suo trepido intrigo: la pentola nera è da parte, che sfrigola sfrigola sfrigola...
Ed ecco che scende, che sale, che frulla, che va con un dondolo eguale di culla. La legna scoppietta; ed un fioco fragore all'orecchio risuona di qualche invitato, che un poco s'è fermo su l'uscio, e ragiona. È l'ora, in cucina, che troppi due sono, ed un solo non basta: si cuoce, tra murmuri e scoppi, la bionda matassa di pasta. Qua, nella cucina, lo svolo di piccole grida d'impero; là, in sala, il ronzare, ormai solo, d'un ospite molto ciarliero. Avanti i suoi ciocchi, senz'ira né pena, la docile macchina gira serena, qual docile servo, una volta ch'ha inteso, né altro bisogna: lavora nel mentre che ascolta, lavora nel mentre che sogna. Va sempre, s'affretta, ch'è l'ora, con una vertigine molle: con qualche suo fremito incuora la pentola grande che bolle. È l'ora: s'affretta, né tace, ché sgrida, rimprovera, accusa, col suo ticchettìo pertinace, la teglia che brontola chiusa. Campana lontana si sente sonare. Un'altra con onde più lente, più chiare, risponde. Ed il piccolo schiavo già stanco, girando bel bello, già mormora, in tavola! In tavola!, e dondola il suo campanello.
Quando brillava il vespero vermiglio, e il cipresso pareva oro, oro fino, la madre disse al piccoletto figlio: Così fatto è lassù tutto un giardino. Il bimbo dorme, e sogna i rami d'oro, gli alberi d'oro, le foreste d'oro; mentre il cipresso nella notte nera scagliasi al vento, piange alla bufera.
Ricordi quand'eri saggina, coi penduli grani che il vento scoteva, come una manina di bimbo il sonaglio d'argento? Cadeva la brina; la pioggia cadeva: passavano uccelli gemendo: tu gracile e roggia tinnivi coi cento ramelli. Ed oggi non più come ieri tu senti la pioggia e la brina, ma sgrigioli come quand'eri saggina. Restavi negletta nei solchi quand'ogni pannocchia fu colta: te, colsero, quando i bifolchi v'ararono ancora una volta. Un vecchio ti prese, recise, legò; ti privò della bella semenza tua rossa; e ti mise nell'angolo, ad essere ancella. E in casa tu resti, in un canto, negletta qui come laggiù; ma niuno è di casa pur quanto sei tu. Se t'odia colui che la trama distende negli alti solai, l'arguta gallina pur t'ama, cui porti la preda che fai. E t'ama anche senza, ché ai costi ti sbalza, ed i grani t'invola, residui del tempo che fosti saggina, nei campi già sola. Ma più, gracilando t'aspetta con ciò che in tua vasta rapina le strascichi dalla già netta cucina. Tu lasci che t'odiino, lasci che t'amino: muta, il tuo giorno, nell'angolo, resti, coi fasci di stecchi che attendono il forno. Nell'angolo il giorno tu resti, pensosa del canto del gallo; se al bimbo tu già non ti presti, che viene, e ti vuole cavallo. Riporti, con lui che ti frena, le paglie ch'hai tolte, e ben più; e gioia or n'ha esso; ma pena poi tu. Sei l'umile ancella; ma reggi la casa: tu sgridi a buon'ora, mentre impaziente passeggi, gl'ignavi che dormono ancora. E quanto tu muovi dal canto, la rondine è ancora nel nido; e quando comincia il suo canto, già ode per casa il tuo strido. E l'alba il suo cielo rischiara, ma prima lo spruzza e imperlina, così come tu la tua cara casina. Sei l'umile ancella, ma regni su l'umile casa pulita. Minacci, rimproveri; insegni ch'è bella, se pura, la vita. Insegni, con l'acre tua cura rodendo la pietra e la creta, che sempre, per essere pura, si logora l'anima lieta. Insegni, tu sacra ad un rogo non tardo, non bello, che più di ciò che tu mondi, ti logori tu!
O cipresso, che solo e nero stacchi dal vitreo cielo, sopra lo sterpeto irto di cardi e stridulo di biacchi:
in te sovente, al tempo delle more, odono i bimbi un pispillìo secreto, come d'un nido che ti sogni in cuore.
L'ultima cova. Tu canti sommesso mentre s'allunga l'ombra taciturna nel tristo campo: quasi, ermo cipresso, ella ricerchi tra què bronchi un'urna.
Più brevi i giorni, e l'ombra ogni dì meno s'indugia e cerca, irrequieta, al sole; e il sole è freddo e pallido il sereno.
L'ombra, ogni sera prima, entra nell'ombra: nell'ombra ove le stelle errano sole. E il rovo arrossa e con le spine ingombra
tutti i sentieri, e cadono già roggie le foglie intorno (indifferente oscilla l'ermo cipresso), e già le prime pioggie fischiano, ed il libeccio ulula e squilla.
E il tuo nido? Il tuo nido?... Ulula forte il vento e t'urta e ti percuote a lungo: tu sorgi, e resti; simile alla Morte.
E il tuo cuore? Il tuo cuore?... Orrida trebbia l'acqua i miei vetri, e là ti vedo lungo, di nebbia nera tra la grigia nebbia.
E il tuo sogno? La terra ecco scompare: la neve, muta a guisa del pensiero, cade. Tra il bianco e tacito franare tu stai, gigante immobilmente nero.
Nevica: l'aria brulica di bianco; la terra è bianca; neve sopra neve: gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco: cade del bianco con un tonfo lieve. E le ventate soffiano di schianto e per le vie mulina la bufera; passano bimbi: un balbettìo di pianto; passa una madre: passa una preghiera.
E cielo e terra si mostrò qual era: la terra ansante, livida, in sussulto. Il cielo ingombro, tragico, disfatto: bianca bianca nel tacito tumulto una casa apparì sparì d'un tratto; come un occhio, che, largo, esterrefatto, s'aprì e si chiuse, nella notte nera.
E nella notte nera come il nulla, a un tratto, col fragor d'arduo dirupo che frana, il tuono rimbombò di schianto: rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo, e tacque, e poi rimareggiò rinfranto, e poi vanì. Soave allora un anto s'udì di madre, e il moto di una culla.