Pregno di gaiezza ai dì di fanciullezza Ti ricordo, ancora gaio nella giovinezza. Ti rivedo, da adulto, in contentezza Ti ritrovo e io maturo in allegrezza
Sei. Fece l'ingresso, poi, lo sfollamento E la migrazione divenne grand'evento Come deflusso in grande scorrimento, presto, indi, rimanesti in isolamento.
Eri un paesino, mia cara Falerna, da dolce espressione e sorridente ma poiché, ahimè, nulla cosa è eterna divenisti, pure tu, debole e perdente.
Ti sorrideva il mar Tirreno in faccia E ancor'oggi, tuttora, ti sorride. Allora sul terrazzo era gente all'affaccio Ora qualche vecchio che i tuoi fulgori vide.
L'Onnipossente, immenso Creatore, l'Iddio che dell'Universo è fondatore, che dal nulla formò cielo, terra e mare che se odiato sa soltanto amare onde lo sacrificio del Figliol non fosse vano all'uomo crudele volle stendere la mano. Decise, quindi, di donare due calle; l'una che scende liscia verso valle l'altra di rovi cosparsa, macigni e sassi che difficoltoso è muovere i passi. La prima mena dritta al fuoco eterno Perché percorsa dal male dell'inferno; la seconda stretta, cosparsa di pece porta alla carità, la luce e pace.
L'una a misura di cattivi e stolti l'altra pei buoni, di carità avvolti. Queste le opportunità che Dio ha dato; a noi andare a destra o a manco lato.
Allorquando lo corpo di vigore iva percorso e mai mancar sentii le forze in esso, la morte mi parea solo uno scherzo e ne facea, perciò, fonte di scherno e ci ridevo e di battute tante ne facevo. Or che lo corpo è debole e floscio e alla vecchiezza s'è incamminato essa m'appare qualcosa di possente che pria del corpo schiacciami la mente. Ora la temo, più che temer la tremo, e ogni dì ver me venir la vedo. S'avanza e non s'arresta neppur per un momento brandendo negli artigli falce tagliente. Paura di guardarla in faccia tengo, la scarna sua figura m'appare mostro e a ogni passo più mi dà tremore. Vorrei poter sparire, nuvola divenire Per dare pace alla mia spaurita mente E allontanarla dal tremor di morte E riportarla ai gioiosi dì di giovinezza quando al rimembrare di cotanto mostro scherzavo e ridevo di gaiezza.
Quando il dispero l'alma avea invaso dell'ineluttabilità già persuaso un pensier fosco insinuò la mente e del cervello ne fu preminente per quel qualcosa che portommi via nella certezza ch'essere più non sia. Altro non era ragionar diverso ch'ogni pensier gentile era disperso.
Prostato, un giorno, mi apprestai al Divino e grazia domandai pel mio destino, lo feci con fiducia mai avuta a Colui che sollievo dona, ama ed aiuta. Di naufrago che a tavol'aggrappato da fort'ondate a lungo sballottato che già fiducia tutta avea perduto e in quel relitto ebbe un fort'aiuto.
Io aggrappommi all'Essere Supremo che della barca tiene timone e remo, pace Gli domandai con la mia prece e nella prece riedemi la perduta pace.
È detto nel Vangelo che l'apostolo fidato per solo trenta monete fece la carognata. E, nello sconsolo ebbe di morte ardentemente sete.
Legò la fune in cima all'albero vicino; Un cappio intorno al collo e penzolò a valle. Il volto paonazzo del tracollo disse dello spergiuro pazzo.
Tu hai fatto di più di chi tradì Gesù: dato m'hai alle ortiche e non sei pentita. Niente per me affetto, per gli atri sempre più. Lavato t'hai le mani e crediti pulita.
Così come Pilato lo fece per Gesù così, senza ritegno, per me l'hai fatto tu. Pilato nelle arterie sangue diverso tiene lo stesso, invece, scorre nelle nostre vene.
Coperto d'un lenzuolo di bianco lino Mi ritrovai disteso sotto un pino. Il luogo mi pareva squallido e nero E il tutto m'appariva un gran mistero. Strani rumori, fruscii, non voci né lamenti, non alcuno presente, non erano viventi ma com'infiniti oceani pianeggianti solo lanterne fievoli e tremanti. Forte pulsavami lo core dentro al petto, sparire avrei voluto ma restai interdetto di freddo tremando e di paura mentre la mente si volgea a sciagura. Sussultando, stordito e impaurito Mi rigirai un poco e guardai indietro Da dove mi parea giungessero suoni D'inestricabili voci e di scarponi. Con lenta cadenza e andatura austera Avanzavano ver me, in veste nera, con in mano una un bastone dorato, l'altra, sul braccio, un pastrano ornato due alte figure di nobile casato con lo stemma sul petto disegnato. M'apprestai ad un inchino riverente Ma lor giraro tosto lato ponente. Consolato di sì tanta presenza Stanco, sedetti sopra una sporgenza Ch'avea pensato essere un muretto Invece, ahimè, trattavasi d'un ometto. Con tanto spazio che ti trovi intorno Non mi par vero che non senti scorno D'appollaiarti sul mio teschio scarno Come su ceppo di pietra di marmo. Giammai avrei osato così tanto Se non avessi pensato lungi alquanto Essere tu prossimo a un vivente In questo campo ove l'umano è assente. E, poiché la mente mia è allo sbaraglio Vogliami perdonare per lo sbaglio, per non avere in tempo conosciuto chi come me, in terra, era pasciuto. Mi girai, una grande distesa di viole, lui squagliato come neve al sole. Poggiai la mano sopra una casupola, caddi su un prato coltivato a rucola. Tre cagnolini dal pezzato pelo Guaivano tremanti intorno a un palo Mentre due donne dal vestito nero Avanzavano ver me a passo leggero. Dovere di cortesia m'imponeva inchino Ma già rivolte altrove, dietro un pino, Ignoravano lo saluto e a passo lesto, a testa china e con fare mesto giravano attorno un grande casolare dove erano più cani ad abbaiare. Per chetare la morsa della fame Seppur in pantofole e pigiama, l'abbaiare dei cani l'un l'altr'ostile tosto mi portarono in cortile ché l'alba da tre ore era già sorta e i poveracci non avean più scorta.
Se maggiore serenità avessi avuto tant'altre idee avrei su carta impresso. Ma lo star quieto, disteso e spensierato non son cose che l'io detiene in dote: sono gli altri, se sensibili e veraci, rendere l'uomo in posizion di quiete. Ma se caparbi, capricciosi e infidi la mente di color che stanno a tiro triste la fanno e di pensiero priva.