Le migliori poesie di Nello Maruca

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Scritta da: Nello Maruca

Il Portento

Se davvero sei un portento
E rimani sempre attento
Restar devi ognor contento
Pur se storto soffia il vento.

Se invece, ahimè, t'ammosci
E l'ardir non riconosci
E il tuo io, indi, tradisci
Sol perché non lo capisci

Caro portento te lo dico:
La corteccia hai del fico.
Se t'incunei in questo vico
Rimarrò comunque amico

Perché inciso è nel mio cuore:
tanta stima e fratern'amore.
Nello Maruca
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    Scritta da: Nello Maruca

    CLXXXI

    Inebetito, steso mi fui cheto
    per nove dì che tutto ardea di foco
    e membra consumommi poco a poco
    e lo pensare al cranio fummi veto.

    Lo cinquettar d'uccello del vigneto
    fecemi intraveder dond'ero il loco
    e a fiato fioco la mia mamma invoco
    ché dal cald'affetto ancora non desueto

    Giovane suora che a mio canto siede,
    flebile e dolce voce sì mi dice:
    Mamma ch'invochi tosto qui riede

    Ch'affiancata dalla madre Badessa
    siede al cospetto di Signora Contessa
    ch'è di colei che ami generatrice.
    Nello Maruca
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      Scritta da: Nello Maruca

      Il garofano

      Era un giugno luminoso
      che compare rigoglioso,
      nell'orto del mio ostello,
      il garofano assai bello.

      Nasce accosto alla rosa
      che da un po' s'era già posa
      là, nel mezzo alle viole
      per far splendere più il sole.

      Il garofano all'istante
      rende il sol'incandescente
      giacché in faccia gli riflette
      com'esso alle alte vette.
      Nello Maruca
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        Scritta da: Nello Maruca

        L'ingannevole

        Al nefasto giudicio che destommi tema
        desolato mi dipartii e senza speme.
        Fu il dispero, tutto mi fu nero
        spiraglio alcuno non vedea, invero.
        Conobbi l'impotente debolezza,
        nullo e nessuno davami certezza.
        Nel Tempio mi trovai degl'Alemanni
        come deporre i tanti, molti affanni.
        Andò per tempo, non ricordo quanto,

        dalla Croce, la vista, all'Azzurro Manto.
        D'automa movenza fu all'accender cero,
        col cuore lo feci palpitante e nero.
        Quella fiammella tremula, pencolante
        poscia per l'alma mia fu illuminante.
        Parea un varco mi si fosse aperto
        in mezzo quel che grande era sconcerto.

        E, poi, di nuovo cupa desolazione
        e immensa ancora fu disperazione.
        Col cuore infranto, stanco, sconfortato
        in casa mi trovai, da trasportato.
        Mentre mi riportavo al luogo mesto **
        fu il pensiero mio determinato e desto
        a ripassar in quel ch'è Sacro Luogo
        onde scrollarmi del pesante giogo.

        Lì, rimasi infreddolito e stanco
        con quella spina che pungeami il fianco;
        Lo guardo riandò su l'Effige Santa
        e poi portossi alla Donna Santa,
        e mentre la guardavo la pregavo
        e nella prece tutto mi donavo
        e mi pareva d'essere ascoltato
        e mi pareva d'essere consolato.

        E più guardavo quell'Effige Santa:
        Abbi fiducia, abbine sì tanta
        e più parea che cenno mi facesse
        quasi che dir qualcosa mi volesse.
        L'Effige ch'è in Croce mi rispose,
        sulla testa Maria la Mano santa pose
        e quel ch'accadde, poi, non parmi vero:
        Schiarito fu, quel ch'era tutto nero.

        Ed il sorriso ritornommi in viso,
        lievi sentii le spalle, senza peso;
        leggero dentro, senz'alcun tormento
        un guardo, un grazie volsi al Firmamento.
        Schiacciato fu il diagnosticato prima
        poiché riposto avea tutta mia stima
        al Creator di tutto, al Redentore
        che sa donare gioia ad ogni cuore.

        Quanto l'Onnipotente è umile e verace
        tanto sei, uomo, tronfio e fallace.
        Nello Maruca
        Composta lunedì 30 novembre 1998
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          Scritta da: Nello Maruca

          Lo scalognato

          Per volere del destino ebbe intoppo
          nel cammino e da molti, tanti anni
          vive in speme, tormenti e affanni;
          come erbivoro destriero al galoppo
          uso e corsa rallentato in galoppare
          per malore d'ungula afflitto
          appar mesto, mogio appare e derelitto.
          Tal si è, desolato e moscio
          ché mai spiraglio s'aperse all'orizzonte
          che nel calore sciogliesse il moral floscio
          e da valle lo proiettasse al desiato monte.
          Come avviene non sa e forse mai saprà.

          Avendo un po' di fede, però, in Dio
          il cuore gli detta:: Fu sfortuna dell'io.
          Nello Maruca
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            Scritta da: Nello Maruca

            Il patimento

            In quel quarantatré, dai suoi albori
            di quante tristi cose furon'orrori,
            quante anormali cose ebber processo
            tutto in memoria bene m'è impresso.
            Per quanto m'opri e sproni l'intelletto
            su carta, certo, non può esser detto
            quel ch'ho vissuto e con mio occhio visto
            in quel periodo nero, infame e tristo.

            Aleggiava miseria tutt'intorno
            e pane non era più in nessun forno;
            grano non era né farina o pasta
            e pochi i viveri distribuiti a testa.
            La tessera donava misero diritto
            ad accedere a poco, grame vitto;
            la fame in ogni dove era perenne,
            da sofferenza vecchio era trentenne.

            Prodotto non donava più la terra;
            era periodo tristo, era la guerra!
            Manco erba era agli argini di via
            ch'er'estirpata che nascesse pria.
            Di medicina, poi, non era traccia
            e il patimento si leggeva in faccia.
            V'era, soltanto, del poco chinino
            che scarso lo teneva il tabacchino.

            Nessuno al piede più avea calzare,
            nessuno panni aveva da indossare.
            Occhio scavato, zigomo sporgente,
            testa cadente, sguardo triste e assente.
            Scalza la donna, macilenta e stanca
            di cenci avea coperto spalla e anca;
            gobba teneva e non avea vent'anni,
            curve le spalle per i molti affanni.

            Ovunque era sporcizia, era lordura,
            di scarafaggi piena ogni fessura;
            di cimice e di mosche era marea,
            pulci e pidocchi ahimè! Ognuno avea.
            Necessità del corpo fisiologica
            soddisfava in vaso di ceramica
            la donna, il maschio, con corruccio
            di cesso ne faceva ogni cantuccio.

            Mesta sonava la campana a lutto
            per annunciare della guerra il frutto;
            quel tocco come freccia il cuor passava,
            piangea la donna, ahimè, chi non tornava.
            Per quella guerra dal passo stanco e lento
            altro Virgulto risultava spento
            e la speme che nutria la giovinetta
            era infilzata dalla baionetta.

            Di fame sofferente e di stanchezza
            gente che perso avea casa e ricchezza
            giungeva con scarsi panni addosso
            ch'al sol vederla umano era commosso.
            Siamo sfollati, venivano dicendo,
            veniamo da lontano, veniamo da Trento.
            Avevamo mestiere professione e arte
            delle vostre miserie deh! Fateci parte.

            Dacché la guerra su nostra Terra regna
            destino cattivo i nostri animi segna;
            dacché l'odio è calato come lampo
            manco nella preghiera avemmo scampo.
            E noi, che poveri eravamo non meno d'essi
            in un abbraccio a loro stemmo commossi,
            le nostre alle loro lacrime mischiammo
            e l'un con l'altro un solo corpo fummo.

            Di militi a cavallo e giacca a vento
            era un esteso, grand'accampamento.
            Militi stavano a guardia per cancello
            e avevano disloco in area Polpicello,
            Portavano divise lacere a stellette
            e a pranzo sgranavano gallette
            con poco vitto ch'era in scatolame,
            per appagare i morsi della fame.

            In questo quadro triste e desolante
            v'era qualcosa, però, di sublimante.
            Era quel canto che s'innalzava al cielo
            da dentro le baracche a verde telo.
            Gl'inni di Patria che i militi intonavano
            con orgoglio pel cielo veleggiavano
            e nell'udirli: Grandezza del Divino!
            Non era fame, nemmen tristo destino.
            Nello Maruca
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              Scritta da: Nello Maruca

              Il cipresso

              E fu Giuseppe per quarant'anni ed oltre
              a far'inchini e salutar dappresso
              finché trovossi un dì su stessa coltre *
              accanto colui che prima era cipresso.
              Parve, indi, con stupore immenso
              d'avere inchino da sì alto fusto;
              anchilosato fu, disse: Che penso?
              No! Cervello mio: Sei vecchio e guasto.

              E chiusi gli occhi, ch'era stanco assai,
              la destra penzoloni giù dal letto
              s'assopì pian pianino pensando ai guai
              ed alla vision ch'oggi fu oggetto.
              Così restossi: Tempo quanto nol seppe
              ma parvegli poi da tocco essere scosso
              mentre affettuosamente: Che fai o Peppe?
              Sentì stanco quel dire, quanto commosso.

              Per i suoi vitrei, da peso oppressi occhi
              forza non ebbe di guardar chi fosse,
              chi a voce lo chiamava e piccoli tocchi
              e debolmente pensava chi esser potesse.
              Fu il dì di poi, a mattino andato
              che disteso a letto a lui di presso
              scorge vetust'uomo, volto emaciato
              che credere stenta ch'esser sia lo stesso

              che per tant'anni ebbe ad inchinarsi.
              Quello lo guarda e stancamente dice:
              Ho, qui, nel petto di dolor dei morsi,
              stanco mi sento e d'essere infelice.
              Io non pensavo mai, Vossignoria,
              un giorno di trovarmi accanto a Voi,
              quest'oggi il cuore mio è in allegria
              ch'ha la fortuna d'essere con Voi.

              Prim'io voglianza avevo di morire
              che sempre fui più stanco e tribolato
              sper'ora, invece, manco di guarire
              ch'accanto Vossignoria sono appagato.
              Certo! Tu allato sempre sei vissuto
              e ancorché steso resti consolato.
              Non me, però, da nobil stirpe nato
              sempre diverso fui, e non reietto.

              Vossignoria restate tale e quale
              con l'arroganza nelle vostre vene
              ma l'altezzosità più a nulla vale
              perché acuisce solo le vostre pene.
              Da parte mia vi dico: Io vi perdono
              e mi prosterno a voi per quella gioia
              che il cuore mio ha ricevuto in dono
              d'avere accanto a sé vossignoria.
              Nello Maruca
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                Scritta da: Nello Maruca

                Lacché

                Lo rossore assomiglia ad un bel fiore;
                se lo coltivi, lo curi e l'hai nel cuore
                dal gambo alla corolla resta splendore
                e in ogni ora t'inebria del suo odore.
                Ma se nol curi, lo strappi e lo calpesti
                è qual morente dagli occhi spenti e pesti.
                E se pure lo raccogli tutto quanto
                mai riavrà la primiera bellezza del suo manto.

                Così è l'uomo se decoro mantiene,
                se saldo lo rossore sempre detiene;
                ma se perde o oscura la sua faccia
                è pari al verme che sguazza nella feccia.
                E qui dire vorrei del topo di fogna
                che nella melma vive e la vergogna;
                ed è quell'uomo che col capo chino
                striscia qual biscia mentre fa l'inchino.

                È faccia porcina, aspetto orripilante,
                nel letto dell'avverso trovasi d'amante
                e sol per qualche chicco di lenticchia
                tradisce la famiglia e la sua cerchia.
                Pezzente! Fare poteva solo l'inserviente
                ma lo portaro in cima: Ad assistente.
                E pure se insuperbito dell'alto rango
                la nostalgia lo rituffò nel fango...

                Di limo in limo, ahimè, vaga strisciando
                ed or questo padrone or quel servendo
                ansimando ricerca lo caldo d'altro fuoco
                ma ognuno lo manda altrove: In altro loco.
                Stolto! Crede di fare dell'inciucio
                e non s'accorge d'esser nato ciuccio.
                Cerca di gareggiare con abili cervelli
                ma è solamente il re degl'asinelli.

                Assicurando va d'essere paladino
                del cittadino e del suo destino.
                Nemmanco fosse il Grande Napolitano
                che nel costume è retto, integro, sano.
                Invece, il vero chiodo ch'ha in mente
                è rimanere lacché del presidente.
                Nello Maruca
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                  Scritta da: Nello Maruca

                  Strazio

                  Dolce per l'aria un suono va vagando
                  l'orecchio armoniosamente deliziando,
                  come del mare l'onda fluttuante
                  ora anelante, or più pacatamente.

                  Carezzevole un canto l'accompagna
                  dal villaggio, pei boschi, alla campagna
                  da zeffiro, piacevolmente, sostenuto
                  come bianco Angelo in ali convenuto.

                  Vecchio canuto dagli occhi penetranti,
                  barba a peli bianchi, mani tremanti,
                  faccia triste e stanca, espressione mesta,
                  la testa tra le mani, pensoso, resta.

                  Ripensa al tempo andato, per l'anima
                  sprecato, ritorna agli anni d'oro, rivive
                  le ballate, le serenate ch'ora non sublima,
                  i dolci canti, i suoni, le passioni estive.

                  Suo comportar calato l'ha nel fondo,
                  i dolci suoni che in aria mena i venti
                  gli anni addolcendo, orecchi carezzando,
                  per gl'anni ch'ora compie, sono strazianti.

                  Chi l'animo ha deterso d'ogni ruina
                  e dell'altrui bene ha fatto sua dottrina
                  sol egli letificare può del festeggiare
                  giacché in petto è amore a spazieggiare.

                  Altri non può, l'animo ne ha rigetto;
                  percorso non ha la via dal passo stretto
                  che dritto mena al benevolo cospetto
                  di Chi, per noi, trafitto ha il Santo Petto.
                  Nello Maruca
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                    Scritta da: Nello Maruca

                    Intemperanza politica

                    Mi trovavo, di mattino, al Municipio
                    giacché sbrigar dovevo un'incombenza;
                    di botto fui d'ergumeni in corto spazio
                    che perso aveano il senso della decenza.
                    L'un volgarmente all'altro si scagliava
                    mentre quell'altro, in urla, bestemmiava;
                    l'uno del ladro dava al suo collega
                    l'altro parea avere gusto a brutta bega.

                    L'uno la Benemerita invocava
                    l'altro, la strozza, d'un balzo afferrava;
                    quello di stazza grossa ed imponente
                    rendea quell'altro nullo ed impotente.
                    Fortuna l'ali stese, in quel frangente,
                    giacché trovavansi vigorosa gente
                    che, il piccolo sollevava con veemenza
                    e al bisonte entrava in colluttanza.

                    Ed or, ciò detto, pure il mio pensiero,
                    mi si consenta esponga: Degrado
                    peggiore esser non potrebbe se al guado
                    d'aspettar il collega l'altro n'è altero:
                    Miserabili, di cordata, furon compagni
                    per conquistare un umile sgabello
                    e non disdegnaro neppur loschi convegni
                    amando coda di leone a capo d'agnello.

                    Di bega e lascivia la gente non ha usanza,
                    nel rispetto di legge vuole governanza;
                    necessita, d'amministratori, vera presenza
                    che alla comunità dia rispondenza.
                    Uomini, quindi, di governo degni
                    di rispetto intrisi, non di sdegni,
                    ch'abbiano per sol fine bene comune
                    e interessenze mai, giammai niune.

                    Chi della cosa pubblica ha la reggenza
                    non stia un letargo e misera temperanza;
                    s'adoperi a togliere crosta e indecenza,
                    dimostri ancor fermezza e sua prestanza
                    pur senza dare sfogo all'impazienza.
                    Ridoni al popolo suo persa speranza,
                    fà che ripudio non tocchi comunanza
                    e designi il consigliere per competenza.
                    Nello Maruca
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