Scritta da: Andrea De Candia
in Poesie (Poesie d'Autore)
Mare, cielo ribelle
caduto giù dai cieli!
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Mare, cielo ribelle
caduto giù dai cieli!
Ti vorrei dare questa stella alpina.
Guardala: è grande e morbida. Sul foglio,
pare un'esangue mano abbandonata.
Sbucata dalle crepe di una roccia,
o sui ghiaioni, o al ciglio di una gola,
là si sbiancava alla più pura luce.
Prendila: è monda e intatta. Questo dono
non può farti del male, perché il cuore
oggi ha il colore delle genzianelle.
Oh, questo suono di oro che va,
questo oro che va all'eternità;
che triste il nostro udito che ode già
questo oro che va all'eternità,
questo silenzio che rimarrà qua
mentre il suo oro va all'eternità!
Qui vi prendo prigioniere
voi parole
come voi sillabandomi fino al sangue
mi prendete prigioniera
voi siete i miei battiti del cuore
contate il mio tempo
questo vuoto segnato da nomi
lasciate che guardi l'aligero
che canta
se no credo l'amore somigli alla morte.
Io sento l'aria ora di un'altra sfera
e mi scolorano nel buio i volti
benignamente a me prima rivolti.
E alberi amati e strade come a sera
oscurano, che appena li ravviso:
e ombra tu chiara - voce al mio tormento -
in più profonde fiamme ora sei spenta
per solcarmi d'un brivido improvviso
dopo la guerra cieca in cui deliro.
In circoli mi sciolgo in lume, in suono
e senza brama al fervido respiro
in lode pura grato m'abbandono.
Un violento soffio ora m'assale
nell'ebbrezza del rito ove uno stuolo
di donne implora prosternato al suolo.
E il vapore di nebbie lento esala
a una contrada fulgida di sole,
che cinge solo alpestri ultime gole.
Candida e molle come latte trema
la terra... su dirupi enormi io varco:
di là rapito della nube estrema,
nuoto in un mar di cristallina luce -
una favilla io ormai del fuoco sacro,
io sono un rombo della sacra voce.
Talora a sera tarda - era la luna -
c'incamminammo allegri abbrividenti,
quasi, rigati dagli umidi fiori,
varcassimo la selva delle favole.
Tu mi guidavi alle incantate valli
di nudo lume e pallidi sentori;
m'indicavi le grotte ove matura
il triste amore in gelo di tormenti.
Arpa del silenzio
in cui si annida la paura.
Gemito lunare delle cose
che sta per l'assenza.
Spazio dal colore chiuso.
Qualcuno batte e assembla
una bara per l'ora,
un'altra bara per la luce.
Taglio violento
la ferita di luce -
sangue sul sole.
Non monti, anime di monti sono
queste pallide guglie, irrigidite
in volontà d'ascesa. E noi strisciamo
sull'ignota fermezza: a palmo a palmo,
con l'arcuata tensione delle dita,
con la piatta aderenza delle membra,
guadagnammo la roccia; con la fame
dei predatori, issiamo sulla pietra
il nostro corpo molle; ebbri d'immenso,
inalberiamo sopra l'irta vetta
la nostra fragilità ardente. In basso,
la roccia dura piange. Dalle nere,
profonde crepe, cola un freddo pianto
di gocce chiare: e subito sparisce
sotto i massi franati. Ma, lì intorno,
un azzurro fiorire di miosotidi
tradisce l'umidore ed un remoto
lamento s'ode, ch'è come il singhiozzo
trattenuto, incessante, della terra.
Ombra fedele come una custodia,
cane segugio di quella mia musica
che sono i passi scritti sui leggii
dei marciapiedi. Ombra, formica china
trascini la mollica del mio corpo
al nulla della meta più distante.
Ombra, neonata, la mia carne un latte
e le piante dei piedi, infimi seni
cui succhi quel guadagno ch'è la vita.
Ombra, carezza lieve del riflesso
biondo, solare, ombra, più crudele
masso attaccato a sprofondanti colli,
giù verso il fondo – ché s'annega insieme –
del mare caldo della passeggiata,
eco di suola senza eco di scarpa
e suo privilegiato farne a meno!
Cadavere che porto inseppellito,
onnipresente bara che la strada
porta sulle sue spalle
nel funebre corteo ch'è solitudine!
Ombra vigliacca notte che ha implorato
china fin sotto i piedi ad ogni passo,
aspettando che alzassi le mie scarpe
per rifugiarsi dalle paranoie
del freddo, della pioggia, del suo essere,
sentirsi nuda, tranne sotto il tetto
provvisorio che io potevo offrirle!
Chè sembri allontanarmi dalla luce
anche se non sprofondo
nel solo vero inferno
del sottosuolo! Chè, più di mia madre,
mi ami, ed è un amore possessivo,
ma mi ami, m'ami, non mi uccideresti
lo faresti a te stessa e non vorresti!
Ombra, che ti riscopro
cane fedele a sera, quando scelgo
di cadere sul letto del mio sonno,
entrato il corpo delle mie pupille
sotto quelle lenzuola delle palpebre!
Ombra, ché sembri non dormire mai!
Ombra, me senza sensi!
Ombra la senza voce, senza sguardo,
la senza mano e piedi, senza naso,
Morte che in vita vive solo inerzia!
O forse Ombra caduta
in me, che chiedi l'approfondimento
e ti spalanchi in più buio colore,
emergi, usi il corpo come bara
per vivere sepolta, parassita!
Ombra, custodia di un non mai suonato
strumento della luce, unica nota,
fama che si bisbiglia immeritata
del me compositore che non sono,
un non talento che infine è pur dono,
composizione stanca trascinata
fin dagli inizi, già verso la fine,
e non coraggio dell'incompiutezza,
ché ci pensa la Morte per finirla.
Ombra, bara da cui fuoriuscirà
vivendo solo un giorno quella data.
Notte, ti penso, folle, quel totale
di tutte le ombre divenute eterne
di quelli morti che sono vissuti!