Se ancor non ho tutto l'amore tuo, cara, giammai tutto l'avrò; non posso esalare un altro sospiro per intenerirti, né posso implorare un'altra lacrima a che sgorghi; ormai tutto il tesoro che avevo per acquistarti - sospiri, lacrime, e voti e lettere - l'ho consumato. Eppure non può essermi dovuto più di quanto fu inteso alla stipulazione del contratto; se allora il tuo dono d'amore fu parziale, si che parte a me toccasse, parte ad altri, cara giammai tutta ti avrò
Ma se allora tu mi cedesti tutto, quel tutto non fu che il tutto di cui allora tu disponevi; ma se nel cuore tuo, in seguito, sia stato o sarà generato amor nuovo, ad opera di altri, che ancor possiedono intatte le lor sostanze, e possono di lacrime, di sospiri, di voti, di lettere, fare offerte maggiori, codesto amore nuovo può produrre nuove ansie, poiché codesto amore non fu da te impegnato. Eppur lo fu, dacché la tua donazione fu totale: il terreno, cioè il tuo cuore, è mio; quanto ivi cresca, cara, dovrebbe tutto spettare a me.
Tuttavia ancor non vorrei avere tutto; chi tutto ha non può aver altro, e dacché il mio amore ammette quotidianamente nuovo accrescimento, tu dovresti avere in serbo nuove ricompense; tu non puoi darmi ogni giorno il tuo cuore: se puoi darlo, vuol dire che non l'hai mai dato. il paradosso d'amore consiste nel fatto che, sebbene il tuo cuore si diparta, tuttavia rimane, e tu col perderlo lo conservi. Ma noi terremo un modo più liberale di quello di scambiar cuori: li uniremo; così saremo un solo essere, e il Tutto l'un dell'altro.
Ben poco ti preoccupi, povero fiore, che ho osservato per sei o sette giorni, e ho visto la tua nascita, e ho visto quanto ogni ora donava al tuo sviluppo, affinché tu crescessi fino a questa altezza, e ora che su questo ramo tu trionfi e ridi, ben poco ti preoccupi che gelerà fra breve, e che domani ti troverò caduto, o non ti troverò per nulla.
Ben poco ti preoccupi, povero cuore, che ancora fatichi a costruirti un nido, e pensi qui svolando di conquistarti un luogo su un albero vietato o che a te si rifiuta, e speri di piegare, in un lungo assedio, la sua rigidezza: ben poco ti preoccupi, che prima che si desti il sole, domani mattina, dovrai con questo sole e insieme a me metterti in viaggio.
Ma tu, che ami essere sottile a tormentarti, dirai: ahimè, se tu devi partire a me che importa? Qui son le mie faccende, qui voglio restare; tu vai da amici il cui affetto e i cui mezzi altro piacere arrecano agli occhi tuoi, agli orecchi, alla lingua, a ogni parte di te. Se quindi parte il tuo corpo, che bisogno hai di un cuore?
Bene, allora rimani: ma sappi, quando sarai rimasto, e fatto del tuo meglio: un cuore nudo e pesante, che non fa mostra di sè, per una donna non è che una specie di spettro; come potrà conoscere il mio cuore; o non avendo cuore in te riconoscerne uno? La pratica le può insegnare a conoscere altre parti, ma, parola mia, non a conoscere un cuore.
Vienimi incontro a Londra, allora, fra venti giorni, e mi potrai vedere più fresco e grasso, per la compagnia degli uomini, che se fossi rimasto insieme a te e a lei. Per amore di Dio, se ti è possibile, segui il mio esempio: laggiù ti vorrei dare a un altro amico, che si mostrerà felice di avere tanto il mio corpo quanto la mia anima.
In fondo alla china, fra gli alti cipressi, è un piccolo prato. Si stanno in quell'ombra tre vecchie giocando coi dadi. Non alzan la testa un istante, non cambian di posto un sol giorno. Sull'erba in ginocchio si stanno in quell'ombra giocando.
Boccaccio era il portiere, il gran portiere giallo della squadra del quartiere. Stava all’erta come un gallo
sulla porta del campetto alla periferia. Diceva: "Qua sul petto, ed ogni palla è mia".
Ma quel giorno, chi lo sa, sbuca di qua sbuca di là - Boccaccio attento! - pa pa la palla è in rete. "Ma va, ma va, Boccaccio, è uno".
Attento, di qua di là, passa non passa, tira. Boccaccio si rigira; si tuffa - passerà?- "Qui non passa nessuno", ma la palla è nel sacco.
E son due. Lo smacco, i fischi, e poi sotto... "Salta a pugno, Boccaccio, ma non la vedi dov’è, salta, salta"... E son tre.
E quattro e cinque e sei. - Boccaccio dove sei?- E sette e otto e nove e piove e piove e piove con grandine e con tuoni. Quattordici palloni nella rete di Boccaccio poveretto poveraccio, bianco come uno straccio col berretto da fantino ubriaco senza vino.
Quanti fischi! e poi "cretino", "pastafrolla", "posapiano", "tappabuchi", "moscardino!" Oh, quel povero Boccaccio nella furia del baccano si strappava i suoi capelli e la folla dai cancelli gli gridava: "Ancora, ancora".
Tutti tutti, ad uno ad uno si strappò capelli e baffi e poi schiaffi sopra schiaffi si ridette per lezione. Restò lì con la sua testa tonda, liscia come palla. "Oh, son quindici con questa - gli gridò dietro la folla - tappabuchi, pastafrolla vai a guardia d’un portone!"
E difatti il buon Boccaccio col berretto e col gallone, mani pronte e spazzolone, oggi è a guardia d’un portone dove passano persone che fermare egli non può, dieci venti cento e più.
Nel cuor della notte, ogni notte, la veglia incomincia a palazzo Oro Ror. In riva allo stagno s'innalza il palazzo, soltanto lo stagno lo guarda perenne e lo specchia.
Già lenta l'orchestra incomincia la danza, la notte è profonda.
Comincian le dame che giungon da lungi, discendon silenti dai cocchi dorati. Dei ricchi broccati ricopron le dame, ricopron le vesti cosparse di gemme i ricchi broccati.
Finestra non s'apre a palazzo Oro Ror, ma solo la porta, la sera, pel passo alle dame. In fila infinita si seguono i cocchi dorati, discendon le dame silenti ravvolte nei ricchi broccati. Lo stagno ne specchia l'entrata, e l'oro dei cocchi risplende nell'acqua estasiata.
L'orchestra soltanto si sente. Si perde il vaghissimo suono confuso fra muover di serici manti. La veglia ora è piena. Di fuori più nulla. Silenzio.
Un cocchio lucente ancora lontano risplende, s'appressa più ratto del vento e rapida scende la dama tardante. Se n'ode soltanto il leggero frusciare del serico manto.
Trieste Ho attraversata tutta la città. Poi ho salita un'erta, popolosa in principio, in là deserta, chiusa da un muricciolo: un cantuccio in cui solo siedo; e mi pare che dove esso termina termini la città.
Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore; come un amore con gelosia. Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via scopro, se mena all'ingombrata spiaggia, o alla collina cui, sulla sassosa cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa.
Intorno circola ad ogni cosa un'aria strana, un'aria tormentosa, l'aria natia. La mia città che in ogni parte è viva, ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita pensosa e schiva....
Spesso, per ritornare alla mia casa prendo un'oscura via di città vecchia. Giallo in qualche pozzanghera si specchia qualche fanale, e affollata è la strada.
Qui tra la gente che viene che va dall'osteria alla casa o al lupanare, dove son merci ed uomini il detrito di un gran porto di mare, io ritrovo, passando, l'infinito nell'umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio che bestemmia, la femmina che bega, il dragone che siede alla bottega del friggitore, la tumultuante giovane impazzita d'amore, sono tutte creature della vita e del dolore; s'agita in esse, come in me, il Signore.
Qui degli umili sento in compagnia il mio pensiero farsi più puro dove più turpe è la via..