Poesie inserite da Cheope

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Scritta da: Cheope

Squadra paesana

Anch'io tra i molti vi saluto, rosso-
alabardati,
sputati
dalla terra natia, da tutto un popolo
amati.
Trepido seguo il vostro gioco.
Ignari
esprimete con quello antiche cose
meravigliose
sopra il verde tappeto, all'aria, ai chiari
soli d'inverno.

Le angosce
che imbiancano i capelli all'improvviso,
sono da voi così lontane! La gloria
vi dà un sorriso
fugace: il meglio onde disponga. Abbracci
corrono tra di voi, gesti giulivi.

Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V'ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente - ugualmente commosso.
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    Scritta da: Cheope

    Il torrente

    Tu così avventuroso nel mio mito,
    così povero sei fra le tue sponde.
    Non hai, ch'io veda, margine fiorito.
    Dove ristagni scopri cose immonde.

    Pur, se ti guardo, il cor d'ansia mi stringi,
    o torrentello.
    Tutto il tuo corso è quello
    del mio pensiero, che tu risospingi
    alle origini, a tutto il fronte e il bello
    che in te ammiravo; e se ripenso i grossi
    fiumi, l'incontro con l'avverso mare,
    quest'acqua onde tu appena i piedi arrossi
    nudi a una lavandaia,
    la più pericolosa e la più gaia,
    con isole e cascate, ancor m'appare;
    e il poggio da cui scendi è una montagna.

    Sulla tua sponda lastricata l'erba
    cresceva, e cresce nel ricordo sempre;
    sempre è d'intorno a te sabato sera;
    sempre ad un bimbo la sua madre austera
    rammenta che quest'acqua è fuggitiva,
    che non ritrova più la sua sorgente,
    né la sua riva; sempre l'ancor bella
    donna si attrista, e cerca la sua mano
    il fanciulletto, che ascoltò uno strano
    confronto tra la vita nostra e quella
    della corrente.
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      Scritta da: Cheope

      Tre momenti


       
      Di corsa usciti a mezzo il campo, date
      prima il saluto alle tribune. Poi,
      quello che nasce poi,
      che all'altra parte rivolgete, a quella
      che più nera si accalca, non è cosa
      da dirsi, non è cosa ch'abbia un nome.

      Il portiere su e giù cammina come
      sentinella. Il pericolo
      lontano è ancora.
      Ma se in un nembo s'avvicina, oh allora
      una giovane fiera si accovaccia
      e all'erta spia.

      Festa è nell'aria, festa in ogni via.
      Se per poco, che importa?
      Nessun'offesa varcava la porta,
      s'incrociavano grida ch'eran razzi.
      La vostra gloria, undici ragazzi,
      come un fiume d'amore orna Trieste.
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        Scritta da: Cheope

        L'ora nostra

        Sai un'ora del giorno che più bella
        sia della sera? Tanto
        più bella e meno amata? È quella
        che di poco i suoi sacri ozi precede;
        l'ora che intensa è l'opera, e si vede
        la gente mareggiare nelle strade;
        sulle mole quadrate delle case
        una luna sfumata, una che appena
        discerni nell'aria serena.

        È l'ora che lasciavi la campagna
        per goderti la tua cara città,
        dal golfo luminoso alla montagna
        varia d'aspetti in sua bella unità;
        l'ora che la mia vita in piena va
        come un fiume al suo mare;
        e il mio pensiero, il lesto camminare
        della folla, gli artieri in cima all'alta
        scala, il fanciullo che correndo salta
        sul carro fragoroso, tutto appare
        fermo nell'atto, tutto questo andare
        ha una parvenza d'immobilità.

        È l'ora grande, l'ora che accompagna
        meglio la nostra vendemmiante età.
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          Scritta da: Cheope

          Il Borgo

          Fu nelle vie di questo
          Borgo che nuova cosa
          m'avvenne.

          Fu come un vano
          sospiro
          il desiderio improvviso d'uscire
          di me stesso, di vivere la vita
          di tutti,
          d'essere come tutti
          gli uomini di tutti
          i giorni.

          Non ebbi io mai sì grande
          gioia, né averla dalla vita spero.
          Vent'anni avevo quella volta, ed ero
          malato. Per le nuove
          strade del Borgo il desiderio vano
          come un sospiro
          mi fece suo.

          Dove nel dolce tempo
          d'infanzia
          poche vedevo sperse
          arrampicate casette sul nudo
          della collina,
          sorgeva un Borgo fervente d'umano
          lavoro. In lui la prima
          volta soffersi il desiderio dolce
          e vano
          d'immettere la mia dentro la calda
          vita di tutti,
          d'essere come tutti
          gli uomini di tutti
          i giorni.

          La fede avere
          di tutti, dire
          parole, fare
          cose che poi ciascuno intende, e sono,
          come il vino ed il pane,
          come i bimbi e le donne,
          valori
          di tutti. Ma un cantuccio,
          ahimé, lasciavo al desiderio, azzurro
          spiraglio,
          per contemplarmi da quello, godere
          l'alta gioia ottenuta
          di non esser più io,
          d'essere questo soltanto: fra gli uomini
          un uomo.

          Nato d'oscure
          vicende,
          poco fu il desiderio, appena un breve
          sospiro. Lo ritrovo
          - eco perduta
          di giovinezza - per le vie del Borgo
          mutate
          più che mutato non sia io. Sui muri
          dell'alte case,
          sugli uomini e i lavori, su ogni cosa,
          è sceso il velo che avvolge le cose
          finite.

          La chiesa è ancora
          gialla, se il prato
          che la circonda è meno verde. Il mare,
          che scorgo al basso, ha un solo bastimento,
          enorme,
          che, fermo, piega da un parte. Forme,
          colori,
          vita onde nacque il mio sospiro dolce
          e vile, un mondo
          finito. Forme,
          colori,
          altri ho creati, rimanendo io stesso,
          solo con il mio duro
          patire. E morte
          m'aspetta.

          Ritorneranno,
          o a questo
          Borgo, o sia a un altro come questo, i giorni
          del fiore. Un altro
          rivivrà la mia vita,
          che in un travaglio estremo
          di giovinezza, avrà per egli chiesto,
          sperato,
          d'immettere la sua dentro la vita
          di tutti,
          d'essere come tutti
          gli appariranno gli uomini di un giorno
          d'allora.
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            Scritta da: Cheope

            A mia moglie

            Tu sei come una giovane
            una bianca pollastra.
            Le si arruffano al vento
            le piume, il collo china
            per bere, e in terra raspa;
            ma, nell'andare, ha il lento
            tuo passo di regina,
            ed incede sull'erba
            pettoruta e superba.
            È migliore del maschio.
            È come sono tutte
            le femmine di tutti
            i sereni animali
            che avvicinano a Dio,
            Così, se l'occhio, se il giudizio mio
            non m'inganna, fra queste hai le tue uguali,
            e in nessun'altra donna.
            Quando la sera assonna
            le gallinelle,
            mettono voci che ricordan quelle,
            dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
            ti quereli, e non sai
            che la tua voce ha la soave e triste
            musica dei pollai.

            Tu sei come una gravida
            giovenca;
            libera ancora e senza
            gravezza, anzi festosa;
            che, se la lisci, il collo
            volge, ove tinge un rosa
            tenero la tua carne.
            Se l'incontri e muggire
            l'odi, tanto è quel suono
            lamentoso, che l'erba
            strappi, per farle un dono.
            È così che il mio dono
            t'offro quando sei triste.

            Tu sei come una lunga
            cagna, che sempre tanta
            dolcezza ha negli occhi,
            e ferocia nel cuore.
            Ai tuoi piedi una santa
            sembra, che d'un fervore
            indomabile arda,
            e così ti riguarda
            come il suo Dio e Signore.
            Quando in casa o per via
            segue, a chi solo tenti
            avvicinarsi, i denti
            candidissimi scopre.
            Ed il suo amore soffre
            di gelosia.

            Tu sei come la pavida
            coniglia. Entro l'angusta
            gabbia ritta al vederti
            s'alza,
            e verso te gli orecchi
            alti protende e fermi;
            che la crusca e i radicchi
            tu le porti, di cui
            priva in sé si rannicchia,
            cerca gli angoli bui.
            Chi potrebbe quel cibo
            ritoglierle? Chi il pelo
            che si strappa di dosso,
            per aggiungerlo al nido
            dove poi partorire?
            Chi mai farti soffrire?

            Tu sei come la rondine
            che torna in primavera.
            Ma in autunno riparte;
            e tu non hai quest'arte.

            Tu questo hai della rondine:
            le movenze leggere:
            questo che a me, che mi sentiva ed era
            vecchio, annunciavi un'altra primavera.

            Tu sei come la provvida
            formica. Di lei, quando
            escono alla campagna,
            parla al bimbo la nonna
            che l'accompagna.

            E così nella pecchia
            ti ritrovo, ed in tutte
            le femmine di tutti
            i sereni animali
            che avvicinano a Dio;
            e in nessun'altra donna.
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              Scritta da: Cheope

              Fanciulle

              Maria ti guarda con gli occhi un poco
              come Venere loschi.
              Cielo par che s'infoschi
              quello sguardo, il suo accento è quasi roco.

              Non è bella, né in donna ha quei gentili
              atti, cari agli umani;
              belle ha solo le mani,
              mani da baci, mani signorili.

              Dove veste, sue vesti son richiami
              per il maschio, un'asprezza
              strana di tinte. È mezza
              bambina e mezza bestia. Eppure l'ami.

              Sai ch'è ladra e bugiarda, una nemica
              dei tuoi intimi pregi;
              ma quanto più la spregi
              più la vorresti alle tue voglie amica.
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                Scritta da: Cheope

                La Malinconia

                Malinconia
                la vita mia
                struggi terribilmente;
                e non v'è al mondo, non c'è al mondo niente
                che mi divaghi.

                Niente, o una sola
                casa. Figliola,
                quella per me saresti.
                S'apre una porta; in tue succinte vesti
                entri, e mi smaghi.

                Piccola tanto,
                fugace incanto
                di primavera. I biondi
                riccioli molti nel berretto ascondi,
                altri ne ostenti.

                Ma giovinezza,
                torbida ebbrezza,
                passa, passa l'amore.
                Restan sì tristi nel dolente cuore,
                presentimenti.

                Malinconia,
                la vita mia
                amò lieta una cosa,
                sempre: la Morte. Or quasi è dolorosa,
                ch'altro non spero.

                Quando non s'ama
                più, non si chiama
                lei la liberatrice;
                e nel dolore non fa più felice
                il suo pensiero.

                Io non sapevo
                questo; ora bevo
                l'ultimo sorso amaro
                dell'esperienza. Oh quanto è mai più caro
                il pensier della morte,

                al giovanetto,
                che a un primo affetto
                cangia colore e trema.
                Non ama il vecchio la tomba: suprema
                crudeltà della sorte.
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                  Scritta da: Cheope

                  Ancora sulla strada di Zenna

                  Perché quelle piante turbate m'inteneriscono?
                  Forse perché ridicono che il verde si rinnova
                  a ogni primavera, ma non rifiorisce la gioia?
                  Ma non è questa volta un mio lamento
                  e non è primavera, è un'estate,
                  l'estate dei miei anni.
                  Sotto i miei occhi portata dalla corsa
                  la costa va formandosi immutata
                  da sempre e non la muta il mio rumore
                  né, più fondo, quel repentino vento che la turba
                  e alla prossima svolta, forse finirà.
                  E io potrò per ciò che muta disperarmi
                  portare attorno il capo bruciante di dolore.
                  Ma l'opaca trafila delle cose
                  che là dietro indovino: la carrucola nel pozzo,
                  la spola della teleferica nei boschi,
                  i minimi atti, i poveri
                  strumenti umani avvinti alla catena
                  della necessità, la lenza
                  buttata a vuoto nei secoli,
                  le scarse vite, che all'occhio di chi torna
                  e trova che nulla nulla è veramente mutato
                  si ripetono identiche,
                  quelle agitate braccia che presto ricadranno,
                  quelle inutilmente fresche mani
                  che si tendono a me e il privilegio
                  del moto mi rinfacciano.
                  Dunque pietà per le turbate piante
                  evocate per poco nella spirale del vento
                  che presto da me arretreranno via via
                  salutando salutando.
                  Ed ecco già mutato il mio rumore
                  s'impunta un attimo e poi si sfrena
                  fuori da sonni enormi
                  e un altro paesaggio gira e passa.
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                    Scritta da: Cheope

                    Spesso per viottoli tortuosi

                    Spesso per viottoli tortuosi
                    quelque part en Algerie
                    del luogo incerto
                    che il vento morde,
                    la tua pioggia il tuo sole
                    tutti in un punto
                    tra sterpi amari del più amaro filo
                    di ferro, spina senza rosa
                    ma già un anno è passato,
                    è appena un sogno:
                    siamo tutti sommessi a ricordarlo.

                    Ride una larva chiara
                    dov'era la sentinella
                    e la collina
                    dei nostri spiriti assenti
                    deserta e immemorabile si vela.
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