Poesie inserite da Cheope

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Scritta da: Cheope

Settembre

Già l'olea fragrante nei giardini
d'amarezza ci punge: il lago un poco
si ritira da noi, scopre una spiaggia
d'aride cose,
di remi infranti, di reti strappate.
E il vento che illumina le vigne
già volge ai giorni fermi queste plaghe
da una dubbiosa brulicante estate.

Nella morte già certa
cammineremo con più coraggio,
andremo a lento guado coi cani
nell'onda che rotola minuta.
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    Scritta da: Cheope

    Pianto della notte

    Tacciono i boschi e i fiumi,
    e'l mar senza onda giace,
    ne le spelonche i venti han tregua e pace,
    e ne la notte bruna
    alto silenzio fa la bianca luna;
    e noi tegnamo ascose
    le dolcezze morose.
    Amor non parli o spiri,
    sien muti i baci e muti i miei sospiri.
    Qual rugiada o qual pianto,
    quai lagrime eran quelle
    che sparger vidi dal notturno manto
    e dal candido volto de le stelle?
    E perché seminò la bianca luna
    di cristalline stelle un puro nembo
    a l'erba fresca in grembo?
    Perché ne l'aria bruna
    s'udian, quasi dolendo, intorno intorno
    gir l'aure insino al giorno?
    Fur segni forse de la tua partita,
    vita de la mia vita?
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      Scritta da: Cheope
      Parola che l'amor da la rotonda
      bocca mi versa come unguenti e odori;
      Parola che da l'odio irrompi fuori
      fischiando come sasso da la fionda;

      sola virtù che da la carne immonda
      alzi gli spinti e inebri di fulgori;
      o seme indistruttibile né cuori,
      Parola, o cosa mistica e profonda;

      ben io so la tua specie e il tuo mistero
      e la forza terribile che dentro
      porti e la pia soavità che spandi;

      ma fossi tu per me fiume tra i grandi
      fiumi più grande, e limpido nel centro
      de la Vita recassi il mio pensiero!
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        Scritta da: Cheope

        I poeti

        Il sogno d'un passato lontano, d'una ignota
        stirpe, d'una remota
        favola nei Poeti luce. Ai Poeti oscuro
        è il sogno del futuro.
        Qual contro l'aure avverse una chioma divina,
        una fiamma divina,
        tal ne la vita splende
        l'Anima, si distende,
        in dietro effusa pende.

        Ospiti fummo (O tu che m'ami: ti sovviene?
        Era ne le tue vene
        il Ritmo), ospiti fummo in imperi di gloria.
        Nativa è la memoria
        in noi, dei fiori ardenti su dai cavi alabastri
        come tangibili astri,
        dei misteri veduti,
        degli amori goduti,
        degli aromi bevuti.

        In qual sera purpurea chiudemmo gli occhi? Quale
        fu ne l'ora mortale
        il nostro Dio? Da quale portentosa ferita
        esalammo la vita?
        Forse dopo una strage di eroi? Sotto il profondo
        ciel d'un letto profondo?
        Le nostre spoglie fiera
        custodì la Chimera
        ne la purpurea sera.

        E al risveglio improvviso dal sonno secolare
        noi vedemmo raggiare
        un altro cielo; udimmo altre voci, altri canti;
        udimmo tutti i pianti
        umani, tutti i pianti umani che la Terra
        nel suo cerchio rinserra.
        Udimmo tutti i vani
        gemiti e gli urli insani
        e le bestemmie immani.

        Udimmo taciturni la querela confusa.
        Ma ne l'anima chiusa
        l'antichissimo sogno, che fluttuava ancòra,
        ebbe una nuova aurora.
        E vivemmo; e ingannammo la vita ricordando
        quella morte, cantando
        dei misteri veduti,
        degli amori goduti,
        degli aromi bevuti.

        Or conviene il silenzio: alto silenzio. Oscuro
        è il sogno del futuro.
        Nuova morte ci attende. Ma in qual giorno supremo,
        o Fato, rivivremo?
        Quando i Poeti al mondo canteranno su corde
        d'oro l'inno concorde:
        - O voi che il sangue opprime,
        Uomini, su le cime
        splende l'Alba sublime!
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          Scritta da: Cheope

          Aprile

          Socchiusa è la finestra, sul giardino.
          Un'ora passa lenta, sonnolenta.
          Ed ella, ch'era attenta, s'addormenta
          a quella voce che già si lamenta,
          - che si lamenta in fondo a quel giardino.

          Non è che voce d'acque su la pietra:
          e quante volte, quante volte udita!
          Quell'amore e quell'ora in quella vita
          s'affondan come ne l'onda infinita
          stretti insieme il cadavere e la pietra.

          Ella stende l'angoscia sua nel sonno.
          L'angoscia è forte, e il sonno è così lieve!
          (Par la luce d'april quasi una neve
          che sia tiepida. ) Ed ella certo deve
          soffrire, vagamente, anche nel sonno.

          Tutto nel sonno si rivela il male
          che la corrompe. Il volto impallidisce
          lentamente: la bocca s'appassisce
          nel suo respiro; su le guance lisce
          s'incava un'ombra... O rose, è il vostro male:

          rose del sole nuovo, pur di ieri,
          ch'ella recise ad una ad una (e intanto
          ella era affaticata un poco, e intanto
          l'acque avean su la stessa pietra il pianto
          d'oggi), oggi quasi sfatte, e pur di ieri!

          Ella non è più giovine. I suoi tardi
          fiori effuse nel primo ultimo amore.
          Fu di voluttà ebra e di dolore.
          Un grido era nel suo segreto cuore,
          assiduo: - Troppo tardi! Troppo tardi! -

          Ella non è più giovine. Son quasi
          bianchi i capelli su la tempia; sono
          su la fronte un po' radi. L'abbandono
          (ella è supina e immota), l'abbandono
          fa sembrar morte le sue mani, quasi.

          Né pure il gesto fa scendere mai
          sangue all'estrenútà de le sue dita!
          La tragga il sogno lungi da la vita.
          Veda nel sogno almen ringiovanita
          l'Amato ch'ella non vedrà piu mai.

          Socchiusa è la finestra, sul giardino.
          Un'ora passa lenta, sonnolenta.
          Non altro s'ode, ne la luce spenta,
          che quella voce che giù si lamenta,
          - che si lamenta in fondo a quel giardino.
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            Scritta da: Cheope

            Autunno

            Autunno, che negli occhi suoi specchiasti
            e nel mar taciturno il tuo fulvo oro
            - tutte le acque un immobile tesoro
            parvero, e gli occhi più del mare vasti -,

            Autunno, io non sentii mai così forte
            la tristezza che tu solo diffondi
            - quante di me né tuoi boschi profondi
            son cose morte tra le foglie morte!

            Come ieri. Fu ieri la suprema
            tristezza e fu l'amor supremo. Ah mai,
            ne l'ore più segrete, mai l'amai
            come ieri. Ancor l'anima ne trema.

            Ella taceva, chiusa ne la nera
            tunica dove sparsi erano fiori
            pallidi, Autunno, come i tuoi che indori
            sul vano stelo; e, china a la ringhiera,

            guardava il golfo solitario, china
            come colei che un peso immane aggrava.
            - Ombra de la sua fronte! - O non guardava
            forse dentro di sé la sua ruina?

            Forse. Non domandai. Ma così piena-
            mente a lei rispondean tutte le cose
            visibili, apparenze dolorose
            d'anime involte ne la stessa pena,

            che io credetti vedere il suo dolore
            in quelle forme, vivere in un mondo
            espresso intero dal suo cuor profondo,
            irradiato da quel solo cuore;

            e fu per me ciascuna forma un segno
            che svelava un mistero: quasi un muto
            verbo; e più nulla fu disconosciuto,
            anche per me, ne l'infinito regno.
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              Scritta da: Cheope

              I Pastori

              Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
              Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori
              lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
              scendono all'Adriatico selvaggio
              che verde è come i pascoli dei monti.

              Han bevuto profondamente ai fonti
              alpestri, che sapor d'acqua natia
              rimanga né cuori esuli a conforto,
              che lungo illuda la lor sete in via.
              Rinnovato hanno verga d'avellano.

              E vanno pel tratturo antico al piano,
              quasi per un erbal fiume silente,
              su le vestigia degli antichi padri.
              O voce di colui che primamente
              conosce il tremolar della marina!

              Ora lungh'esso il litoral cammina
              La greggia. Senza mutamento è l'aria.
              Il sole imbionda sì la viva lana
              che quasi dalla sabbia non divaria.
              Isciacquio, calpestio, dolci romori.

              Ah perché non son io cò miei pastori?
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                Scritta da: Cheope

                L'amico che dorme

                Che diremo stanotte all'amico che dorme?
                La parola più tenue ci sale alle labbra
                dalla pena più atroce. Guarderemo l'amico,
                le sue inutili labbra che non dicono nulla,
                parleremo sommesso.
                La notte avrà il volto
                dell'antico dolore che riemerge ogni sera
                impassibile e vivo. Il remoto silenzio
                soffrirà come un'anima, muto, nel buio.
                Parleremo alla notte che fiata sommessa.

                Udiremo gli istanti stillare nel buio
                al di là delle cose, nell'ansia dell'alba,
                che verrà d'improvviso incidendo le cose
                contro il morto silenzio. L'inutile luce
                svelerà il volto assorto del giorno. Gli istanti
                taceranno. E le cose parleranno sommesso.
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