Non importa che non ti abbia, non importa che non ti veda. Prima ti abbracciavo, prima ti guardavo, ti cercavo tutta, ti desideravo intera. Oggi non chiedo più né alle mani, né agli occhi, le ultime prove. Di starmi accanto ti chiedevo prima, sì, vicino a me, sì, sì, però lì fuori. E mi accontentavo di sentire che le tue mani mi davano le tue mani, che ai miei occhi assicuravano presenza. Quello che ti chiedo adesso è di più, molto di più, che bacio o sguardo: è che tu stia più vicina a me, dentro. Come il vento è invisibile, pur dando la sua vita alla candela. Come la luce è quieta, fissa, immobile, fungendo da centro che non vacilla mai al tremulo corpo di fiamma che trema. Come è la stella, presente e sicura, senza voce e senza tatto, nel cuore aperto, sereno, del lago. Quello che ti chiedo è solo che tu sia anima della mia anima, sangue del mio sangue dentro le vene. Che tu stia in me come il cuore mio che mai vedrò, toccherò e i cui battiti non si stancano mai di darmi la mia vita fino a quando morirò. Come lo scheletro, il segreto profondo del mio essere, che solo mi vedrà la terra, però che in vita è quello che si incarica di sostenere il mio peso, di carne e di sogno, di gioia e di dolore misteriosamente senza che ci siano occhi che mai lo vedano. Quello che ti chiedo è che la corporea passeggera assenza, non sia per noi dimenticanza, né fuga, né mancanza: ma che sia per me possessione totale dell'anima lontana, eterna presenza.
Da anni più nessuno si è occupato del giardino. Eppure quest'anno – maggio, giugno – è rifiorito da solo, è divampato tutto fino all'inferriata – mille rose, mille garofani, mille gerani, mille piselli odorosi – viola, arancione, verde, rosso e giallo, colori... tanto che la donna uscì di nuovo a dare l'acqua col suo vecchio annaffiatoio di nuovo bella, serena, con una convinzione indefinibile. E il giardino la nascose fino alle spalle, l'abbracciò, la conquistò tutta; la sollevò tra le sue braccia. E allora, a mezzogiorno in punto, vedemmo il giardino e la donna con l'annaffiatoio ascendere al cielo e mentre guardavamo in alto, alcune gocce dell'annaffiatoio ci caddero dolcemente sulle guance, sul mento, sulle labbra.
Quando ti bacio non è solo la tua bocca non è solo il tuo ombellico ... non è solo il tuo grembo che bacio Io bacio anche le tue domande e i tuoi desideri bacio il tuo riflettere i tuoi dubbi e il tuo coraggio.
Il tuo amore per me e la tua libertà da me il tuo piede che è giunto qui e che di nuovo se ne va io bacio te così come sei e come sarai domani e oltre e quando il mio tempo sarà trascorso.
Qualcuno che la sa lunga mi spieghi questo mistero: il cielo è di tutti gli occhi di ogni occhio è il cielo intero. È mio, quando lo guardo. È del vecchio, del bambino, del re, dell'ortolano, del poeta, dello spazzino. Non c'è povero tanto povero che non ne sia il padrone. Il coniglio spaurito ne ha quanto il leone. Il cielo è di tutti gli occhi, ed ogni occhio, se vuole, si prende la luna intera, le stelle comete, il sole. Ogni occhio si prende ogni cosa e non manca mai niente: chi guarda il cielo per ultimo non lo trova meno splendente. Spiegatemi voi dunque, in prosa od in versetti, perché il cielo è uno solo e la terra è tutta a pezzetti.
In me c'è qualcosa di rotto. Sono come l'orologio che si ferma poco dopo averlo caricato, come il piatto incrinato che non torna nuovo se anche lo incolli con cura. In me c'è qualcosa di schiacciato. Sono come il tubetto di dentifricio quando nulla ne esce se anche lo premi, come la pallina da ping-pong ammaccata che non può tenere più in gioco nemmeno un buon giocatore. Ci sono oggetti distrutti e schiacciati dal principio, senza motivo, in me: l'ombrello che non sta aperto, il violino fuori uso e i sandali coi cinturini rotti, il rubinetto intasato, il flauto sfiatato, la lampada consumata. Eppure non mi perdo di morale, l'ira non mi trascina, né mi tormento come una volta, anzi mi auguro di potermi riempire di quelle cose inutili, restando distrutto e schiacciato, in questo trovando il mio orgoglio.
La Luna nello specchio del comò guarda milioni di miglia lontano (e forse con orgoglio, a se stessa, ma non sorride, non sorride mai) via lontano lontano oltre il sonno, o forse è una che dorme di giorno. Se l'Universo volesse abbandonarla, lei gli direbbe di andare all'inferno, e troverebbe una distesa d'acqua o uno specchio, sul quale indugiare. Tu dunque metti gli affanni in un sacco di ragnatele e gettalo nel pozzo nel mondo alla rovescia dove la sinistra è sempre la destra, dove le ombre in realtà sono corpi, dove restiamo tutta la notte svegli, dove il cielo ha tanto poco spessore quanto è profondo il mare e tu mi ami d'amore.
Io ti amo quando piangi e amo il tuo viso annuvolato e triste. La tristezza ci unisce e ci divide senza che io sappia senza che tu sappia. Quelle lacrime che scorrono, io le amo e in loro amo l'autunno. Alcune donne hanno dei bei visi ma diventano più belli quando piangono.