Poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

MI alzo con le palpebre infuocate

MI alzo con le palpebre infuocate.
La fanciullezza smorta nella barba
cresciuta nel sonno, nella carne smagrita,
si fissa con la luce fusa nei miei occhi riarsi.
Finisco così nel buio incendio
di una giovinezza frastornata dall'eternità;
così mi brucio, è inutile
- pensando - essere altrimenti,
imporre limiti al disordine: mi trascina
sempre più frusto, con un viso secco
nella sua infanzia, verso un quieto e folle
ordine, il peso del mio giorno perso
in mute ore di gaiezza, in muti
istanti di terrore...
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Senza di te tornavo, come ebbro...

    Senza di te tornavo, come ebbro,
    non più capace d'esser solo, a sera
    quando le stanche nuvole dileguano
    nel buio incerto.
    Mille volte son stato così solo
    dacché son vivo, e mille uguali sere
    m'hanno oscurato agli occhi l'erba, i monti
    le campagne, le nuvole.
    Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio
    della fatale sera. Ed ora, ebbro,
    torno senza di te, e al mio fianco
    c'è solo l'ombra.

    E mi sarai lontano mille volte,
    e poi, per sempre. Io non so frenare
    quest'angoscia che monta dentro al seno;
    essere solo.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano

      Li osservo, questi uomini, educati
      ad altra vita che la mia: frutti
      d'una storia tanto diversa, e ritrovati,
      quasi fratelli, qui, nell'ultima forma
      storica di Roma. Li osservo: in tutti
      c'è come l'aria d'un buttero che dorma
      armato di coltello: nei loro succhi
      vitali, è disteso un tenebrore intenso,
      la papale itterizia del Belli,
      non porpora, ma spento peperino,
      bilioso cotto. La biancheria, sotto,
      fine e sporca; nell'occhio, l'ironia
      che trapela il suo umido, rosso,
      indecente bruciore. La sera li espone
      quasi in romitori, in riserve
      fatte di vicoli, muretti, androni
      e finestrelle perse nel silenzio.
      È certo la prima delle loro passioni
      il desiderio di ricchezza: sordido
      come le loro membra non lavate,
      nascosto, e insieme scoperto,
      privo di ogni pudore: come senza pudore
      è il rapace che svolazza pregustando
      chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
      essi bramano i soldi come zingari,
      mercenari, puttane: si lagnano
      se non ce n'hanno, usano lusinghe
      abbiette per ottenerli, si gloriano
      plautinamente se ne hanno le saccocce
      piene.
      Se lavorano - lavoro di mafiosi macellari,
      ferini lucidatori, invertiti commessi,
      tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
      manovali buoni come cani - avviene
      che abbiano ugualmente un'aria di ladri:
      troppa avita furberia in quelle vene...

      Sono usciti dal ventre delle loro madri
      a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
      preistorici, e iscritti in un'anagrafe
      che da ogni storia li vuole ignorati...
      Il loro desiderio di ricchezza
      è, così, banditesco, aristocratico.
      Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
      a vincere l'angosciosa scommessa,
      a dirsi: "È fatta, " con un ghigno di re...
      La nostra speranza è ugualmente ossessa:
      estetizzante, in me, in essi anarchica.
      Al raffinato e al sottoproletariato spetta
      la stessa ordinazione gerarchica
      dei sentimenti: entrambi fuori dalla storia,
      in un mondo che non ha altri varchi
      che verso il sesso e il cuore,
      altra profondità che nei sensi.
      In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Verso le Terme di Caracalla

        Vanno verso le Terme di Caracalla
        giovani amici, a cavalcioni
        di Rumi o Ducati, con maschile
        pudore e maschile impudicizia,
        nelle pieghe calde dei calzoni
        nascondendo indifferenti, o scoprendo,
        il segreto delle loro erezioni...
        Con la testa ondulata, il giovanile
        colore dei maglioni, essi fendono
        la notte, in un carosello
        sconclusionato, invadono la notte,
        splendidi padroni della notte...

        Va verso le Terme di Caracalla,
        eretto il busto, come sulle natie
        chine appenniniche, fra tratturi
        che sanno di bestia secolare e pie
        ceneri di berberi paesi - già impuro
        sotto il gaglioffo basco impolverato,
        e le mani in saccoccia - il pastore
        migrato
        undicenne, e ora qui, malandrino e
        giulivo
        nel romano riso, caldo ancora
        di salvia rossa, di fico e d'ulivo...

        Va verso le Terme di Caracalla,
        il vecchio padre di famiglia, disoccupato,
        che il feroce Frascati ha ridotto
        a una bestia cretina, a un beato,
        con nello chassì i ferrivecchi
        del suo corpo scassato, a pezzi,

        rantolanti: i panni, un sacco,
        che contiene una schiena un po' gobba,
        due cosce certo piene di croste,
        i calzonacci che gli svolazzano sotto
        le saccocce della giacca pese
        di lordi cartocci. La faccia
        ride: sotto le ganasce, gli ossi
        masticano parole, scrocchiando:
        parla da solo, poi si ferma,
        e arrotola il vecchio mozzicone,
        carcassa dove tutta la giovinezza,
        resta, in fiore, come un focaraccio
        dentro una còfana o un catino:
        non muore chi non è mai nato.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Il canto popolare

          Improvviso il mille novecento
          cinquanta due passa sull'Italia:
          solo il popolo ne ha un sentimento
          vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
          la modernità, benché sempre il più
          moderno sia esso, il popolo, spanto
          in borghi, in rioni, con gioventù
          sempre nuove - nuove al vecchio canto -
          a ripetere ingenuo quello che fu.

          Scotta il primo sole dolce dell'anno
          sopra i portici delle cittadine
          di provincia, sui paesi che sanno
          ancora di nevi, sulle appenniniche
          greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
          i nuovi colori delle tele, i nuovi
          vestiti come in limpidi roghi
          dicono quanto oggi si rinnovi
          il mondo, che diverse gioie sfoghi...

          Ah, noi che viviamo in una sola
          generazione ogni generazione
          vissuta qui, in queste terre ora
          umiliate, non abbiamo nozione
          vera di chi è partecipe alla storia
          solo per orale, magica esperienza;
          e vive puro, non oltre la memoria
          della generazione in cui presenza
          della vita è la sua vita perentoria.

          Nella vita che è vita perché assunta
          nella nostra ragione e costruita
          per il nostro passaggio - e ora giunta
          a essere altra, oltre il nostro accanito
          difenderla - aspetta - cantando supino,
          accampato nei nostri quartieri
          a lui sconosciuti, e pronto fino
          dalle più fresche e inanimate ère -
          il popolo: muta in lui l'uomo il destino.

          E se ci rivolgiamo a quel passato
          ch'è nostro privilegio, altre fiumane
          di popolo ecco cantare: recuperato
          è il nostro moto fin dalle cristiane
          origini, ma resta indietro, immobile,
          quel canto. Si ripete uguale.
          Nelle sere non più torce ma globi
          di luce, e la periferia non pare
          altra, non altri i ragazzi nuovi...

          Tra gli orti cupi, al pigro solicello
          Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
          d'Ivrea gridano, e pei valloncelli
          di Toscana, con strilli di rondinini:
          Hor atorno fratt Helya! La santa
          violenza sui rozzi cuori il clero
          calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
          feroce nel feudo provinciale l'Impero
          da Iddio imposto: e il popolo canta.

          Un grande concerto di scalpelli
          sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
          sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
          suona, giganteggiando il travertino
          nel nuovo spazio in cui s'affranca
          l'Uomo: e il manovale Dov'andastà
          jersera... ripete con l'anima spanta
          nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
          resta nel popolo. E il popolo canta.

          Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
          e trepidi nel vento napoleonico,
          all'Inno dell'Albero della Libertà,
          tremano i nuovi colori delle nazioni.
          Ma, cane affamato, difende il bracciante
          i suoi padroni, ne canta la ferocia,
          Guagliune 'e mala vita! In branchi
          feroci. La libertà non ha voce
          per il popolo cane. E il popolo canta.

          Ragazzo del popolo che canti,
          qui a Rebibbia sulla misera riva
          dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
          è vero, cantando, l'antica, la festiva
          leggerezza dei semplici. Ma quale
          dura certezza tu sollevi insieme
          d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
          tuguri e grattacieli, allegro seme
          in cuore al triste mondo popolare.

          Nella tua incoscienza è la coscienza
          che in te la storia vuole, questa storia
          il cui Uomo non ha più che la violenza
          delle memorie, non la libera memoria...
          E ormai, forse, altra scelta non ha
          che dare alla sua ansia di giustizia
          la forza della tua felicità,
          e alla luce di un tempo che inizia
          la luce di chi è ciò che non sa.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            L'addio

            Ti abbraccio perché non ti vedo
            che a tentoni, accecato
            dai tuoi stessi occhi in me conficcati
            per cui non so
            se sia mio o tuo questo piangere:
            amati giorni
            che non ci hanno ricambiato l'amore
            e sono
            una frattura indicibile: i denti
            stringono un grido, il pugno
            anche più forte stringe
            l'indimenticabile carezza che ti davo
            come una moneta scaduta
            ... per un amore così breve perché,
            mio Dio,
            questa notte eterna e il filo che traluce
            sulla remota ferrovia d'illuminati
            treni che ormai corrono nel nulla?
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Unicità

              In fondo è questo, lasciare scappare ciò che nutre
              il sangue, poterne fare a meno. Abituarsi al secco
              cuore. Dal mattino una distrazione il resto:
              andare, venire, umiliare le braccia e la sobrietà.
              Ogni tanto un passaggio, una stretta affondata
              che ha ragione nel fumo della sigaretta.
              Ecco il marchio. Ciò che siamo è invulnerabile.
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