Le migliori poesie di Giovanni Pascoli

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Scritta da: Silvana Stremiz

L'agrifoglio

Sul, limitare, tra la casa e 1'orto
dove son brulli gli alberi, te voglio,
che vi verdeggi dopo ch'io sia morto,
sempre, agrifoglio.

Lauro spinoso t'ha chiamato il volgo,
che sempre verde t'ammirò sul monte:
oh! Cola il sangue se un tuo ramo avvolgo
alla mia fronte!

Tu devi, o lauro, cingere l'esangue
fronte dei morti! E nella nebbia pigra
alle tue bacche del color di sangue,
venga chi migra,

tordo, frosone, zigolo muciatto,
presso la casa ove né suona il tardo
passo del vecchio. E vengavi d'appiatto
l'uomo lombardo,

e del tuo duro legno, alla sua guisa
foggi cucchiari e mestole; il cucchiare
con cui la mamma imbocca il bimbo, assisa
sul limitare.
Giovanni Pascoli
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Il sole e la lucerna

    In mezzo ad uno scampanare fioco
    sorse e batté su taciturne case
    il sole, e trasse d'ogni vetro il fuoco.
    C'era ad un vetro tuttavia, rossastro
    un lumicino. Ed ecco il sol lo invase,
    lo travolse in un gran folgorìo d'astro.
    E disse, il sole: - Atomo fumido! Io
    guardo, e tu fosti. - A lui l'umile fiamma:
    - Ma questa notte tu non c'eri, o dio;
    e un malatino vide la sua mamma
    alla mia luce, fin che tu sei sorto.
    Oh! grande sei, ma non ti vede: è morto! -
    E poi, guizzando appena:
    - Chiedeva te! Che tosse!
    Voleva te! Che pena!
    Tu ricordavi al cuore
    suo le farfalle rosse
    su le ginestre in fiore!
    Io stavo lì da parte...
    gli rammentavo sere
    lunghe di veglia e carte
    piene di righe nere!
    Stavo velata e trista,
    per fargli il ben non vista. -.
    Giovanni Pascoli
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      Scritta da: Roberta68

      10 agosto

      San Lorenzo, io lo so perché tanto
      di stelle per l'aria tranquilla
      arde e cade, perché sì gran pianto
      nel concavo cielo favilla.
      Ritornava una rondine al tetto:
      l'uccisero: cadde tra spini:
      ella aveva nel becco un insetto:
      la cena dei suoi rondinini.
      Ora è là, come in croce, che tende
      quel verme a quel cielo lontano;
      e il suo nido è nell'ombra, che attende
      che pigola sempre più piano.
      Anche un uomo tornava al suo nido:
      l'uccisero: disse: Perdono;
      e restò negli aperti occhi un grido:
      portava due bambole in dono...
      Ora là, nella casa romita,
      lo aspettano, aspettano in vano:
      egli immobile, attonito, addita
      le bambole al cielo lontano.
      E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
      sereni, infinito, immortale,
      oh! d'un pianto di stelle lo inondi
      quest'atomo opaco del Male!
      Giovanni Pascoli
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        La cavalla storna

        Nella Torre il silenzio era già alto.
        Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
        I cavalli normanni alle lor poste
        frangean la biada con rumor di croste.
        Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
        nata tra i pini su la salsa spiaggia;
        che nelle froge avea del mar gli spruzzi
        ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
        Con su la greppia un gomito, da essa
        era mia madre; e le dicea sommessa:
        "O cavallina, cavallina storna,
        che portavi colui che non ritorna;
        tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
        Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
        il primo d'otto tra miei figli e figlie;
        e la sua mano non toccò mai briglie.
        Tu che ti senti ai fianchi l'uragano,
        tu dai retta alla sua piccola mano.
        Tu ch'hai nel cuore la marina brulla,
        tu dai retta alla sua voce fanciulla".
        La cavalla volgea la scarna testa
        verso mia madre, che dicea più mesta:
        "O cavallina, cavallina storna,
        che portavi colui che non ritorna;
        lo so, lo so, che tu l'amavi forte!
        Con lui c'eri tu sola e la sua morte.
        O nata in selve tra l'ondate e il vento,
        tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
        sentendo lasso nella bocca il morso,
        nel cuor veloce tu premesti il corso:
        adagio seguitasti la tua via,
        perché facesse in pace l'agonia... "
        La scarna lunga testa era daccanto
        al dolce viso di mia madre in pianto.
        "O cavallina, cavallina storna,
        che portavi colui che non ritorna;
        oh! Due parole egli dové pur dire!
        E tu capisci, ma non sai ridire.
        Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
        con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
        con negli orecchi l'eco degli scoppi,
        seguitasti la via tra gli alti pioppi:
        lo riportavi tra il morir del sole,
        perché udissimo noi le sue parole".
        Stava attenta la lunga testa fiera.
        Mia madre l'abbracciò su la criniera
        "O cavallina, cavallina storna,
        portavi a casa sua chi non ritorna!
        A me, chi non ritornerà più mai!
        Tu fosti buona... Ma parlar non sai!
        Tu non sai, poverina; altri non osa.
        Oh! ma tu devi dirmi una cosa!
        Tu l'hai veduto l'uomo che l'uccise:
        esso t'è qui nelle pupille fise.
        Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
        E tu fa cenno. Dio t'insegni, come".
        Ora, i cavalli non frangean la biada:
        dormian sognando il bianco della strada.
        La paglia non battean con l'unghie vuote:
        dormian sognando il rullo delle ruote.
        Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
        disse un nome... Sonò alto un nitrito.
        Giovanni Pascoli
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Il Cavallino

          O bel clivo fiorito Cavallino
          ch'io varcai cò leggiadri eguali a schiera
          al mio bel tempo; chi sa dir se l'era
          d'olmo la tua parlante ombra o di pino?
          Era busso ricciuto o biancospino,
          da cui dorata trasparia la sera?
          C'è un campanile tra una selva nera,
          che canta, bianco, l'inno mattutino?
          Non so: ché quando a te s'appressa il vano
          desìo, per entro il cielo fuggitivo
          te vedo incerta vision fluire.
          So ch'or sembri il paese allor lontano
          lontano, che dal tuo fiorito clivo
          io rimirai nel limpido avvenire.
          Giovanni Pascoli
          dal libro "Myricae" di Giovanni Pascoli
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Il poeta solitario

            O dolce usignolo che ascolto
            (non sai dove), in questa gran pace
            cantare cantare tra il folto,
            là, dei sanguini e delle acace;
            t'ho presa - perdona, usignolo -
            una dolce nota, sol una,
            ch'io canto tra me, solo solo,
            nella sera, al lume di luna.
            E pare una tremula bolla
            tra l'odore acuto del fieno,
            un molle gorgoglio di polla,
            un lontano fischio di treno...
            Chi passa, al morire del giorno,
            ch'ode un fischio lungo laggiù
            riprende nel cuore il ritorno
            verso quello che non è più.
            Si trova al nativo villaggio,
            vi ritrova quello che c'era:
            l'odore di mesi-di-maggio
            buon odor di rose e di cera.
            Ne ronzano le litanie,
            come l'api intorno una culla:
            ci sono due voci sì pie!
            Di sua madre e d'una fanciulla.
            Poi fatto silenzio, pian piano,
            nella nota mia, che t'ho presa,
            risente squillare il lontano
            campanello della sua chiesa.
            Riprende l'antica preghiera,
            ch'ora ora non ha perché;
            si trova con quello che c'era,
            ch'ora ora ora non c'è...
            Chi sono? Non chiederlo. Io piango,
            ma di notte, perch'ho vergogna.
            O alato, io qui vivo nel fango.
            Sono un gramo rospo che sogna.
            Giovanni Pascoli
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Allora

              Allora... in un tempo assai lunge
              felice fui molto; non ora:
              ma quanta dolcezza mi giunge
              da tanta dolcezza d'allora!
              Quell'anno! Per anni che poi
              fuggirono, che fuggiranno,
              non puoi, mio pensiero, non puoi,
              portare con te, che quell'anno!
              Un giorno fu quello, ch'è senza
              compagno, ch'è senza ritorno;
              la vita fu vana parvenza
              sì prima sì dopo quel giorno!
              Un punto!... così passeggero,
              che in vero passò non raggiunto,
              ma bello così, che molto ero
              felice, felice, quel punto!
              Giovanni Pascoli
              dal libro "Myricae" di Giovanni Pascoli
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                La fonte di Castelvecchio

                O voi che, mentre i culmini Apuani
                il sole cinge d'un vapor vermiglio,
                e fa di contro splendere i lontani
                vetri di Tiglio;
                venite a questa fonte nuova, sulle
                teste la brocca, netta come specchio,
                equilibrando tremula, fanciulle
                di Castelvecchio;
                e nella strada che già s'ombra, il busso
                picchia dè duri zoccoli, e la gonna
                stiocca passando, e suona eterno il flusso
                della Corsonna:
                fanciulle, io sono l'acqua della Borra,
                dove brusivo con un lieve rombo
                sotto i castagni; ora convien che corra
                chiusa nel piombo.
                A voi, prigione dalle verdi alture,
                pura di vena, vergine di fango,
                scendo; a voi sgorgo facile: ma, pure
                vergini, piango:
                non come piange nel salir grondando
                l'acqua tra l'aspro cigolìo del pozzo:
                io solo mando tra il gorgoglio blando
                qualche singhiozzo.
                Oh! la mia vita di solinga polla
                nel taciturno colle delle capre!
                Udir soltanto foglia che si crolla,
                cardo che s'apre,
                vespa che ronza, e queruli richiami
                del forasiepe! Il mio cantar sommesso
                era tra i poggi ornati di ciclami
                sempre lo stesso;
                sempre sì dolce! E nelle estive notti,
                più, se l'eterno mio lamento solo
                s'accompagnava ai gemiti interrotti
                dell'assiuolo,
                più dolce, più! Ma date a me, ragazze
                di Castelvecchio, date a me le nuove
                del mondo bello: che si fa? Le guazze
                cadono, o piove?
                E per le selve ancora si tracoglie,
                o fate appietto? Ed il metato fuma,
                o già picchiate? Aspettano le foglie
                molli la bruma,
                o le crinelle empite nè frondai
                in cui dall'Alpe è scesa qualche breve
                frasca di faggio? Od è già l'Alpe ormai
                bianca di neve?
                Più nulla io vedo, io che vedea non molto
                quando chiamavo, con il mio rumore
                fresco, il fanciullo che cogliea nel folto
                macole e more.
                Col nepotino a me venìa la bianca
                vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo
                andare come vaccherella stanca
                va col suo redo.
                Nella deserta chiesa che rovina,
                vive la bianca Matta dei Beghelli
                più? Desta lei la sveglia mattutina
                più, dè fringuelli?
                Essa veniva al garrulo mio rivo
                sempre garrendo dentro sé, la vecchia:
                e io, garrendo ancora più, l'empivo
                sempre la secchia.
                Ah! che credevo d'essere sua cosa!
                Con lei parlavo, ella parlava meco,
                come una voce nella valle ombrosa
                parla con l'eco.
                Però singhiozzo ripensando a questa
                che lasciai nella chiesa solitaria,
                che avea due cose al mondo, e gliene resta
                l'una, ch'è l'aria.
                Giovanni Pascoli
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