Ogni mattina allo spuntare del giorno, all'apparire dell'attesa aurora sorgesse il sole o spirasse bora * o ch'estate fosse o piovoso inverno
senz'alcun'indugio al campicello sperando mettere qualcosa nel paniere t'incamminavi per la ricerca giornaliera, con chissà qual'altri pensieri nel cervello:
Quante volte, però' fu la ricerca vana, quante volte il ritorno fu triste e deluso che vuota fu la cerca quotidiana e altro giorno in fame s'è concluso.
Nel desolato teterrimo abituro, sfumata la speranza del mattino tutt'intorno t'appariva ancor più scuro ma la speranza non avea confino.
In quegl'anni di epidemica carestia puranco d'affetti, nonna, fosti scarsa. Povera in tutto, o nonna, io nol capia perciò lo cuore me lo stringe morsa.
Grande, se solo poco avessi riflettuto t'avrei qualche sospiro, forse, lenito. Nol feci, più nulla or posso, t'ho perduto! Il rimorso mi rode all'infinito.
In un cocente dì d'un assolato agosto Milite, in man di campo fiore e due viole, sotto il vermiglio luccicante sole avanza verso noi a piede lesto.
Veste uniforme chiara, coloniale e casco di sughero di bianco colore. Piange nel rivedere il casolare dopo un'assenza più che quinquennale.
Alla commossa mamma un forte abbraccio, un bacio in fronte, una dolce carezza, Sii serena: finito è il pasticciaccio. Con le robuste braccia mi cinge con gaiezza:
Mai più tristezza: Or qui è il tuo papà. Allegro, non lacrimar: giammai parte papà.
Alta sei donna mia turchese e bella ch'appari quale dal ciel discesa stella, lo guardo delicato è freccia in core che riempie di dolcezza e tant'amore.
Profumata sei qual rosa e giglio più ch'al mattino emana fior di tiglio, là, ove il passo posi ride la via inebriata di profumo delicata scia.
Sul dolce, sereno, splendido visino l'aspetto che raduni par divino, par che discendi da città remota, non già nata sull'umano pianeta.
D'umana razza tieni appartenenza Indi pur d'essa tieni somiglianza; tuttavia diversa è ogni fattezza Per quanto stile e immensa tenerezza.
Di un padre moribondo scriveva Passeroni che al letto chiamò al bordo per mai aver tenzoni i dieci figlioletti che tutti tiene in petto. Dà un mazzo di bacchette legate strette strette.
Chi rompe, dice, il fascio e mi mostra possanza ogni ricchezza lascio e gli altri restan senza. Dall'uno all'altro così, il fascio passa ma niun pur forte e scaltro lo sfascia di sua possa.
Ad ogni figlio, allora, solo una verga dona, spezzatela, qui, ora e avrete il vostro dono. E tutte in un istante, l'ha scritto Passeroni le verghe furo infrante. Ecco or qui il dono:
Se lontan da voi le risse, cagion di debolezza le avrete regola fissa vi avrete una corazza. Se lontano le contese invece vi terranno per niun nemico è impresa donarvi pena e affanno.
Pure i debolissimi che pensavanvi pria forti saran per voi fortissimi se voi sarete smorti. L'ha scritto Passeroni, pur'altri prima ancora, io ne confermo il vero che ne son prigioniero
Non sono, pertanto, alcuno perché mi persi ognuno. Perciò tenete cura, Per evitare sciagura, Di rimanere tutt'uno.
La bontà, è risaputo, qualità è del cornuto che quand'anco la sua donna trova a letto con l'amico a sfregarsi l'ombelico, li osserva desolato e per mera umanità, avvilito, se ne va.. Poi credendo che l'amico dipartito si sia già, come d'uso d'ogni dì, torna a casa al mezzodì; da sull'uscio fragoroso ode il riso degl'amanti e allora cosa fà? Scoraggiato se ne va. Attraversa il ponte grande, scende giù, verso la valle, si sofferma sulla sponda, guarda l'acqua gorgogliante: si lo fò. Indi pensa alla sua donna, indietreggia di un bel po': Poverina! Non lo fò. Ed allora cosa fa? Mogio, mogio se ne va. La campana dondolante dona l'ora della sera, il profumo delle viole sta a nunziare la primavera; Lui è solo nei suoi pensieri: a quest'ora ancor lo trovo? Certo no!, è ora di cena. Farfugliando in questo dire verso casa s'incammina. Mentre il sole cala a ponente avanzando lentamente, con il cuore palpitante guarda in alto, ahimè chi vede? È l'amico alla veranda che ridendo sta cenando. Si domanda: Mo che fò? Più lontano me ne vo. Poi, intanto, la campana dalla vetta al campanile lenta batte mezzanotte; con in cuore speranze vane fa ritroso il suo cammino, alla luce della luna della casa ai gradini stancamente s'incammina e la chiave nella toppa ruota lento, pian pianino e con fare quasi furtivo alla camera da letto tristemente s'avvicina. La sua donna con la guancia è distesa sulla pancia dell'amante ch'è d'accanto. Indietreggia, va in cucina, un trinciante stringe in pugno e s'avventa alla consorte e dell'uomo fa stessa sorte. Poi s'accascia lentamente e riposa, finalmente. Pure questo è risaputo qualità è del cornuto. N. Maruca.
Emendati, pusillanime pel male che vai facendo e possa nel prosieguo della vita altera frenare la spirale e la coscienza volta del male sia al diniego.
Non hai forse mai udito la voce della nutrice che da dentro il sepolcro t'incita e t'invita a non essere mordace ma dell'amore estimatrice e fulcro?
Da dentro il nero avello t'invoca, ti scongiura d'essere meno dura con chi ti fu assai tenero e t'evoca il focolare e t'evoca le mura
dove entrambi furo, dove si nutriro. Il focolare ardente che tutti riscaldava, le mura affumicate dentro cui crebbero quando il pensier di lei all'Africa vagava.
Se la muta voce ancora non odi la soglia non varcare della Casa di Dio che i pensieri tutti sono presenti a Lui che legge persino dentro l'io.
Bisogno quanto l'aria per la vita, quanto d'acqua bisognevole n'è corpo, non meno del sangue circolante in vena, non meno di vena trasportare sangue, non meno di lingua a proferir parola, non meno d'anca per deambulare, non meno d'intelletto per capire e quanto occhi necessitano al vedere, non meno di narici per l'olfatto, non meno di palato per sapore e non meno della bocca per respiro. Quanto di queste cose vogl'affetto.