La mediocrità più non alligna ché dipartita s'è la nuvolaglia dacché Aliseo di sua impronta degna in uno con costanza la sparpaglia.
Qual sol ch'improvviso levasi a levante sgretola lesto quella cupa coltre e manifesta sempre più saliente la visuale che va in alto e oltre.
L'equanimità così tant'invocata ch'eternamente si credea perduta Essere d'intelletto ha riscovata e di sua mano ognun l'ha riavuta.
In tal vivente sveglio, nobile e lesto che di dolcezza colma ogni suo gesto parmi vedere la rondinella mastra che costruisce il nido da maestra.
Questi s'affanna, vola, becca, impasta e d'architetto la casa costruisce. Indi giace: Altra non ha conquista giacché suo oprar'esperto lì finisce.
L'altro, il volitivo, nel fare sfonda e pria ch'abbia conchiuso nuova n'inventa, sagacemente in mente d'altri affonda solerte il pensier suo ch'altrui diventa.
Solenne, alta s'ergea al centro Torre che d'onore ricopria queste sue terre; era rifugio di sciancati e stracchi, vanto d'ognuno era, giovani e vecchi.
Tutti copriva col paterno manto. Mai turbativa fu, mai fu tormento, non discrimine mai, mai differenza; d'ogni seme traeva buona essenza.
Forte s'udì, per l'aria, grande sussulto: Cadde tra nebbia il gran Gigante avvolto; Tremò la terra, le case furon scosse Piegò la testa, ahimè! E più non resse.
Tra tanti ti scegliesti il miglior frutto, alla famiglia tu levasti tutto, per la sua gente fu immane sorte; perché non ti fermasti o crudel Morte?
Fu il Ciel che mi richiese anima eletta, perciò falciai la troneggiante Vetta; Ma se or lo guardo volgi al firmamento sorrideti una Stella risplendente.
Dapprima all'uomo Iddio donò la vita, del costato di lui donna formò ardita, d'ella ad Adamo regalò il sorriso assieme a regale casa in Paradiso.
Nasce, così, il connubio umano ch'essendo buono diventa tosto strano tanto che pur di cristianità esser dottrina stringi una mano e presto sei in berlina.
Finché il giorno arrivò del matrimonio giammai fu Adamo d'abominio a Dio. Sempre fedele fu agl'insegnamenti, mai il proibito toccò degl'alimenti.
Ma quando ch'ebbe con egli la compagna lasciossi intenerire da sua lagna; a viso bello, in personaggio abietto, resistere non seppe, poveretto!
Onde non essere ad ella in dispiacere fece quel ch'era d'ella il suo volere: Avido ingurgitò il frutto proibito che penzolava dall'albero lì sito.
Subito preso fu da gran terrore e d'incontrare Iddio ebbe timore; paura aveva d'essere trovato ma fu scovato e lesto fu scacciato.
Errabondo va l'uomo da quel dì per la scomunica ch'addosso gli finì, per colpa della donna maledetta l'umanità ridotta è alla distretta.
Beato chi da sol vita conduce ché, d'essa a fine, finisce nella Luce. Il Maligno da sé ha distanziato giacché donna in vita ha mai amato.
Per quel che sopra è detto, o uomo saggio, deserta il tristo tuo retaggio e da cattiva lonza stai in lontananza poiché lupo la veste perde, non l'usanza.
Quell'essere cattivo, pestilente come canna al vento è fluttuante, alfine di ferire l'umanità passa dall'una all'altra malignità. Gode nel vedere dell'altrui le pene ché il male in petto tiene, non il bene; la dignità per esso è cosa insulsa, come l'umanità gli è di ripulsa.
Ascolta! mio Signore, non far l'ingrato: trasportalo dov'è pace e sia "beato". Se posto più non è ch'è esaurito Fa che in inferno arda all'infinito.
Sento da sempre dir con insistenza di somiglianza con altrui presenza; da tempo studio, io, ciascuna usanza e, incontrato mai ho l'uguaglianza. Quel che qui dico può sembrar non vero E senza scambiare il bianco per il nero Vagliamo bene assai la circostanza Ed alla cosa diamo giusta importanza.
Consideriamo il dotto e lo sciancato: Il primo se la fa con l'avvocato l'altro con le persone abominate seguono, perciò, vie divaricate. Or l'umile guardiamo e l'orgoglioso: Il primo in un cantuccio resta pensoso l'altro, a testa alta, baldanzoso passeggia col suo fare spocchioso.
Prendiamo ad esempio la marchesa, con chi, secondo voi, ha la sua intesa? Certo non con l'onest'uomo di paese ma col suo pari rango, nobile marchese. la nobildonna dai guantoni bianchi malaticcia, occhi cerchiati e stanchi porta il suo velo sia per eleganza quanto mostrare agli umili importanza.
Di sul calesse dal mantice nero trainato da nobile destriero non un sorriso spento, non uno sguardo manco all'inchino di stanco vegliardo. Luminoso diviene il cereo viso e la sua bocca è tutta gran sorriso se solo scorge da lontano il ricco anche se nell'andare è smorto e fiacco.
Il capufficio, poi, lo ben sapete mostrare preminenza ha grande sete. I dipendenti inchioda a scrivania a spregio e dell'amore e d'armonia. Ancor quando innocenza in aria affiora niuno accostamento vedo, poi, ancora, tra il magistrato e il malcapitato ché poco o tanto resta bacchettato.
La pari dignità tanto cantata da quest'umanità già traviata, misconosciuta in ogni umano gesto solo giustifica è d'enorme guasto al fine che al finir di vita terrena sminuita possa essere la pena al cospetto del Giudice Divino come se a giudicar fosse un padrino.
Negl'ingenui giochi fanciulleschi fummo inseparabili compagni. Erano I tempi in cui gl'atti furbeschi furon tanti e gli animi formavano. Puberi, insieme, ancora fummo a scorrazzare quando la sarmentosa liana, a mò di sigaretta, mandavamo in fumo stando sdraiati accanto alla fontana
Giovinetti, ci trovammo ancor legati dai vincoli d'affetto primitivi che s'erano, nel tempo, rafforzati per i nostri giuochi semplici e furtivi. Ci perdemmo, però, nell'età verde che da necessità fu fatta avulsa e sballottati come legion che perde e dalla sua amata Terra viene espulsa.
Poi, di nuovo, nella vita adulta, in loco di lavoro e di consulta, ci ritrovammo come ai vecchi tempi, d'esperienza e conoscenza ricchi: così crescemmo assieme per vent'anni, colleghi di lavoro e non di giuochi e, l'uno dell'altrui vide gl'affanni che furono tanti, quanto poco i giochi.
Or che l'adulto cede al vecchio il posto, un po' ammosciato come morent'arbusto, non più la grinta del destriero di corsa in ansia, stretto dagl'anni, in dura morsa, col nero trasformato in bianca chioma dal lavoro ti togli, ahimè! La dolce soma.
Pria che ti diparti dal tenuto per tempo Degno posto, dire ti voglio qual'importanza per noi tutti avesti. Fosti di vecchio stampo: Laborioso, intemerato e con pazienza sopportasti del lavoro i turbamenti, senza darti né a pene né a lamenti.
Costanza avesti di formica infaticabile ch'onde stipare il formicaio schianta se stessa E, dopo aver del grano pulito ogni cortile Soltanto allora, la faticosa spola cessa. All'operosa ape, che la real sua casa d'abbondante polline e miele tiene pervasa, in tutto, somiglianza nel lavoro avesti che con la dolcezza del far lo raddolcisti.
Per le doti che ho appena qui cantato, scarsa è di nobile metallo ogni medaglia perciò, altra d'altro metallo t'ho forgiato onde nessuna mai a essa sia d'uguaglio: RICONOSCENZA è quel che in cuore io veggo: per te, migliore altro metallo non posseggo.
Nel corso di sua vita un sentimento unico l'ha sempre accompagnato mai, in nessun tempo, nemmeno per un momento tal'alto sentimento l'havea abbandonato finché avvenne un dì scompiglio in mente sua che quale gran macigno schiacciavagli la coscienza e lo rendeva niente. Da energici e vitali flemmi
i pensieri furo, tutto abbagliato vide e il male quale tarlo rodeva i buoni intenti e lo sbagliato al giusto s'imponeva e vile lo rendeva. Più pace mai s'avrà ché il sentimento se pur per poco lasso s'è dipartito altrove rendendolo sgomento talché triste morire non è ma desiato. Purità! Per tanti lunghi anni stata gli sei vicino, l'hai per man portato, l'hai sempre ben guidato: Eri appagata: Perché o purità lo hai abbandonato? Vero che in abituale tua dimora sei tornata ma il segno dell'assenza chi lo cancella mai? Quel ch'era allora più non sarà da ora. Più non è l'essenza.
L'incerta fede che porta poco sollievo gli offre e chi, allora, più l'allieterà? Mai cercò onori, sempre ne fu schivo, e alla sua follia chi ora crederà? Fu la pazzia a travolgerlo, a fargli tanto male, soltanto in sette giorni sconvolsegli la vita come guerrieri in armi sconvolgono palazzi, rovesciano governi.
Maligno maledetto! tutto gli togliesti: La sposa stanca e buona, i figli, i nipotini: Quanto cattivo fosti! Eri in agguato, colpisti con gli artigli. Dell'orto distrutto hai albero e frutto perciò desiderio della fine avverte così, Maligno, sei contento in tutto mentr'egli riposo avrà perché inerte.
Vergogna nel guardare i figli porta, indegno d'abbracciare la sposa amata, non ha argomento no, nulla gl'importa, non ha coraggio a dire: O mia adorata. Il cuore t'ha trafitto o dolce donna per futile motivo e sciocco orgoglio; per lui sei stata portante colonna non piangere più di tanto la sua spoglia.
Per lungo tempo di te pur degno fu, fu la pazzia a sviarlo da sentier verace e tu, soltanto tu, puoi sol saperlo tu che solo per te vorrebbe riaver pace. Al Creatore credeva ed al creato, mai prima aveva in sé alcun reato, dell'onestà teneva culto assai ma cadde in burrone profondo, ormai.
La mente er'intontita e lui vagava, svaniva il sogno di restar coi suoi giacché il male per strada lo ghermiva e lo gettava infra immensi guai. Non fece, no, per nulla alcuna ruberia od offesa a qualunque esser vivente; giammai la mente sfiorò tal cattiveria ma di tal'azioni è meno che niente.
Commise illecito che vergogna mena per quell'essere ch'è certo cristiano poiché irregolarità comporta pena di profonda ferita dentro l'animo. L'illegalità non fu contro persona e nemmanco ad essere vivente in generale, può parere strano ma il danno verso altri è inesistente.
Il cruccio ch'à è d'essersi discosto da quant'imposto da Dio Salvatore perché, inopportunamente, con furbizia ha ricevuto ciò che lecito era in altro corretto modo, comunque, avere
Da retta via dal diavolo distorto agli uomini non voleva esser di torto e preso da enorme orgoglio sciocco resta stordito in immenso fosso. Sol Dio può dare ristoro all'alma sua, ridare la serenità che prima aveva, chetar la pena che gli arde in petto giacché non volea mancargli di rispetto.
Fredda era la notte ed innevata e la Pia Donna di bontà infinita di stanchezza e doglianza già stremata Al Redentore del mondo dava vita. Bussò Giuseppe a tutti i casolari Onde dare a Maria caldo giaciglio ma tutti gli occupanti furo avari Disdicendo Chi portava Divin Figlio. Aveva posto solo in una stalla, per letto il fieno d'una mangiatoia, al respiro del bue e l'asinella tenea Maria della maternità la gioia. Lui di tutto il creato possidente luogo migliore per nascere non ebbe, per l'ingordigia dell'umana gente nacque in miseria ed in miseria crebbe. Quel sembiante Umano, ch'era Divino, da Castissima Donna concepito al Dio Grande e Beato era l'affine ma da bieca umanità non fu capito. A Betlemme di Giudea resta la Grotta Che il Vagito Divino prima intese; luogo diviene di retta condotta cui grazia rende il cristiano e rese. Regnava, allora, nella Giudea Erode, uomo protervo, essere triviale d'ognuno paventava tranello e frode, poiché l'istinto suo era carnale. Seppe, dai Magi, di Gesù la nascita che di Giudea predicavano Re, decretò, quindi, togliere la vita agl'innocenti sotto gli anni tre.
Al Puro putativo Padre Giuseppe un Angelo veloce venne in sogno: corri in Egitto, non badare a steppe ch'Erode al Piccoletto porta sdegno. Dell'Angelo a Maria dato l'avviso lasciavano quel luogo benedetto, in braccio Gesù dal casto bel sorriso in cerca d'altro tetto e d'altro letto. Quando l'Onnipotente al sonno eterno gli occhi chiudeva al bruto re regnante fu la Divina Famiglia di ritorno alle mura paterne, alla sua gente. A Nazareth di Galilea con i parenti rimaneva Gesù fino ai trent'anni, per essere battezzato tra le genti incontravasi al Giordano con Giovanni. Sconfiggeva Satana tra i monti; poscia, in testa a moltitudine gaudente cominciava gl'insegnamenti itineranti. Or visitando questa or quella gente. Seguito da Gerusalemme e da Giudea sanava storpi, ciechi ed ammalati; da riva al mar di Cafarnao in Galilea tutti erano accolti, toccati, graziati. Dai guarimenti dati al Suo passaggio la Siria tutta n'ebbe conoscenza; Ovunque dava del Padre il buon messaggio mostrando la grandezza e la Sua scienza.
Moltiplicava i pesci e pure il pane, le acque quietava, comandava i venti, ai tormentati dava le Sue cure, sui mari e sopra i laghi camminava. Nemici farisei, scribi e sinedrio da Giuda, Suo discepolo, tradito ebbe Pilato giudice avversario capo di crudel popolo inferocito. Al posto di Barabba condannato fu crocefisso in mezzo due ladroni; Spirò, il cielo fu squarciato, fu boato, tremò la terra, tremaro i sommi troni. L'esanime Divin Corpo torturato, avvolto nel lenzuolo di bianco lino al suolo della tomba fu adagiato d'uomo devoto, avverso di Caino. Restava il Corpo esanime tre giorni, indi in cielo accanto al Padreterno, in terra, poscia, dai lochi Sempiterni a recare agli Apostoli governo. l'incredulo dei dodici Tommaso le dita nelle piaghe mettere volle, restò, ciò fatto, sgomento ma persuaso, cadde in ginocchio nelle carni imbelle. Ai Discepoli, Gesù, lascia la pace indi s'invola al Divin Palagio e, dal cospetto di Dio, dall'amor verace, guida gli Apostoli al Divin Messaggio.
Ogn'anno al giungere dell'estate afosa a noi che al fresco tuo ci si riposa fico, che vecchio ti ricordo d'anni assai, di frutto dolce non fosti avaro mai.
Delle cure avute, quasi a dispetto, quest'anno di pregiati fichi fai difetto, giacché confronto non è coi passat'anni di pene mi riempi e tant'affanni.
Ma ora che ci penso, mi ricordo, tutto mi torna in mente or che ti guardo: Tu pure l'anno scorso fosti fermo e prim'ancora ti mostrasti infermo.
Qui ti lasciò mio nonno al dipartirsi e ancor prima il bisnonno vide aprirsi la bella chioma che tale fu per anni che, poi, curò mio padre per trent'anni.
A loro mai donasti alcun cordoglio ma a me, che t'accarezzo come figlio, dal dispiacere m'hai levato il sonno come non mai a padre, nonno e bisnonno.
Io non ho forza più di tolleranza, da me s'è dipartita la pazienza; ora m'appari come fossi morto perciò toglierti voglio dal mio orto.
Con quest'arnese ch'è d'acciaio puro ti tolgo il fiato con un colpo duro, levoti, così, dal mio cospetto onde non far mai più alcun dispetto.
Molto frutto, per te, questo fusto tira e nulla feci per muovere la tua ira; bene mi comportai sempre finora e riconoscoti mio padrone ognora.
Per te produco, nobile signore, nella giornata, fresco, a tutte l'ore, dei tuoi bimbi soggiaccio a frusta e grida ferma la mano, non renderla omicida.
La frutta la produco in abbondanza. son sempre pronto, in ogni circostanza, son sempre qui che sono ad aspettarti qual è lo sbaglio, forse il troppo amarti?
Osi essere sdegnoso ed arrogante? Dimentichi che sono alto e importante? Tosto ti sfratto dall'orto e dal cospetto perché osi mancarmi di rispetto.
Con questa scura ch'è tagliente più di quanto il tuo mordente dente ti stendo lesto sulla nuda terra giacché osasti dichiararmi guerra.
No! non toccarmi con quel ferro rozzo; se morir debbo fa che sia in un pozzo: Mi pare a questa fine esser più degno che se pur vecchio, tenero è il mio legno.
Per l'affanno di padre, nonno e bisnonno rimanda la mia fine al prossim'anno; fallo pel fresco che ti stai godendo e per il frutto ch'ivi oggi gustando.
Taci! Scampo per te alcun non è, schiavo sei, io sono podestà e pure re e fermare non posso l'omicida impulso finché non t'ho da mia vista espulso.
Il dolore lasciommi senza fiato giacché pugno violento avea sferrato alla base del fico, della cui ombra affidato avea in sonno le mie membra.