Il sonno è sosta, è solo sospensione. Fuggire dal dolore che ti insegue come il gatto col topo, spalle al muro sanguinante dell'alba, al risvegliarsi. Entrare dentro e scoprirsi scissi, quest'anima ch'è solamente ombra è una formica che trascina esanime la briciola di pane del suo corpo al cimitero ch'è il cielo di notte e non giovano stelle a lacrimarsi per dire con lo sguardo nel silenzio ch'è una resurrezione della luce striscia, cammina, tutta ti appartiene la strada, la più innocua delle serpi, la carnefice e vittima smembratasi per riproporre la dualità – si viaggia fluttuanti verso il sogno, questa tomba di pace senza fine.
L'eco lontana portata nel vento si infrangerà contro pareti ignote i confini rinascono nel sangue, ogni fiato una vena capillare, credi il silenzio sia l'inosservanza sotto cui passi lucido ed illeso, credi la schiavitù no, non ti chiami, il padrone del sonno che riallaccia il guinzaglio dell'ombra finalmente alla cuccia del letto, credi pure che ancora non vi sia da far domande – perché non temo di restare solo nell'interiorità che si fa abisso.
Non si continua alcuna discendenza. Nessun cerchio perfetto che si chiude, collo di una civetta che si illude di non muovere almeno la sua testa, è un voltarsi indietro ad un rimando, è un andare avanti e abbandonarlo. Letto di morte come sala parto. I sacerdoti furono le ostetriche. Con le doglie degli ultimi respiri, dall'utero del mio corpo finale, si credette di partorire l'anima, si mise a un altro mondo nessun figlio.
Ho annaffiato col sonno le mie ossa, ho seminato l'animo di sogni, ho taciuto l'ebbrezza del mio sangue, ho lasciato al passato ed al futuro l'inizio tenero della violenza e lo stormo compatto che son stato lo ho fatto rammollire, lo ho legato alla gabbia terrestre del mio letto.
Più nessuna speranza. Roghi di stelle accesi in solitudine, lacrime imbalsamate nella stasi del tempo, dove l'uomo finge morte col sonno, specchio di ciò ch'è nell'alto, sul palcoscenico intimo del letto, unico ruolo e prove innumerate, più nessuna speranza se il carbone compatto della Notte non cede mai a trasformarsi in cenere.
Se è vuoto e solitudine, se nelle tane delle proprie camere, non c'è cooperazione, a chi consegna la briciola di pane del mio corpo, la formica dell'ombra? Vaga per il deserto della strada, il suo carbone ritenuto folle, persegue la mia fiamma, ostinatissima come volesse vivere nel per sempre di ogni istante in più, trova soltanto il vento ch'è fraterno, parete che s'aggiorna e che s'abbatte per sé stessa, per lasciarlo passare, e alle sue spalle sembra continuare l'immotivato – in apparenza – pianto.
Tra mille parole, labirinti, fumo. Lenti e furtivi, occhi gazzella, vagheggiano, lontani. Silenzio. La nostra natura, mutevole. Le mie mani su di una tastiera, dolcemente, battono. Sospiri, la sera è già venuta.
Blu notte, la voce tua, suadente, riecheggia lontano. Blu notte, chi non conosce, il vizio, alimenti, non sa smettere. Si vedono su lunghi colli, diamanti brillare, e su corpi voluttuosi, lunghi vestiti scintillare.