Scritta da: Nunzio Di Giulio
in Poesie (Poesie personali)
Risveglio
Apro gli occhi.
I raggi del sole,
m'abbracciano.
E io m'irradio.
Commenta
Apro gli occhi.
I raggi del sole,
m'abbracciano.
E io m'irradio.
I raggi tiepidi del sole
sciolgono la brina
e la nebbia alzandosi
si dissolve nell'aria
Il tarassaco spinto
dal soffio si sparge
nel tempo che passa
e si perde
nei sogni e nei desideri
della vita.
Se tua madre sapesse amore mio
che io mi sto traslando per amore
diventerebbe la più cieca Erinni
del creato, che io sono tua madre
ma se tua madre amore mio perfetto
sapesse tutto il male che ho patito
e che i poeti non invecchian mai
allora le due madri innamorate
l'una di Fedra e l'altra sai di Edipo
si alzerebbero dritte dalla tomba
a piangere due parti.
Una giacca od un abito scuri
possono fare buona la mia vita,
un qualsiasi orpello od una quiete
poggiata là, sul mio breve balcone.
Una giacca, un ombrello, un cappellino
civettuolo e cattivo,
ecco le grazie nude della terra
ma che posso io fare alla mia vita
se da selvaggia vibro contro il cielo?
Per te musica è solo silenzio.
Per questo passeggiate solitarie.
Per questo il sipario
nero del cielo alzato ad offuscare
la visione del pubblico solare,
per questo solamente il silenzio,
vuol dire che nessuno può inventarlo
lo strumento da cui
può scaturire nell'eternità.
Il silenzio diventa musicista
e ti utilizza come suo strumento.
E la strada è spartito ed è teatro.
E il corpo penna ed esecuzione.
E i passi note e mimica che interpreta.
E l'ombra che continua come una eco
è una clemenza per chi resta indietro,
incluso te stesso se poi ti volti.
Non sai nemmeno se il vento è un applauso.
Non sai di quante mani.
Se sia una sola oppure
si giochino a confondersi
fino a finire nell'innumerevole.
Tu giochi, e ormai lo sai, e al tuo ritorno,
al tuo rientro in casa dal portone
è terminata la vita dell'opera.
E se si cerca il cadavere è
che tu non sei, non sai, non puoi sapere.
Un attimo brevissimo immortale
che hai consumato e gettato nel cesto
indifferenziato di un lungo oblio.
Sono venuto e indietreggiavi, nulla,
ho lasciato la compagnia del vento,
ai miei piedi la cenere dell'ombra
pezzi di me al passato anche al futuro
la carne-fiamma bruciava di insonnia -
vedevo profilarsi all'orizzonte
la tua porta, un addio prima di nascere -
veniva lacrimato via il mio sogno
ed ero troppo inerte per accorgermene.
La civiltà della luce è crollata,
e neanche la polvere riesce
a dare una parvenza del suo esistere,
cantano un pianto carillon di stelle
sul neonato che è una culla di scheletro,
si calpesta, scavandolo, il terreno,
e il passo è il grido nel buio insicuro
del fatto che sia carne oppure cenere:
vi si affacciano, Narcisi nolenti
su un lago ormai di ostinato ghiaccio, scivolano in compromessi di riflessi,
infimità marina in decomposte
urla, disfatta tela di Penelope,
gesso caduto orizzontalmente
su una lavagna davanti alla quale
non c'è mai stato fosse anche un alunno,
dove scrittura è un oblio ribevuto,
dove non si fa in tempo a dire fine.
Questa sigla d'Amore che mi afferra
le impavide ginocchia, è il decadere
della mia angoscia per la Creazione.
Un anelito bianco mi sospinge
a che io stenda in empito le mani
sopra il mio grigio esistere e lo turbi
in multiformi giri di intelletto.
Ed il Mondo discende poderoso
dalla malinconia che mi ritiene.
Ma il vocabolo esatto del presente
io lo cerco anelando sulla terra
e non posso non bere dalla coppa
che m'offre il Cristo la mia persa "Idea".
Trafiggi stelle, pregustando sangue,
entrerai dentro il cuore di una lacrima
che piange spappolata la sua luce,
proseguirai la tua razzia nel vuoto,
predatrice che si è autocondannata,
resta una zanna, monade, asociale,
che non è stata mai neanche d'avorio,
notte, vestita da rinoceronte.
Legna carbonizzata è questa notte,
estesa senza avere intermittenze,
fiamme accese di zanzariere, gli astri,
gocce di fuoco piante da paura,
solitudini di distanziamento,
sorelle che s'osservano
in modo circospetto:
entra in scena lo sguardo dell'insonne
dal palcoscenico di un marciapiedi
al proscenio d'una strada isolata
in cui la passeggiata si è tenuta
come monologo della sua insonnia,
ed è il silenzio del suo sguardo, parla
l'occhio di bue in un occhio di uomo
proietta in una folle lontananza
l'orizzonte della sua direzione,
è arrivato da sempre a quella vetta,
all'applauso dell'occupar (n)e il centro,
alla pausa scandita d'altro tempo
risponde con sublime indifferenza:
consuma il pasto d'ossa della luce.