Poesie inserite da sintagma

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Scritta da: sintagma
Amore mio,
mio lontanissimo e disperatissimo
Amore,
che mi hai relegato in quest'isola di
smarrimento,
dove la notte sono mille
notti e la tua assenza mille
assenze, dove il vento soffia tra gli alberi
il tuo nome come un canto di
sirena e vago
selvatica come una lupa
senza mai cibo,
senza mai pace,
questo è l'inferno che non
ti piace, il purgatorio della mia
colpa d'amore.
Sono un'anima in pena
che la morte ha colto il giorno
in cui la musica mi portò via
il tuo sguardo e la luna distese sul
mio cadavere il silenzio di una voce
più nuova.
Risusciterò,
quando al cospetto di Dio,
quest'amore, maledettamente negato,
spiegherà per ogni dove nell'universo
un gioiosissimo peana e
ritrovando i tuoi occhi di brace nel
cuore di Dio,
egualmente intensi,
egualmente puri
come pietre fluviali
o terra,
chinerò la mia bocca irrorata
di nuovo sangue verso di essi
a cercare dolcemente il bacio
che tu, allora, Amore mio,
non saprai negarmi.
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    Scritta da: sintagma
    Afrodite è andata via.
    E con lei, ogni Grazia.

    Pastorello, amore del gregge,
    fiore dei campi, non piangere più.
    La tua pecora nera l'hai persa e non tornerà più.
    Le cicale non cantano e il fico è amaro sopra la testa.
    La melodia dl flauto è letale più della spada.
    La tua pecora nera l'hai persa e non tornerà più.
    Le tue lacrime non rompono i sassi, scorrono
    come rugiada sulla terra, i tuoi canti sono bocci
    di rosa che si schiudono nella notte.
    La città non ti fa giustizia, le porte del tuo
    bene sono serrate come gli occhi della morte.
    Ghirlande di melograno, corone di speranza,
    vana lusinga.
    Le dolci lune sono già dimenticate e la brezza
    di mare accarezza più teneri fiori.
    La tua pecora nera l'hai persa e non tornerà più.
    E se la gelosia brucia nel cuore come
    l'estate e assidera le ossa come il più
    gelido inverno, ferma lo sguardo al tepore
    del firmamento.
    Pastorello, amore del gregge, fiore di campo,
    non piangere più.
    La tua pecora nera è lontana e non ritornerà
    più.
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      Scritta da: sintagma
      Il giorno mi sorprende ancora
      sullo stesso cammino, in cui sei
      dappertutto e ad ogni passo.
      Quale altro cammino potrei percorrere?
      E anche se la resina congela dai tronchi
      e molta neve è caduta sugli alberi,
      io mi avvolgo nel tuo mantello di ricordi
      e non ho più freddo.
      Mi stringo al tuo piumato petto
      di colomba, e nel cavo delle tue
      ali, imploro il tuo respiro che è
      un'incomprensibile araldica in vapore
      di pioggia.
      Così resto un tempo che toglie via
      tempo al tempo,
      con le mammelle turgide di latte e
      un bimbo sulla pancia che succhia
      avidamente tutta la mia carne.
      Ma, da lontano, il mare d'inverno
      che s'infrange contro la scogliera,
      reclama il sacrificio di una vittima
      innocente a sciogliere la
      Pace, dentro un abbraccio
      d'irrevocabile oblio.
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        Scritta da: sintagma
        Non voglio mai più che il tuo nome mi affiori alle labbra.
        Non voglio più masticare aria gelida tra i denti.
        Per molte albe piene di speranza, ho costruito sulla sabbia
        una piccola casa intrecciando ghirlande di canti, ho raccolto
        conchiglie, ne ho fatto sentiero per il tuo passo di luce.
        Poi il cielo, diventato grigio, ha soffiato i suoi venti di
        tempesta e la furia del mare ha disperso ogni cosa.
        La sciabola del fulmine ha mozzato la mia testa e
        pur sballottata dalle onde e sporcata dalle alghe, lo
        spirito che informa la terra gonfia la lingua in una vela
        di canto per il pianto di tutte le stelle della notte.
        Non voglio mai più che il tuo nome mi affiori alle labbra
        come una delicata ninfea a pelo d'acqua.
        Non voglio che nessuna libellula ti porti mai sulle ali
        a comprendere, in un tremito improvviso, il purissimo
        mistero della lacrima ardente di un uomo innamorato.
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          Scritta da: sintagma

          Non conversazioni e conversazioni al telefono

          Questo telefono è uno strumento
          maledetto.
          Perché, ben più delle autostrade,
          ben più delle lunghe file impazienti
          di macchine
          in coda,
          ben più dei promontori e del mare
          che vi si distende, come un braccio teso a
          separarci, questo strumento senza voce,
          mi dice ogni giorno l'incolmabile
          distanza fra te e me.
          Per questo ogni giorno lo tengo penosamente
          a distanza,
          come un'arma, perché ogni giorno mi colpisce
          al cuore.
          Eppure basterebbe un secondo,
          nell'incolmabile,
          e il tuo nome non frastornerebbe più
          ed io non dovrei filare questa bava
          di pianto attorno al corpo,
          questo sudario di parole senza senso,
          se non ti arrivano,
          né sognare di non avere scarpe per
          raggiungerti.
          Ma la mia codardia è pari soltanto
          alla tua paura di amare.
          Così siamo vigliacchi entrambi e,
          per questo, decisamente troppo
          fragili,
          come la creta.
          ***
          Tesso la tua immagine nella trama
          dei sogni quando scendi sui miei
          occhi e li bendi con una mano come
          la notte,
          di notte,
          quando la solitudine
          mi si corica di fianco e,
          proprio allora, mi
          sussurra in un orecchio il
          tuo respiro di coniglio,
          ruvida emanazione di un suono
          distillato di inquietudine insonne e
          di pianto, dolcissimo siero
          di amore affranto.
          Allora, oh amore, l'Amore,
          che non si può celare,
          splende sulle nostre distanze
          come il sole di mezzogiorno e
          mai siamo così,
          meravigliosamente vicini,
          così, inspiegabilmente, consapevoli,
          così demonicamente forti,
          da spezzare le ossa alle parole.
          E rimane il senso.
          E ci basta, il senso.
          E ci basta, questa ubriachezza di
          follia,
          che rende liberi,
          che ci rende amanti fino
          all'alba, quando
          sciogli la tua mano dai miei occhi
          e mi fai cieca al giorno, e
          come un falco richiamato dalla
          Ragione, torni a posarti sul suo
          guanto, per lasciarti bendare da
          uno stretto laccio sul
          cuore.
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            Scritta da: sintagma
            Ho pianto tutte le lacrime
            in una valle di vetri di
            bottiglia.
            E luccicavano, brina
            in una mattina di fine
            estate, quando l'azzurro è
            chiaro e il sole scivola sugli occhi
            come una morbida rosa,
            cristallo della terra, lacrima del
            vetro.
            Maledetti amori di poeti,
            gettati in discariche come
            rifiuti putrefatti,
            a morire, duri, come fusti di
            ginestre.
            Maledetti amori di poeti,
            covati nel buio di anime affannate,
            emarginate, amori urlati come
            frenate di treni dove l'oleandro
            scoppia nell'ardore dell'estate.
            Rosso fiore di oleandro...
            Maledetta carne di poeta,
            materia informe, che begli occhi
            scolpirono con scalpello di memorie
            indelebili.
            Scultore crudele, possa una rosa bianca
            sbocciarti nella gola, vindice dei tuoi
            begli occhi traditori, così le tue mani
            canterebbero!
            Ho pianto tutte le lacrime
            nella crepa d'amore di un
            piccolo letto d'albergo, che pure era
            nel paradiso, attendendo il sonno
            che si attardava sul profilo
            delle tue forme assenti.
            Vuoto vasto, come lo spazio,
            infinito.
            Vertigine del vuoto, dove neanche
            una parola salva dalla caduta,
            se manca il caldo petto
            di madre su cui posare
            l'orecchio nel quieto ascolto
            del battito consolatore.
            Solo, dalla lunga via in basso,
            ogni tanto saliva il fragore di uno
            zoccolo pesante
            che andava e riandava la via.
            Un turista si ritrovava, perdendosi
            tra i palazzi densi di vita nella città
            di notte.
            Un vecchio cavallo bendato lo
            trasportava.
            E ti portava, la mia preghiera
            ardente.
            E mi portava, la tua dolce campana
            silente.
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              Scritta da: sintagma

              Conchiglie

              Spesso mi sono rifiutata
              di guardare la luna,
              benché sapessi, che ti avvolgeva
              tra le braccia,
              benché desiderassi, il suo riverbero
              sulla faccia
              come l'acqua per l'assenzio nei
              miei occhi.
              Temevo che mi chiedesse:
              "Perché, sei più pallida
              di me?"
              Ma la luna, che tutto vede,
              è vereconda, e niente mai
              chiede.
              In silenzio, mi guidava
              lungo la riva del
              mare, perché potessi
              confidare all'onda
              l'amaro sapore della
              solitudine profonda.
              Mi faceva camminare
              scalza sulla battigia e
              illuminava una conchiglia
              grigia che sbocciava da
              un solco di sponda,
              levigata come un
              giovane viso, marino narciso.
              Mi diceva: "Per te, il fiore
              del mare. Non avere paura di
              ascoltare."
              Soffi di bufera, spume infrante
              contro la scogliera, profumi di brezze,
              sogni di isole lontane.
              Musica dolce e feroce.
              Era la tua voce.
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                Scritta da: sintagma

                Baccanale

                Un giorno, chissà dove e
                chissà, in quali circostanze,
                magari vedendoti
                soltanto passare,
                una vecchia esclamò:
                "Che begli occhi,
                che hai."
                Vedi,
                l'esperienza ha un senso.
                Ma, quella vecchia, non
                era solo una
                donna vecchia.
                Vedi,
                a volte gli dei si
                mascherano da mortali,
                e parlano con voce umana
                a coloro che sono
                degni.
                Sotto le vesti di quella
                vecchia donna accorta,
                batteva il cuore eterno di
                Demetra.
                E tu, malaccorto amore,
                chissà, se anche allora,
                davi pietre di silenzio,
                o petali di parole.
                Perché la verità dei
                tuoi splendidi occhi è
                legge,
                persino fra gli dei.
                I tuoi occhi sono
                grandi solchi dove
                scorrono perenni,
                calde sorgenti
                sotterranee.
                In un tramonto di gola
                e di lussuria,
                Bacco errabondo strinse
                Demetra in un abbraccio.
                E vi piantò
                una vite.
                Tanto valse il
                tuo vigneto: un
                lunghissimo bacio
                ubriaco di mosto.
                La stagione dell'uva,
                dai tralci alla tua bocca,
                pende grappoli di stelle,
                per la tua fame di
                firmamenti, macerati
                succhi, per le eclissi
                delle tue memorie.
                Ingenua ebbrezza,
                di passi danzati, in
                spazi traslati, ai margini
                del crollo.
                Ingenua ebbrezza,
                di canti spiegati, in
                spazi traslati, oltre i limiti
                dell'accordo.
                Tenerissima ebbrezza,
                di sguardi mozzati,
                da sguardi affilati, come
                fulgide spade di
                pampini.
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                  Scritta da: sintagma

                  Corride

                  Quando il toro si precipita
                  nell'arena è una rosa magnifica
                  di Andalusia.
                  Lucido il manto come tenebra d'argento,
                  le corna sono austere spine.
                  Sciami di voci piovono dall'alto
                  come sputi caustici, dita cruente
                  scagliate da un'orda di arcieri
                  di tonache e di toghe.
                  Il giudizio universale si compie
                  quando il toro graffia la sabbia e
                  ridesta la memoria della morte
                  seppellita sotto la polvere,
                  quando l'adulazione sfiora
                  la feluca del matadore e
                  il fiore si ferma ai suoi piedi.
                  Vergine beffarda, laverai presto
                  col sangue del toro il tuo corpo,
                  per mondarti dalla promessa
                  di un amore di fumo, divorerai
                  ben presto, come una iena golosa,
                  i suoi testicoli, a rubare
                  il segreto delle forze telluriche
                  che ti governano.
                  Quando il toro va incontro
                  alla morte con gli occhi abbagliati
                  dal sole rosso dell'ipocrisia,
                  l'invidia e l'ambizione con un salto
                  lo feriscono alla schiena.
                  E la lama della vanagloria gli
                  trafigge la gola quando il respiro
                  si affanna e la bava si addensa
                  e schiuma dalla bocca come un'onda
                  furente.
                  E'allora che il toro precipita
                  sulle zampe e dalle narici
                  scaccia la vita nell'ultimo respiro
                  di fuoco.
                  Allora stramazza nella polvere
                  come una quercia mozzata
                  dalle radici.
                  Ed è allora che la cupidigia lo colpisce
                  dritto al cuore.
                  Per vedere la lingua che si distende,
                  nuda e immobile nella resa.
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                    Scritta da: sintagma

                    La nave

                    Nell'abbraccio di un'isola senza nome
                    resta la mia nave ferma senza tempo.
                    Il sole batte sul pontile, il vento accarezza
                    le spesse ritorte.
                    Non so, se i Lestrigoni
                    verranno ad annusare l'odore del legno
                    che ha messo radici, non so, se il ciclope
                    sfonderà con un masso le vele indurite dalla
                    salsedine.
                    Non so, se dai boschi di timo, Odisseo
                    vestito di pelle, correrà con le pecore rubate
                    a sfidare le onde, a forgiare la cera, a sognare
                    Itaca dall'albero maestro.
                    Nell'abbraccio di un'isola senza nome
                    resta la mia nave ferma senza tempo con
                    mille anfore di sabbia e mille statue
                    monche.
                    Ma nella solitudine di effigi senza nome
                    che non sanno parlare, una ninfa scalza
                    danza come un uccello e canta
                    in aliti di ginestre e di viole.
                    Le anfore si spaccano, scivola la sabbia,
                    trasudano miele tutte le statue.
                    Eppure la mia nave resta immobile
                    nell'abbraccio di un'isola senza nome.
                    E non so, né ho mai saputo, se è forse tornata
                    da un lungo viaggio oppure non è mai neanche
                    partita.
                    Composta lunedì 10 maggio 2010
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