Se tu mi dessi Tutti i cieli che conosci da guardare I nembi sarebbero pellicola di tempeste E tutti i diluvi Si stamperebbero Asciutti Sulla terraferma del mio volto Come io fossi Amazzonia In contrasto agli astri Foresta intricata Tangente alle tue altitudini.
Che "Mia" diventi la voce del verbo pronunciata sulla torsione del polso e lasci il segno del possesso nel piacere del livido senza mia colpa ché lei è rea confessa pur nella tela di ragno per mosche rosa
Tra il lucido e il torbido mi specchio, doppio, Narciso morboso di un irrisolto Edipo in fasce
Tra l'ossessione e la furia a succhiare il sangue nell'eccitazione dei dinieghi il controllo dell'ubbidienza a mani giunte, come in preghiera, con i lacci traumatici di tortura fredda terrorista e tiranno ché sono tua vittima al talamo d'una luna di miele rancido
La violenza mi cura la paura ché se alito sul collo, allora respiro; la perfezione inscenata.
Se in mezzo al petto mi nascesse stalagmite di fuoco e in lacrime calcaree librassi in passi di cielo, una preghiera diverrebbe tetto e nevicherei tutti gli schiaffi dell'aria dolorosa
Se la pelle mi diventasse d'amianto e il gelo scrostasse patine di paura precipiterei acqua per risalire e svaporare fumogena pellicola rarefatta rifratta per gioco di luce tra cristalli fragili
Se fossi stagione mieterei adesso per sfamarmi di pane e farmi scorta e formica piccola nera così lontana dai cicalecci
Anima granulare brina e germe freddo con la secchezza del peso verso il suolo e il terrore del gelicidio sarei gragnola e muterei il nome in Siberia.
Dev'essere stato un ricordo, l'ultimo sussulto e le dita che battono sui tasti come fosse una marcia di pensieri in fila sul filo della bocca chiusa. Ci vuole il latte alle mandorle per certe cose della mente – mi dico; lo direi anche a te se ci fossi – credo tutto sia in eredità. Dallo splendore alla paura, dal coraggio alla disfatta, dal misfatto alla tragedia, dall'ansia al riso immotivato. Ho visto molte cose in questi giorni appena trascorsi. Conchiglie grandi così. E onde. Onde alte così. I miei occhi e le sue mani. Forse, il possibile è da aspirare lungo un tiro di sigaretta e per il probabile giro bene il caffè così sa più dolce. Mi mancano quattordici pagine per finire il libro, poi, magari, ne scrivo uno io. Sta bene questo nuovo vaso all'angolo della stanza. L'altro è ancòra vuoto. Mi sento andare verso un rassicurante autunno. Più mio. Questo è quanto.
In difesa della me più disabitata ho contato cento mani in assedio ai piedi della mia anima sfitta ma non c'è posto alla mia mensa
a dare la parvenza di un tutto intero e persino doppia per trovare di me la metà che sono e bastarmi addirittura mi avanzo come scarto al convivio stanco della mia carne fatta pane per saziarmi simposio decadente sinossi dei digiuni imposti
sul telaio delle mie fughe, il dipinto scheggiato di chi m'insegue - ho mille solitudini, una per ogni occasione diversa -
Se Tu avessi scorto tutto il mio abisso, dentro, riccio di mare con gli aculei sulle sponde, il mio corpo indifeso sarebbe rimasto argine sulla battigia a placare la risacca delle tue mani.
Sul pelo d'acqua, fuori mi sono eletta ninfea sul pacificare della corrente come fossi gomena ardita ancorata all'ormeggio.
Sui tonfi dei sassi spirali e cerchi di vita sui click dei battiti.
Sentirmi è comando per tutte le sorde promesse i tonfi degli eventi gli attutiti fatti i sommessi inganni il cuore taciuto È rimasto un urlo nel sonno e la voce che diceva e la gola che riscattava nessun nuovo dire se non l'eco come d'un mare antico di me, colorata di battigia una vecchia alga alla caviglia sinistra l'acqua che rinfresca se qualcosa d'arso fosse rimasto si posi un bruciore estinto Cenere rimane solo sui fondali.
Ho preferito il buio di mille profumi e mi sono portata dai fiori a riprova delle primavere estinte sull'inchino del solstizio di fronte al più lungo equinozio su un'alba fracassata di cento giorni d'assenza - tanti i petali sotto i piedi - Quali colori avessero le essenze lo ha detto il tempo che ancòra aspetto di mattino presto sotto l'umida rugiada e le ragnatele ché i fili mi fanno anelli tra le dita alla luce di mille profumi che ho preferito.
Sapessi leggermi Questo mio tetro teatro Dipingeresti di terrore I sorrisi dei pagliacci E saliresti sulle altalene delle mie paure Dove le corde sono liane Nei boschi autunnali del mio cuore. Della pioggia di oggi Potresti ancora lavarti le mani Sull'umidità dei miei capelli E sederti al riparo del collo. Guardarsi sarebbe coraggioso infinito.
All'improvviso è stato sipario sul mio cuore e tutta l'esistenza si è aperta teatrale dai miei occhi, divenuti scena nel secondo atto delle mie pupille così sequenziali i ricordi sugli episodi delle ciglia cadenti come stelle urlare, soliste, il loro desiderio di tutto un cielo piangere le voglie e le passioni degli astri nell'inizio della notte su un pubblico di ombre e le mie mani ad applaudirmi attrice, protagonista nelle mille probabilità d'una me possibile.