Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Dice il nipote

I nonni non mi piacciono perché finiscono subito.
Sono a malapena un ginocchio ossuto, una mano
tra i capelli,
e diventano già una foto nella sala,
un volto che s'allontana.

I nonni mi spaventano perché sono molto docili,
sanno tutto e cantano.

I genitori dovrebbero avere i figli più da giovani,
perché questi a loro volta avessero presto figli
e i nonni non arrivassero tanto tardi.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Diamante, né smiraldo, né zafino

    Diamante, né smiraldo, né zafino,
    né vernul'altra gema preziosa,
    topazo, né giaquinto, né rubino,
    né l'aritropia, ch'è sì vertudiosa,
    né l'amatisto, né 'l carbonchio fino,
    lo qual è molto risprendente cosa,
    non àno tante belezze in domino
    quant'à in sé la mia donna amorosa.
    E di vertute tutte l'autre avanza,
    e somigliante [ a stella è ] di sprendore,
    co la sua conta e gaia inamoranza,
    e più bell'e[ste] che rosa e che frore.
    Cristo le doni vita ed alegranza,
    e sì l'acresca in gran pregio ed onore.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      Per te darei la mia vita
      di te sono molto innamorata
      Sei il mio grande protettore
      oltre del corpo anche del mio cuore
      Io ti amo da morire
      perche tu mi fai impazzire!
      Su di una nuvola vorrei andare
      per guardare e spiare
      quando lontano sei da me
      tutto quello che fai per me!
      Lontan da te non so più stare
      tanto che non so più come fare
      guardando il tuo bel viso
      mi sboccia un languido sorriso
      la tua pelle delicata
      è il desiderio di ogni giornata
      di vederla e toccarla
      e soprattutto odorarla
      È un profumo buono e speciale
      per un ragazzo eccezionale.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Avanti! Avanti!

        I
        Avanti, avanti, o sauro destrier de la canzone!
        L'aspra tua chioma porgimi, ch'io salti anche in arcione
        Indomito destrier.
        A noi la polve e l'ansia del corso, e i rotti venti,
        E il lampo de le selici percosse, e de i torrenti
        L'urlo solingo e fier.
        I bei ginnetti italici han pettinati crini,
        Le constellate e morbide aiuole dè giardini
        Sono il lor dolce agon:
        Ivi essi caracollano in faccia a i loro amori,
        La giuba a tempo fluttua vaga tra i nastri e i fiori
        De le fanfare al suon;
        E, se lungi la polvere scorgon del nostro corso,
        Il picciol collo inarcano e masticando il morso
        Par che rignino - Ohibò! -
        Ma l'alfana che strascica su l'orlo de la via
        Sotto gualdrappe e cingoli la lunga anatomia
        D'un corpo che invecchiò,
        Ripensando gli scalpiti dè corteggi e le stalle
        Dè tepid'ozi e l'adipe de la pasciuta valle,
        Guarda con muto orror.
        E noi corriamo à torridi soli, à cieli stellati,
        Per note plaghe e incognite, quai cavalier fatati,
        Dietro un velato amor.
        Avanti, avanti, o sauro destrier, mio forte amico!
        Non vedi tu le parie forme del tempo antico
        Accennarne colà ?
        Non vedi tu d'Angelica ridente, o amico, il velo
        Solcar come una candida nube l'estremo cielo?
        Oh gloria, oh libertà!

        II
        Ahi, dà prim'anni, o gloria, nascosi del mio cuore
        Nè superbi silenzii il tuo superbo amore.
        Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor
        Mi sfolgorar dà gelidi marmi nel petto un raggio,
        Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio
        E i lampi dè bianchi omeri sotto le chiome d'òr.
        E tutto ciò che facile allor prometton gli anni
        Io 'l diedi per un impeto lacrimoso d'affanni,
        Per un amplesso aereo in faccia a l'avvenir.
        O immane statua bronzea su dirupato monte,
        Solo i grandi t'aggiungono, per declinar la fronte
        Fredda su 'l tuo fredd'omero e lassi ivi morir.
        A più frequente palpito di umani odii e d'amori
        Meglio il petto m'accesero nè lor severi ardori
        Ultime dee superstiti giustizia e libertà;
        E uscir credeami italico vate a la nuova etade,
        Le cui strofe al ciel vibrano come rugghianti spade,
        E il canto, ala d'incendio, divora i boschi e va.
        Ahi, lieve i duri muscoli sfiora la rima alata!
        Co 'l tuon de l'arma ferrea nel destro pugno arcata,
        Gentil leopardo lanciasi Camillo Demulèn,
        E cade la Bastiglia. Solo Danton dislaccia,
        Per rivelarti à popoli, con le taurine braccia,
        repubblica vergine, l'amazonio tuo sen.
        A noi le pugne inutili. Tu cadevi, o Mameli,
        Con la pupilla cerula fisa a gli aperti cieli
        Tra un inno e una battaglia cadevi; e come un fior
        Ti rideva da l'anima la fede allor che il bello
        E biondo capo languido chinavi, e te, fratello,
        Copria l'ombra siderea di Roma e i tre color;
        Ed al fuggir de l'anima su la pallida faccia
        Protendea la repubblica santa le aperte braccia
        Diritta in fra i romulei colli e l'occiduo sol.
        Ma io d'intorno premere veggo schiavi e tiranni,
        Ma io su 'l capo stridere m'odo fuggenti gli anni
        —Che mai canta, susurrano, costui torbido e sol?
        Ei canta e culla i queruli mostri de la sua mente,
        E quel che vive e s'agita nel mondo egli non sente.—
        O popolo d'Italia, vita del mio pensier,
        O popolo d'Italia, vecchio titano ignavo,
        Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo;
        E dè miei versi funebri t'incoroni il bicchier.

        III
        Avanti, avanti, o indomito destrier de gl'inni alato !
        Obliar vò nel rapido corso l'inerte fato,
        I gravi e oscuri dí.
        Ricordi tu, bel sauro, quando al tuo primo salto
        I falchi salutarono augurando ne l'alto
        E il bufolo muggí?
        Ricordi tu le vedove piagge del mar toscano,
        Ove china su 'l nubilo inseminato piano
        La torre feudal
        Con lunga ombra di tedio da i colli arsicci e foschi
        Veglia de le rasenie cittadi in mezzo à boschi
        Il sonno sepolcral,
        Mentre tormenta languido sirocco gli assetati
        Caprifichi che ondeggiano su i gran massi quadrati
        Verdi tra il cielo e il mar,
        Su i gran massi cui vigile il mercator tirreno
        Saliva, le fenicie rosse vele nel seno
        Azzurro ad aspettar?
        Ricordi Populonia, e Roselle, e la fiera
        Torre di Donoratico a la cui porta nera
        Conte Ugolin bussò
        Con lo scudo e con l'aquile a la Meloria infrante,
        Il grand'elmo togliendosi da la fronte che Dante
        Ne l'inferno ammirò?
        Or (dolce a la memoria) una quercia su 'l ponte
        Levatoio verdeggia e bisbiglia, e del conte
        Novella il cacciator
        Quando al purpureo vespero su la bertesca infida
        I falchetti famelici empiono il ciel di strida
        E il can guarda al clamor.
        Là tu crescesti, o sauro destrier de gl'inni, meco;
        E la pietra pelasgica ed il tirreno speco
        Furo il mio solo altar
        E con me nel silenzio meridian fulgente
        I lucumoni e gli àuguri de la mia prima gente
        Veniano a conversar.
        E tu pascevi, o alivolo corridore, la biada
        Che nè solchi de i secoli aperti con la spada
        Del console roman
        Dante, etrusco pontefice redivivo, gettava;
        Onde al cielo il tuo florido terzo maggio esultava,
        Comune italian,
        Tra le germane faide e i salmi nazareni
        Esultava nel libero lavoro e ne i sereni
        Canti dè mietitor.
        Chi di quell'orzo il pascesi, o nobile corsiero,
        Ha forti nervi e muscoli, ha gentile ed intero
        Nel sano petto il cor.
        Dammi or dunque, apollinea fiera, l'alato dorso:
        Ecco, tutte le redini io ti libero al corso:
        Corriam, fiera gentil.
        Corriam de gli avversarii sovra le teste e i petti,
        Dè mostri il sangue imporpori i tuoi ferrei garetti;
        E a noi rida l'april,
        L'april dè colli italici vaghi di mèssi e fiori,
        L'april santo de l'anima piena di nuovi amori,
        L'aprile del pensier.
        Voliam, sin che la folgore di Giove tra la rotta
        Nube ci arda e purifichi, o che il torrente inghiotta
        Cavallo e cavalier,
        O ch'io discenda placido dal tuo stellante arcione,
        Con l'occhio ancora gravido di luce e visione,
        Su 'l toscano mio suol,
        Ed al fraterno tumolo posi da la fatica,
        Gustando tu il trifoglio da una bell'urna antica
        Verso il morente sol.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Un male senza fine donò Zeus a Titono

          Un male senza fine donò Zeus a Titono,
          la vecchiaia, più agghiacciante anche della morte penosa.
          ...
          Ma come un sogno breve è la giovinezza
          preziosa: presto, incombe sul capo
          la tormentosa e deforme vecchiaia,
          nemica, spregevole, che non fa più riconoscere l'uomo:
          danneggia gli occhi e la mente avviluppandoli.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Lo viso mi fa andare alegramente

            Lo viso mi fa andare alegramente,
            lo bello viso mi fa rinegare;
            lo viso me conforta ispesament[e],
            l'adorno viso che mi fa penare.
            Lo chiaro viso de la più avenente,
            l'adorno viso, riso me fa fare:
            di quello viso parlane la gente,
            che nullo viso [ a viso ] li po' stare.
            Chi vide mai così begli ochi in viso,
            né sì amorosi fare li sembianti,
            né boca con cotanto dolce riso?
            Quand'eo li parlo moroli davanti,
            e paremi ch'ì vada in paradiso,
            e tegnomi sovrano d'ogn'amante.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Acqua salata

              Acqua salata scende sul viso,
              lo sapevi che un onda più forte sarebbe arrivata,
              e chiudi gli occhi e ti brucia, ma fai finta di nulla,
              eppure il mare è molto lontano,
              eppure nevica zucchero a velo sui fiori del balcone,
              ascolti la musica perché quella voce ti fa paura,
              fai rumore con i coperchi per non sentire quel battito,
              e danzi ma il cuore ti manca, ti sta portando via il respiro,
              e allora cammini adagio, riprendoti il fiato rubato,
              guardi per terra, convincendoti di essere sola,
              le mani in tasca per sentire null'altro
              che il rassicurante vuoto delle tue tasche.
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