Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Ultima cena

Come saliva
che scompare
in bocche assetate
così il tuo silenzio
inghiotte il mio cuore
amore di un tempo
nell'odio di oggi

Vedo i tuoi passi
riflessi
dileguarsi
sulla lastra di pioggia
in quest'autunno
che sembra
la sala d'attesa
di un mattatoio
e le foglie rosse
macchie di sangue
nei disegni del vento

Distante
dalle cose
che ho amato
coi coltelli degli anni
alle spalle
mi sento solo
mentre disertano
i più duri pensieri

Strappo la tua foto
dagli occhi
e irriducibile il disprezzo
lancia uno sputo
che si perde nell'acqua

Mi dico
si è suicidato anche l'odio
povero me
sono solo
sul banchetto degli anni
addobbato
coi fiori del male
nell'ultima cena.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    Sia nel respiro di tutti il sogno che attraversa confine non visto.
    Passi che ancora non cancellano
    deserti e ancora qui non lasciano
    visibili tracce ma che ci fanno
    espandere memorie e donano
    capacità di percorrere il tempo.
    Per ogni pensiero nel silenzio
    sia del cuore l'avvertito soffio
    a regalare ali a quel tempo ora fuggito
    al presente e al futuro non conosciuto.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Saluterò di nuovo il sole

      Saluterò di nuovo il sole
      E quella corrente che in me fluiva
      e le nubi come i miei lunghi pensieri
      e la crescita dolorosa dei pioppi
      nel giardino
      che vivevano con me aride stagioni
      e gli stormi dei corvi
      che la notte mi portavano in dono
      il profumo dei campi notturni
      e mia madre, vissuta in uno specchio,
      immagine della mia vecchiaia
      e la terra
      che il desiderio di ripetermi
      riempiva il suo ventre caldo
      di verdi semi,
      saluterò di nuovo

      Vengo, vengo
      con la continuità degli odori sotterranei
      nei capelli
      con le dense esperienze dell'oscurità
      negli occhi
      con i cespugli di bosco
      colti oltre il muro

      Vengo, vengo
      e la soglia si riempie d'amore
      e io, sulla soglia
      saluterò di nuovo coloro che amano
      e la ragazza
      che ancora sta là,
      sulla soglia ricolma d'amore.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        È un tocco gentile, una carezza calda e leggera,
        che conosce i miei segreti e le mie debolezze,
        percorrendo le sue strade apre le mie con un soffio leggero,
        mi turba e mi schiude conoscendo i percorsi,
        si ferma, mi aspetta, mi segue silenziosa,
        sento il suo sguardo che mi colora la pelle,
        mi disegna e mi modella il respiro,
        mi sfiora e scompare perché io corra a cercarla,
        guardo in alto e mi è fra le gambe,
        allungo la mano e lei vola via,
        la chiamo e lei canta, mi arrabbio e sorride,
        sorrido anch'io per la sua impertinenza,
        della mia debolezza.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Contrasto

          "Rosa fresca aulentis[s]ima, - c'apari inver la state
          le donne ti disïano - pulzell'e maritate;
          tra[ji]mi de ste focora - se t'este a bolontate;
          per te non aio abento notte e dia,
          penzando pur di voi, madonna mia".
          "Se di mevi trabagliti, - follia lo ti fa fare,
          lo mar potresti arompere, - avanti, a semenare,
          l'abere de sto secolo - tut[t]o quanto asembrare,
          avereme non poteri a esto monno,
          avanti li cavelli m'aritonno".
          "Se li cavelli arton[n]iti, - avanti foss'io morto,
          [donna], c'aisì mi perdera - lo sol[l]acc[i]o e 'l diporto.
          Quando ci passo e veioti, - rosa fresca de l'orto,
          bono conforto donimi tut[t]ore:
          poniamo che s'aiunga il nostro amore".
          "Che 'l nostro amore aiungasi - non boglio m'atalenti.
          Se ci ti trova paremo - co gli altri miei parenti!
          Guarda non s'ar[i]colgano - questi forti cor[r]enti!
          Como ti seppe bona la venuta,
          consiglio che ti guardi a la partuta".
          "Se i tuoi parenti trova[n]mi, - e che mi pozon fari?
          Una difensa met[t]oci - di dumilì agostari:
          non mi toc[c]àra pàdreto - per quanto avere ambari.
          Viva lo 'mperadore graz[i]' a Deo !
          Intendi, bella, che ti dico eo? "
          "Tu me no lasci vivere - nè sera, nè maitino.
          Donna mi son di perperi - d'auro massamotino.
          Se tanto aver donassemi - quanto à lo Saladino
          e per aiunta quant'à lo Soldano
          toc[c]areme non poteri a la mano".
          "Molte sono le fem[m]ine - c'ànno dura la testa,
          e l'omo con parabole - l'adimina e amonesta,
          tanto intorno procaz[z]ale - fin che l'à in sua podesta.
          Fem[m]ina d'omo non si può tenere:
          guardati, bella, pur de ripentere".
          "Ch'eo ne [ri]pentesseme? - Davanti foss'io aucisa!
          Ca nulla bona fem[m]ina - per me fosse riprisa.
          [A]ersera passastici - cor[r]enno a la distisa.
          Aquetiti, riposa, canzoneri,
          tue parabole a me non pìa[c]ion gueri".
          "Quante sono le schiantora - che m'à[i] mis'a lo core!
          E solo purpenzannome - la dia quanno vo fore,
          fem[m]ina de sto secolo - tanto no amai ancore
          quant'amo teve, rosa invidïata.
          Ben credo che mi fosti distinata".
          "Se distinata fosseti, - caderia de l'alteze,
          ché male messe forano - in teve mie belleze.
          Se tut[t]o adivenissemi, tagliarami le treze
          e consore m'arenno a una magione
          avanti che m'artoc[c]hi 'n la persone".
          "Se tu consore arenneti, - donna col viso cleri,
          a lo mostero venoci - e rennomi confleri:
          per tanta prova vencerti - faralo volonteri.
          Con teco stao la sera e lo maitino;
          besogn'è ch'io ti tegna al meo dimino".
          "Boimé, tapina misera, - com'ao reo distinato!
          Gieso Cristo l'altissimo - del tut[t]o m'è airato:
          concepistimi a abattere - in omo blestiemato.
          Cerca la terra ch'este gran[n]e assai,
          chiù bella donna di me troverai".
          Cercat'aio Calabr[ï]a, - Toscana e Lombardia,
          Puglia, Costantinopoli, - Genova, Pisa e Soria,
          Lamagna e Babilonïa - [e] tut[t]a Barberia:
          donna non [ci] trovai tanto cortese,
          per che sovrana di meve te p[r]ese".
          "Poi tanto trabagliasti[ti], - fac[c]ioti meo pregheri
          che tu vadi adoman[n]imi - a mia mare e a mon peri.
          Se dare mi ti degnano, - menami a lo mosteri
          e sposami davanti da la jenti;
          e poi farò li tuò comannamenti".
          "Di cio che dici, vitama, - neiente non ti bale,
          ca de le tuo parabole - fatto n'ò ponti e scale.
          Penne penzasti met[t]ere, - sonti cadute l'ale,
          e dato t'aio la botta sot[t]ana;
          dunque, se po[t]i, teniti, villana".
          "En paura non met[t]ermi - di nullo manganiello:
          istomi 'n esta grorïa - de sto forte castiello;
          prezo le tuo parabole - meno che d'un zitello.
          Se tu no levi e vàtine di quaci,
          se tu ci fosse morto, ben mi chiaci".
          Dunque vor[r]esti, vitama, - ca per te fosse strutto?
          Se morto essere deboci - od intagliato tut[t]o,
          di quaci non mi mosera - se no ai[o] de lo frutto,
          lo quale staci ne lo tuo jardino:
          disïolo la sera e lo matino".
          "Di quello frutto no ab[b]ero - conti, nè cabalieri;
          molto lo disïa[ro]no - marchesi e justizieri,
          avere no nde pottero - gironde molto feri.
          Intendi bene ciò che bol[e] dire?
          Men'este di mill'onze lo tuo abire".
          Molti son li garofani, - ma non che salma nd'ài;
          bella, non dispregiaremi - s'avanti non m'assai.
          Se vento in proda girasi - e giungeti a le prai,
          a rimembrare t'ao ste parole,
          ca de[n]tra sta animella assai mi dole! "
          "Macari se doles[s]eti - che cadesse angosciato!
          La gente ci cor[r]es[s]oro - da traverso e da lato,
          tut[t]'a meve dicessono - "ac[c]or[r]i a sto malnato! "
          non ti degnara porgere la mano
          per quanto avere à 'l Papa e lo Soldano".
          "Deo lo volesse, vitama, - te fosse morto in casa!
          L'arma n'anderia consola, - ca dì e notte pantasa.
          La jente ti chiamarano: - "Oi periura malvasa,
          c'à[i] morto l'omo in casata, traita! "
          Sanz'onni colpa levimi la vita".
          "Se tu no levi e vatine - co la maladizione,
          li frati miei ti trovano - dentro chissa magione
          [ .. ] ben lo mi sofero - perdici la persone;
          c'a meve sè venuto a sormonare,
          parente o amico non t'ave aitare".
          "A meve non aitano - amici, nè parenti;
          istrani[u] mi son, carama, - enfra esta bona jenti.
          Or fa un anno, vitama, - che 'ntrata mi sè '[n] menti;
          di canno ti vestisti lo maiuto,
          bella, da quello jorno son feruto".
          "Ai, tando 'namorastiti, - [oi] Iuda lo traito?
          Como se fosse porpore, - iscarlat[t]o o sciamito!
          S'a le Va[n]gele iurimi - che mi sia a marito,
          avereme non poter'a sto monno,
          avanti in mare [j]it[t]omi al perfonno".
          "Se tu nel mare git[t]iti, - donna cortese e fina,
          dereto mi ti misera - per tut[t]a la marina,
          [ e, da ] poi ca 'n[n]egas[t]eti, - trobareti a la rina,
          solo per questa cosa ad impretare:
          con teco m'aio agiungere a pec[c]are".
          "Segnomi in Patre e 'n Filio - ed i[n] Santo Mat[t]eo!
          So ca non sè tu retico - [o] figlio di giudeo,
          e cotale parabole - non udì' dire anch'eo!
          Morta si [è] la fem[m]ina a lo 'ntutto,
          perdeci lo saboro e lo disdutto".
          "Bene lo saccio, carama: - altro non poz[z]o fare.
          Se quisso non arcomplimi, - lassone lo cantare.
          Fallo, mia donna, plaz[z]ati, - che bene lo puoi fare.
          Ancora tu no m'ami, molto t'amo
          sì m'ài preso come lo pesce a l'amo".
          "Saz[z]o che m'ami, [e] amoti - di core paladino.
          Levati suso e vat[t]ene, - tornaci a lo matino.
          Se ciò che dico facemi, - di bon cor t'amo e fino:
          [eo] quisso ti 'mprometto sanza faglia,
          tè la mia fede che m'ài in tua baglia".
          "Per zo che dici, carama, - neiente non mi movo;
          inanti prenni e scannami, - tolli esto cortel novo.
          Sto fatto fare potesi - inanti scalfi un uovo.
          Arcompli mì talento, [a]mica be]la,
          che l'arma co lo core mi si 'nfella".
          "Ben saz[z]o l'arma doleti - com'omo c'ave arsura.
          Sto fatto [far] non potesi - per null'altra misura
          se non a le Vangel[ï]e - che mo ti dico iura,
          avereme non puoi in tua podesta;
          inanti, prenni e tagliami la testa".
          "Le Vangel[ï]e, carama? - ch'io le porto in sino!
          A lo mostero presile, - non ci era lo patrino.
          Sovr'esto libro iuroti - mai non ti vegno mino.
          Arcompli mì talento in caritate,
          che l'arma me ne sta in sut[t]ilitate".
          "Meo sire, poi iurastimi, - eo tut[t]a quanta incenno;
          sono a la tua presenz[ï]a, - da voi non mi difenno.
          S'eo minespriso ajoti, - merzè, a voi m'arenno.
          A lo letto ne gimo a la bon'ura,
          ché chissà cosa n'è data in ventura".
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Avanti! Avanti!

            I
            Avanti, avanti, o sauro destrier de la canzone!
            L'aspra tua chioma porgimi, ch'io salti anche in arcione
            Indomito destrier.
            A noi la polve e l'ansia del corso, e i rotti venti,
            E il lampo de le selici percosse, e de i torrenti
            L'urlo solingo e fier.
            I bei ginnetti italici han pettinati crini,
            Le constellate e morbide aiuole dè giardini
            Sono il lor dolce agon:
            Ivi essi caracollano in faccia a i loro amori,
            La giuba a tempo fluttua vaga tra i nastri e i fiori
            De le fanfare al suon;
            E, se lungi la polvere scorgon del nostro corso,
            Il picciol collo inarcano e masticando il morso
            Par che rignino - Ohibò! -
            Ma l'alfana che strascica su l'orlo de la via
            Sotto gualdrappe e cingoli la lunga anatomia
            D'un corpo che invecchiò,
            Ripensando gli scalpiti dè corteggi e le stalle
            Dè tepid'ozi e l'adipe de la pasciuta valle,
            Guarda con muto orror.
            E noi corriamo à torridi soli, à cieli stellati,
            Per note plaghe e incognite, quai cavalier fatati,
            Dietro un velato amor.
            Avanti, avanti, o sauro destrier, mio forte amico!
            Non vedi tu le parie forme del tempo antico
            Accennarne colà ?
            Non vedi tu d'Angelica ridente, o amico, il velo
            Solcar come una candida nube l'estremo cielo?
            Oh gloria, oh libertà!

            II
            Ahi, dà prim'anni, o gloria, nascosi del mio cuore
            Nè superbi silenzii il tuo superbo amore.
            Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor
            Mi sfolgorar dà gelidi marmi nel petto un raggio,
            Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio
            E i lampi dè bianchi omeri sotto le chiome d'òr.
            E tutto ciò che facile allor prometton gli anni
            Io 'l diedi per un impeto lacrimoso d'affanni,
            Per un amplesso aereo in faccia a l'avvenir.
            O immane statua bronzea su dirupato monte,
            Solo i grandi t'aggiungono, per declinar la fronte
            Fredda su 'l tuo fredd'omero e lassi ivi morir.
            A più frequente palpito di umani odii e d'amori
            Meglio il petto m'accesero nè lor severi ardori
            Ultime dee superstiti giustizia e libertà;
            E uscir credeami italico vate a la nuova etade,
            Le cui strofe al ciel vibrano come rugghianti spade,
            E il canto, ala d'incendio, divora i boschi e va.
            Ahi, lieve i duri muscoli sfiora la rima alata!
            Co 'l tuon de l'arma ferrea nel destro pugno arcata,
            Gentil leopardo lanciasi Camillo Demulèn,
            E cade la Bastiglia. Solo Danton dislaccia,
            Per rivelarti à popoli, con le taurine braccia,
            repubblica vergine, l'amazonio tuo sen.
            A noi le pugne inutili. Tu cadevi, o Mameli,
            Con la pupilla cerula fisa a gli aperti cieli
            Tra un inno e una battaglia cadevi; e come un fior
            Ti rideva da l'anima la fede allor che il bello
            E biondo capo languido chinavi, e te, fratello,
            Copria l'ombra siderea di Roma e i tre color;
            Ed al fuggir de l'anima su la pallida faccia
            Protendea la repubblica santa le aperte braccia
            Diritta in fra i romulei colli e l'occiduo sol.
            Ma io d'intorno premere veggo schiavi e tiranni,
            Ma io su 'l capo stridere m'odo fuggenti gli anni
            —Che mai canta, susurrano, costui torbido e sol?
            Ei canta e culla i queruli mostri de la sua mente,
            E quel che vive e s'agita nel mondo egli non sente.—
            O popolo d'Italia, vita del mio pensier,
            O popolo d'Italia, vecchio titano ignavo,
            Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo;
            E dè miei versi funebri t'incoroni il bicchier.

            III
            Avanti, avanti, o indomito destrier de gl'inni alato !
            Obliar vò nel rapido corso l'inerte fato,
            I gravi e oscuri dí.
            Ricordi tu, bel sauro, quando al tuo primo salto
            I falchi salutarono augurando ne l'alto
            E il bufolo muggí?
            Ricordi tu le vedove piagge del mar toscano,
            Ove china su 'l nubilo inseminato piano
            La torre feudal
            Con lunga ombra di tedio da i colli arsicci e foschi
            Veglia de le rasenie cittadi in mezzo à boschi
            Il sonno sepolcral,
            Mentre tormenta languido sirocco gli assetati
            Caprifichi che ondeggiano su i gran massi quadrati
            Verdi tra il cielo e il mar,
            Su i gran massi cui vigile il mercator tirreno
            Saliva, le fenicie rosse vele nel seno
            Azzurro ad aspettar?
            Ricordi Populonia, e Roselle, e la fiera
            Torre di Donoratico a la cui porta nera
            Conte Ugolin bussò
            Con lo scudo e con l'aquile a la Meloria infrante,
            Il grand'elmo togliendosi da la fronte che Dante
            Ne l'inferno ammirò?
            Or (dolce a la memoria) una quercia su 'l ponte
            Levatoio verdeggia e bisbiglia, e del conte
            Novella il cacciator
            Quando al purpureo vespero su la bertesca infida
            I falchetti famelici empiono il ciel di strida
            E il can guarda al clamor.
            Là tu crescesti, o sauro destrier de gl'inni, meco;
            E la pietra pelasgica ed il tirreno speco
            Furo il mio solo altar
            E con me nel silenzio meridian fulgente
            I lucumoni e gli àuguri de la mia prima gente
            Veniano a conversar.
            E tu pascevi, o alivolo corridore, la biada
            Che nè solchi de i secoli aperti con la spada
            Del console roman
            Dante, etrusco pontefice redivivo, gettava;
            Onde al cielo il tuo florido terzo maggio esultava,
            Comune italian,
            Tra le germane faide e i salmi nazareni
            Esultava nel libero lavoro e ne i sereni
            Canti dè mietitor.
            Chi di quell'orzo il pascesi, o nobile corsiero,
            Ha forti nervi e muscoli, ha gentile ed intero
            Nel sano petto il cor.
            Dammi or dunque, apollinea fiera, l'alato dorso:
            Ecco, tutte le redini io ti libero al corso:
            Corriam, fiera gentil.
            Corriam de gli avversarii sovra le teste e i petti,
            Dè mostri il sangue imporpori i tuoi ferrei garetti;
            E a noi rida l'april,
            L'april dè colli italici vaghi di mèssi e fiori,
            L'april santo de l'anima piena di nuovi amori,
            L'aprile del pensier.
            Voliam, sin che la folgore di Giove tra la rotta
            Nube ci arda e purifichi, o che il torrente inghiotta
            Cavallo e cavalier,
            O ch'io discenda placido dal tuo stellante arcione,
            Con l'occhio ancora gravido di luce e visione,
            Su 'l toscano mio suol,
            Ed al fraterno tumolo posi da la fatica,
            Gustando tu il trifoglio da una bell'urna antica
            Verso il morente sol.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Tali sono gli uomini che l'onda del mare sonante

              Nessuno dei cittadini, Pericle, biasimando
              i lutti dolorosi, gioirà con banchetti, e neppure la città.
              Tali sono gli uomini che l'onda del mare sonante
              sommerse; e gonfio di pianto è il cuore
              per la pena. Ma ai mali irrimediabili gli dèi,
              o amico, diedero la virile sopportazione
              come rimedio: ora uno, ora un altro ha questa sorte;
              su di noi adesso si è volta, e piangiamo la ferita che sanguina.
              Poi, di nuovo, toccherà ad altri. Ma presto, via,
              allontanate il lutto femmineo, e sopportate.
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