Come saliva che scompare in bocche assetate così il tuo silenzio inghiotte il mio cuore amore di un tempo nell'odio di oggi
Vedo i tuoi passi riflessi dileguarsi sulla lastra di pioggia in quest'autunno che sembra la sala d'attesa di un mattatoio e le foglie rosse macchie di sangue nei disegni del vento
Distante dalle cose che ho amato coi coltelli degli anni alle spalle mi sento solo mentre disertano i più duri pensieri
Strappo la tua foto dagli occhi e irriducibile il disprezzo lancia uno sputo che si perde nell'acqua
Mi dico si è suicidato anche l'odio povero me sono solo sul banchetto degli anni addobbato coi fiori del male nell'ultima cena.
Sia nel respiro di tutti il sogno che attraversa confine non visto. Passi che ancora non cancellano deserti e ancora qui non lasciano visibili tracce ma che ci fanno espandere memorie e donano capacità di percorrere il tempo. Per ogni pensiero nel silenzio sia del cuore l'avvertito soffio a regalare ali a quel tempo ora fuggito al presente e al futuro non conosciuto.
Saluterò di nuovo il sole E quella corrente che in me fluiva e le nubi come i miei lunghi pensieri e la crescita dolorosa dei pioppi nel giardino che vivevano con me aride stagioni e gli stormi dei corvi che la notte mi portavano in dono il profumo dei campi notturni e mia madre, vissuta in uno specchio, immagine della mia vecchiaia e la terra che il desiderio di ripetermi riempiva il suo ventre caldo di verdi semi, saluterò di nuovo
Vengo, vengo con la continuità degli odori sotterranei nei capelli con le dense esperienze dell'oscurità negli occhi con i cespugli di bosco colti oltre il muro
Vengo, vengo e la soglia si riempie d'amore e io, sulla soglia saluterò di nuovo coloro che amano e la ragazza che ancora sta là, sulla soglia ricolma d'amore.
È un tocco gentile, una carezza calda e leggera, che conosce i miei segreti e le mie debolezze, percorrendo le sue strade apre le mie con un soffio leggero, mi turba e mi schiude conoscendo i percorsi, si ferma, mi aspetta, mi segue silenziosa, sento il suo sguardo che mi colora la pelle, mi disegna e mi modella il respiro, mi sfiora e scompare perché io corra a cercarla, guardo in alto e mi è fra le gambe, allungo la mano e lei vola via, la chiamo e lei canta, mi arrabbio e sorride, sorrido anch'io per la sua impertinenza, della mia debolezza.
"Rosa fresca aulentis[s]ima, - c'apari inver la state le donne ti disïano - pulzell'e maritate; tra[ji]mi de ste focora - se t'este a bolontate; per te non aio abento notte e dia, penzando pur di voi, madonna mia". "Se di mevi trabagliti, - follia lo ti fa fare, lo mar potresti arompere, - avanti, a semenare, l'abere de sto secolo - tut[t]o quanto asembrare, avereme non poteri a esto monno, avanti li cavelli m'aritonno". "Se li cavelli arton[n]iti, - avanti foss'io morto, [donna], c'aisì mi perdera - lo sol[l]acc[i]o e 'l diporto. Quando ci passo e veioti, - rosa fresca de l'orto, bono conforto donimi tut[t]ore: poniamo che s'aiunga il nostro amore". "Che 'l nostro amore aiungasi - non boglio m'atalenti. Se ci ti trova paremo - co gli altri miei parenti! Guarda non s'ar[i]colgano - questi forti cor[r]enti! Como ti seppe bona la venuta, consiglio che ti guardi a la partuta". "Se i tuoi parenti trova[n]mi, - e che mi pozon fari? Una difensa met[t]oci - di dumilì agostari: non mi toc[c]àra pàdreto - per quanto avere ambari. Viva lo 'mperadore graz[i]' a Deo ! Intendi, bella, che ti dico eo? " "Tu me no lasci vivere - nè sera, nè maitino. Donna mi son di perperi - d'auro massamotino. Se tanto aver donassemi - quanto à lo Saladino e per aiunta quant'à lo Soldano toc[c]areme non poteri a la mano". "Molte sono le fem[m]ine - c'ànno dura la testa, e l'omo con parabole - l'adimina e amonesta, tanto intorno procaz[z]ale - fin che l'à in sua podesta. Fem[m]ina d'omo non si può tenere: guardati, bella, pur de ripentere". "Ch'eo ne [ri]pentesseme? - Davanti foss'io aucisa! Ca nulla bona fem[m]ina - per me fosse riprisa. [A]ersera passastici - cor[r]enno a la distisa. Aquetiti, riposa, canzoneri, tue parabole a me non pìa[c]ion gueri". "Quante sono le schiantora - che m'à[i] mis'a lo core! E solo purpenzannome - la dia quanno vo fore, fem[m]ina de sto secolo - tanto no amai ancore quant'amo teve, rosa invidïata. Ben credo che mi fosti distinata". "Se distinata fosseti, - caderia de l'alteze, ché male messe forano - in teve mie belleze. Se tut[t]o adivenissemi, tagliarami le treze e consore m'arenno a una magione avanti che m'artoc[c]hi 'n la persone". "Se tu consore arenneti, - donna col viso cleri, a lo mostero venoci - e rennomi confleri: per tanta prova vencerti - faralo volonteri. Con teco stao la sera e lo maitino; besogn'è ch'io ti tegna al meo dimino". "Boimé, tapina misera, - com'ao reo distinato! Gieso Cristo l'altissimo - del tut[t]o m'è airato: concepistimi a abattere - in omo blestiemato. Cerca la terra ch'este gran[n]e assai, chiù bella donna di me troverai". Cercat'aio Calabr[ï]a, - Toscana e Lombardia, Puglia, Costantinopoli, - Genova, Pisa e Soria, Lamagna e Babilonïa - [e] tut[t]a Barberia: donna non [ci] trovai tanto cortese, per che sovrana di meve te p[r]ese". "Poi tanto trabagliasti[ti], - fac[c]ioti meo pregheri che tu vadi adoman[n]imi - a mia mare e a mon peri. Se dare mi ti degnano, - menami a lo mosteri e sposami davanti da la jenti; e poi farò li tuò comannamenti". "Di cio che dici, vitama, - neiente non ti bale, ca de le tuo parabole - fatto n'ò ponti e scale. Penne penzasti met[t]ere, - sonti cadute l'ale, e dato t'aio la botta sot[t]ana; dunque, se po[t]i, teniti, villana". "En paura non met[t]ermi - di nullo manganiello: istomi 'n esta grorïa - de sto forte castiello; prezo le tuo parabole - meno che d'un zitello. Se tu no levi e vàtine di quaci, se tu ci fosse morto, ben mi chiaci". Dunque vor[r]esti, vitama, - ca per te fosse strutto? Se morto essere deboci - od intagliato tut[t]o, di quaci non mi mosera - se no ai[o] de lo frutto, lo quale staci ne lo tuo jardino: disïolo la sera e lo matino". "Di quello frutto no ab[b]ero - conti, nè cabalieri; molto lo disïa[ro]no - marchesi e justizieri, avere no nde pottero - gironde molto feri. Intendi bene ciò che bol[e] dire? Men'este di mill'onze lo tuo abire". Molti son li garofani, - ma non che salma nd'ài; bella, non dispregiaremi - s'avanti non m'assai. Se vento in proda girasi - e giungeti a le prai, a rimembrare t'ao ste parole, ca de[n]tra sta animella assai mi dole! " "Macari se doles[s]eti - che cadesse angosciato! La gente ci cor[r]es[s]oro - da traverso e da lato, tut[t]'a meve dicessono - "ac[c]or[r]i a sto malnato! " non ti degnara porgere la mano per quanto avere à 'l Papa e lo Soldano". "Deo lo volesse, vitama, - te fosse morto in casa! L'arma n'anderia consola, - ca dì e notte pantasa. La jente ti chiamarano: - "Oi periura malvasa, c'à[i] morto l'omo in casata, traita! " Sanz'onni colpa levimi la vita". "Se tu no levi e vatine - co la maladizione, li frati miei ti trovano - dentro chissa magione [ .. ] ben lo mi sofero - perdici la persone; c'a meve sè venuto a sormonare, parente o amico non t'ave aitare". "A meve non aitano - amici, nè parenti; istrani[u] mi son, carama, - enfra esta bona jenti. Or fa un anno, vitama, - che 'ntrata mi sè '[n] menti; di canno ti vestisti lo maiuto, bella, da quello jorno son feruto". "Ai, tando 'namorastiti, - [oi] Iuda lo traito? Como se fosse porpore, - iscarlat[t]o o sciamito! S'a le Va[n]gele iurimi - che mi sia a marito, avereme non poter'a sto monno, avanti in mare [j]it[t]omi al perfonno". "Se tu nel mare git[t]iti, - donna cortese e fina, dereto mi ti misera - per tut[t]a la marina, [ e, da ] poi ca 'n[n]egas[t]eti, - trobareti a la rina, solo per questa cosa ad impretare: con teco m'aio agiungere a pec[c]are". "Segnomi in Patre e 'n Filio - ed i[n] Santo Mat[t]eo! So ca non sè tu retico - [o] figlio di giudeo, e cotale parabole - non udì' dire anch'eo! Morta si [è] la fem[m]ina a lo 'ntutto, perdeci lo saboro e lo disdutto". "Bene lo saccio, carama: - altro non poz[z]o fare. Se quisso non arcomplimi, - lassone lo cantare. Fallo, mia donna, plaz[z]ati, - che bene lo puoi fare. Ancora tu no m'ami, molto t'amo sì m'ài preso come lo pesce a l'amo". "Saz[z]o che m'ami, [e] amoti - di core paladino. Levati suso e vat[t]ene, - tornaci a lo matino. Se ciò che dico facemi, - di bon cor t'amo e fino: [eo] quisso ti 'mprometto sanza faglia, tè la mia fede che m'ài in tua baglia". "Per zo che dici, carama, - neiente non mi movo; inanti prenni e scannami, - tolli esto cortel novo. Sto fatto fare potesi - inanti scalfi un uovo. Arcompli mì talento, [a]mica be]la, che l'arma co lo core mi si 'nfella". "Ben saz[z]o l'arma doleti - com'omo c'ave arsura. Sto fatto [far] non potesi - per null'altra misura se non a le Vangel[ï]e - che mo ti dico iura, avereme non puoi in tua podesta; inanti, prenni e tagliami la testa". "Le Vangel[ï]e, carama? - ch'io le porto in sino! A lo mostero presile, - non ci era lo patrino. Sovr'esto libro iuroti - mai non ti vegno mino. Arcompli mì talento in caritate, che l'arma me ne sta in sut[t]ilitate". "Meo sire, poi iurastimi, - eo tut[t]a quanta incenno; sono a la tua presenz[ï]a, - da voi non mi difenno. S'eo minespriso ajoti, - merzè, a voi m'arenno. A lo letto ne gimo a la bon'ura, ché chissà cosa n'è data in ventura".
Sulla sua tomba un grappolo nutrito non ha quel vecchio, ma soltanto un rovo ed un pero selvatico che stringe le labbra dei viandanti e inaridisce la gola per la sete. Tuttavia, se qualcuno si reca alla sua tomba, preghi per Ipponatte perché dorma e perché sia gentile finalmente.
I Avanti, avanti, o sauro destrier de la canzone! L'aspra tua chioma porgimi, ch'io salti anche in arcione Indomito destrier. A noi la polve e l'ansia del corso, e i rotti venti, E il lampo de le selici percosse, e de i torrenti L'urlo solingo e fier. I bei ginnetti italici han pettinati crini, Le constellate e morbide aiuole dè giardini Sono il lor dolce agon: Ivi essi caracollano in faccia a i loro amori, La giuba a tempo fluttua vaga tra i nastri e i fiori De le fanfare al suon; E, se lungi la polvere scorgon del nostro corso, Il picciol collo inarcano e masticando il morso Par che rignino - Ohibò! - Ma l'alfana che strascica su l'orlo de la via Sotto gualdrappe e cingoli la lunga anatomia D'un corpo che invecchiò, Ripensando gli scalpiti dè corteggi e le stalle Dè tepid'ozi e l'adipe de la pasciuta valle, Guarda con muto orror. E noi corriamo à torridi soli, à cieli stellati, Per note plaghe e incognite, quai cavalier fatati, Dietro un velato amor. Avanti, avanti, o sauro destrier, mio forte amico! Non vedi tu le parie forme del tempo antico Accennarne colà ? Non vedi tu d'Angelica ridente, o amico, il velo Solcar come una candida nube l'estremo cielo? Oh gloria, oh libertà!
II Ahi, dà prim'anni, o gloria, nascosi del mio cuore Nè superbi silenzii il tuo superbo amore. Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor Mi sfolgorar dà gelidi marmi nel petto un raggio, Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio E i lampi dè bianchi omeri sotto le chiome d'òr. E tutto ciò che facile allor prometton gli anni Io 'l diedi per un impeto lacrimoso d'affanni, Per un amplesso aereo in faccia a l'avvenir. O immane statua bronzea su dirupato monte, Solo i grandi t'aggiungono, per declinar la fronte Fredda su 'l tuo fredd'omero e lassi ivi morir. A più frequente palpito di umani odii e d'amori Meglio il petto m'accesero nè lor severi ardori Ultime dee superstiti giustizia e libertà; E uscir credeami italico vate a la nuova etade, Le cui strofe al ciel vibrano come rugghianti spade, E il canto, ala d'incendio, divora i boschi e va. Ahi, lieve i duri muscoli sfiora la rima alata! Co 'l tuon de l'arma ferrea nel destro pugno arcata, Gentil leopardo lanciasi Camillo Demulèn, E cade la Bastiglia. Solo Danton dislaccia, Per rivelarti à popoli, con le taurine braccia, repubblica vergine, l'amazonio tuo sen. A noi le pugne inutili. Tu cadevi, o Mameli, Con la pupilla cerula fisa a gli aperti cieli Tra un inno e una battaglia cadevi; e come un fior Ti rideva da l'anima la fede allor che il bello E biondo capo languido chinavi, e te, fratello, Copria l'ombra siderea di Roma e i tre color; Ed al fuggir de l'anima su la pallida faccia Protendea la repubblica santa le aperte braccia Diritta in fra i romulei colli e l'occiduo sol. Ma io d'intorno premere veggo schiavi e tiranni, Ma io su 'l capo stridere m'odo fuggenti gli anni —Che mai canta, susurrano, costui torbido e sol? Ei canta e culla i queruli mostri de la sua mente, E quel che vive e s'agita nel mondo egli non sente.— O popolo d'Italia, vita del mio pensier, O popolo d'Italia, vecchio titano ignavo, Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo; E dè miei versi funebri t'incoroni il bicchier.
III Avanti, avanti, o indomito destrier de gl'inni alato ! Obliar vò nel rapido corso l'inerte fato, I gravi e oscuri dí. Ricordi tu, bel sauro, quando al tuo primo salto I falchi salutarono augurando ne l'alto E il bufolo muggí? Ricordi tu le vedove piagge del mar toscano, Ove china su 'l nubilo inseminato piano La torre feudal Con lunga ombra di tedio da i colli arsicci e foschi Veglia de le rasenie cittadi in mezzo à boschi Il sonno sepolcral, Mentre tormenta languido sirocco gli assetati Caprifichi che ondeggiano su i gran massi quadrati Verdi tra il cielo e il mar, Su i gran massi cui vigile il mercator tirreno Saliva, le fenicie rosse vele nel seno Azzurro ad aspettar? Ricordi Populonia, e Roselle, e la fiera Torre di Donoratico a la cui porta nera Conte Ugolin bussò Con lo scudo e con l'aquile a la Meloria infrante, Il grand'elmo togliendosi da la fronte che Dante Ne l'inferno ammirò? Or (dolce a la memoria) una quercia su 'l ponte Levatoio verdeggia e bisbiglia, e del conte Novella il cacciator Quando al purpureo vespero su la bertesca infida I falchetti famelici empiono il ciel di strida E il can guarda al clamor. Là tu crescesti, o sauro destrier de gl'inni, meco; E la pietra pelasgica ed il tirreno speco Furo il mio solo altar E con me nel silenzio meridian fulgente I lucumoni e gli àuguri de la mia prima gente Veniano a conversar. E tu pascevi, o alivolo corridore, la biada Che nè solchi de i secoli aperti con la spada Del console roman Dante, etrusco pontefice redivivo, gettava; Onde al cielo il tuo florido terzo maggio esultava, Comune italian, Tra le germane faide e i salmi nazareni Esultava nel libero lavoro e ne i sereni Canti dè mietitor. Chi di quell'orzo il pascesi, o nobile corsiero, Ha forti nervi e muscoli, ha gentile ed intero Nel sano petto il cor. Dammi or dunque, apollinea fiera, l'alato dorso: Ecco, tutte le redini io ti libero al corso: Corriam, fiera gentil. Corriam de gli avversarii sovra le teste e i petti, Dè mostri il sangue imporpori i tuoi ferrei garetti; E a noi rida l'april, L'april dè colli italici vaghi di mèssi e fiori, L'april santo de l'anima piena di nuovi amori, L'aprile del pensier. Voliam, sin che la folgore di Giove tra la rotta Nube ci arda e purifichi, o che il torrente inghiotta Cavallo e cavalier, O ch'io discenda placido dal tuo stellante arcione, Con l'occhio ancora gravido di luce e visione, Su 'l toscano mio suol, Ed al fraterno tumolo posi da la fatica, Gustando tu il trifoglio da una bell'urna antica Verso il morente sol.
Nessuno dei cittadini, Pericle, biasimando i lutti dolorosi, gioirà con banchetti, e neppure la città. Tali sono gli uomini che l'onda del mare sonante sommerse; e gonfio di pianto è il cuore per la pena. Ma ai mali irrimediabili gli dèi, o amico, diedero la virile sopportazione come rimedio: ora uno, ora un altro ha questa sorte; su di noi adesso si è volta, e piangiamo la ferita che sanguina. Poi, di nuovo, toccherà ad altri. Ma presto, via, allontanate il lutto femmineo, e sopportate.
Cume se fa a parlà de la belessa? La furma che sa dís al fiâ del cör? La vardi e, nel murí, la mia parola la dís dumâ del poch restâ nel mör.
Come si fa a parlare della bellezza? La forma che sa dire al fiato del cuore? La guardo e, nel morire, la mia parola dice soltanto del poco rimasto nel morire.