Poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz
Musicians wrestle everywhere -
All day - among the crowded air
I hear the silver strife -
And - waking - long before the morn -
Such transport breaks upon the town
I think it that "New life"!
It is not Bird - it has no nest -
Nor "Band" - in brass and scarlet - drest -
Nor Tamborin - nor Man -
It is not Hymn from pulpit read -
The "Morning Stars" the Treble led
On Time's first afternoon!

Some - say - it is "the Spheres" - at play!
Some say - that bright Majority
Of vanished Dames - and Men!
Some - think it service in the place
Where we - with late - celestial face -
Please God - shall ascertain.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    La ballata dell'Uno

    L'Uno è tutto esaurito,
    non lo trova più nessuno,
    a chi dà copia dell'Uno
    un milione è profferito.

    Col più gran caffè concerto
    vien Giolitti un poco male
    per un male un poco incerto,
    vien con tutto il personale
    del Suffragio Universale.
    Ma - pagliaccio o rosso o bruno -
    tutti chiedono dell'Uno,
    l'Uno già tutto esaurito.

    Finalmente il Vaticano
    lascia il Papa ed il Concilio,
    balla il tango col sovrano
    dal garofano vermiglio.
    Tutti vanno in visibilio:
    il prelato col tribuno,
    tutti chiedono dell'Uno:
    l'Uno - ahimè - tutto esaurito!

    Trema all'Uno e terra e mare!
    La San Giorgio per isbaglio
    si rimette a galleggiare,
    perciò grato l'ammiraglio
    contro un già prossimo incaglio
    contro i tiri di Nettuno
    premunirsi vuol dell'Uno,
    l'Uno - ohimè - tutto esaurito!

    Stanco d'essere il fantoccio
    d'un insipido frasario
    grida Verdi: Alfin mi scoccio
    di cotesto centenario.
    Qui m'annoio solitario.
    Ecco il Numero. Ma l'Uno?
    L'Uno - ohimè - non l'ha nessuno,
    l'Uno è già tutto esaurito!

    Levigandosi l'alloro
    Gabriele inquieto appare:
    un mistero: il Pomo d'oro
    ben volevo ricercare
    sul rarissimo esemplare.
    Gabriele andrà digiuno;
    splende il numero, ma l'Uno,
    l'Uno è già tutto esaurito.

    Vien Mascagni truce in vista
    ché su l'Uno spera già
    e già teme un'intervista
    "Poiché io sono - ognun lo sa -
    mammoletta d'umiltà... "
    - Che voi siate un fiore o un pruno,
    gran maestro, fa tutt'uno,
    l'Uno è già tutto esaurito.

    Térésah, Carola, Amalia,
    l'altre insigni letterate,
    che oggi infiammano l'Italia,
    si presentano infiammate
    come tante forsennate:
    un prurito inopportuno
    tutte sentono dell'Uno,
    l'Uno - ohimè - tutto esaurito.

    Non resiste la Gioconda,
    balla fuori arguta e gaia
    con la sua facciona tonda
    di perfetta giornalaia.
    Cento quindici migliaia
    mi richiedono dell'Uno!
    A chi dà copia dell'Uno
    un milione è profferito.

    Oh successo inopportuno!
    L'Uno è già tutto esaurito!
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      Ah! Difettivi sillogismi! L'io
      che c'è sì caro, muore ad ogni istante
      senza rimpianto. Muore nel riposo
      e nella veglia. Un calice di vino
      un grano d'oppio, uno sbigottimento
      una ferita, basta a dileguarlo.
      Ma ci acqueta il pensiero che al risveglio
      ritroveremo intatto e vigilante
      il buono fanciulletto interïore
      che ci ripete d'esser sempre noi...
      Ah! Fanciullesca è veramente questa
      anima semplicetta che riduce
      alla nostra stadera l'infinito;
      nutre speranze, chiede privilegi
      più spaventosi del più spaventoso
      nulla, ché il nulla è non poter morire.
      Come pensare senz'abbrividire
      tutta l'eternità chiusa nell'io
      in quest'angusto carcere terreno?
      Quasi bramosi fantolini e vani
      preghiamo un bene e non sappiamo quale.
      Quando per anni o per follia s'offusca
      l'altrui cervello, quella decadenza
      più non c'inquieta della decadenza
      corporea. Permane la speranza
      che l'io del caro sopravviva ancora
      mentre è già come se non fosse più.
      Ora se quasi ci si acqueta in vita
      allo sfacelo della mente immemore
      che mai vogliamo dalla morte immune?
      Questa cosa di noi che vuol persistere
      indefinita, è dunque indefinibile
      come il raggio ch'emana dalla lampada,
      come il suono che emana dal lïuto;
      lampada e lïuto sono tra gli arredi
      più famigliari e semplici che posso
      scomporre ricomporre con le mani;
      il mistero m'appare se mi chiedo
      che sia, di dove venga, dove vada
      il prodigio del suono e della luce...
      Oimè! L'essenza che rivibra in noi
      non può per intelletto esser compresa
      da poi che l'io solo con se stesso,
      soggetto, oggetto della conoscenza,
      come uno specchio vano si moltiplica
      inutilmente ed infinitamente
      e nel riflesso è prigioniero il raggio
      di verità che l'occhio non discerne.
      Giova quindi sottrarci all'incantesimo
      alla voce che implora di rivivere
      come a un morbo insanabile terrestre.
      Negli attimi di grazia, quando l'io
      dilegua nei pensier contemplativi
      quando l'istinto tace e si compiace
      nella gioia dell'utile non nostro
      o freme ad una strofe ad una musica
      nell'ebrezza senz'utile dell'arte,
      forse ci giunge il pallido riflesso
      d'una luce remota, della vita
      che ci attende al di là, nel puro spirito,
      nel non essere noi, nell'ineffabile.
      È la fede che Socrate morente
      predicava all'alunno: «Datti pace!
      Non morirò: seppelliranno l'altro».
      È la luce che Baghava Purana
      rivelava sul tronco del palmizio:
      «Solo eterno è lo spirito. Non piangere
      su te su me su altri. Perché l'io
      ed il non io son frutto d'ignoranza.
      Desideravi un figlio, o Re; l'avesti;
      oggi provi lo strazio del distacco,
      strazio che dànno tutte le fortune
      a chi s'illude e pensa durature
      l'apparenze caduche della vita.
      Solo eterno è lo spirito. Nei tempi
      chi fu per te quel figlio che tu piangi?
      Chi tu fosti per lui? Che voi sarete
      l'uno per l'altro nell'ignoto andare?
      Sabbia del mare, foglie date al vento...
      Solo eterno è lo spirito. Consolati».
      Ma il re singhiozza disperato ancora
      e pel prodigio d'uno di quei rishy
      l'anima si ridesta nel cadavere,
      si guarda intorno sbigottita, dice:
      «In quale delle innumeri apparenze
      d'animali, di uomini, di devhas
      m'ebbi per padre questo che m'abbraccia?
      Non mi toccare: io non ti riconosco.
      O tu che piangi su di me non piangere.
      Solo eterno è lo spirito. Consolati!».
      Così parlato il giovinetto muore
      un'altra volta. L'anima s'invola
      eternamente. E il Re non piange più.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        Fanciullo formidabile: soldato
        dell'Alpi e tu mi chiedi
        ch'io celebri il tuo gesto in versi miei!
        Non trovo ritmi - oimè! - non trovo rime
        così come vorrei
        al tuo gesto sublime!
        Ma sai tu quanto sia bello il tuo gesto,
        simbolica la spoglia
        dell'aquila regale che t'offerse
        l'Altissimo - redento! - a guiderdone
        della baldanza tua liberatrice?
        La vittima che dice:
        Terra d'Italia è questa!
        a consenso palese
        dei cieli sommi nella santa gesta?

        II.

        Tu non sapevi. Solo con te stesso
        e coi fratelli in una forza sola,
        sostavi sulla gola
        vertiginosa, l'anima in vedetta,
        protetto dalla vetta
        signoreggiata. Il cuore
        batteva impaziente dell'assalto.
        Il cielo era di smalto
        cerulo, nel silenzio intatto come
        quando non era l'uomo ed il dolore...
        Era il meriggio alpino,
        splendeva il sole nella valle sgombra.
        In larghe rote s'annunciò dall'alto
        l'olocausto divino,
        la messaggiera, disegnando un'ombra.

        III.

        Che pensasti nell'attimo? Colpisti.
        Bene colpisti. Il vortice dell'ale
        precipitò ventandoti sul viso.
        E l'aquila regale
        ecco immolasti sul granito alpino
        come sull'ara sacra alla riscossa
        del popolo latino.
        E la tua mano rossa
        fu del sangue ricchissimo aquilino.
        Battezzasti così la tua mano,
        nella stretta che tutti ebbero a gara,
        commentando l'augurio e la bravura,
        battezzasti così con la tua mano
        tutti i compagni tuoi,
        dal giovinetto imberbe al capitano!

        IV.

        Sarcasmo inconsapevole! E tu mandi
        oggi la spoglia a noi che con bell'arte
        le si ridoni immagine di vita;
        ma quale arte iscaltrita
        può simulare l'irto palpitare
        di penne e piume, il demone gagliardo
        tutto rostro ed artigli e grido e sguardo
        nell'ora che si scaglia?
        Nessuna sorte è triste
        in questi giorni rossi di battaglia:
        fuorché la sorte di colui che assiste...
        E - sarcasmo indicibile per noi
        scelti ai congegni ed alla vettovaglia -
        tu strappasti l'emblema degli eroi
        ed a noi mandi un'aquila di paglia!...
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Risveglio sul Picco d'Adamo

          Cantare udivo un gallo in sogno... Sognavo un villaggio
          canavesano forse... L'aurora improvvisa mi desta.

          Mi desta nel rifugio di stuoia sul Picco selvaggio:
          d'un tremolìo d'acquario scintilla la selva ridesta.

          Le felci arborescenti contendono i raggi all'aurora,
          dall'uno all'altro fusto s'allaccia la flora demente,

          spezzo ghirlande azzurre gialle sanguigne, m'irrora
          la coppa del calladio, l'orciuolo della nepente...

          Cantava un gallo in sogno... Ma un gallo ben vivo risponde.
          Sobbalzo. Ascolto. Il cuore col battito colma le tregue.

          Regna il Re dei cortili le vergini selve profonde?
          M'illude un negromante per gioco? Il mio sogno prosegue?

          Non il Re dei cortili qui regna, ma l'avo selvaggio
          (già cantava sul Picco d'Adamo che Adamo non era).

          Canta il «gallo bankywa» l'aurora del Tropico, il raggio
          d'oro che scende obliquo dove la jungla è più nera.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Dante

            Un giorno, al chiuso, il pedagogo fiacco
            m'impose la sciattezza del comento
            alternato alla presa di tabacco.

            Mi rammento la classe, mi rammento
            la scolaresca muta che si tedia
            al commentare lento sonnolento;

            rivedo sobbalzare sulla sedia
            il buon maestro, per uno scolaro
            che s'addormenta su di te, Comedia!

            Attento! Attento! - Ah! più dolce sognare
            con la gota premuta al frontispizio
            e l'occhio intento alle finestre chiare!

            Ad ora ad ora un alito propizio
            alitava un effluvio di ginestre
            sul comento retorico e fittizio.

            La Primavera, l'esule campestre,
            conturbava la gran pace scolastica
            pel vano azzurro delle due finestre.

            Io fissavo gli attrezzi di ginnastica,
            gli olmi gemmati, l'infinito azzurro
            in non so che perplessità fantastica;

            e tendevo l'orecchio ad un sussurro,
            ad un garrito di sperdute gaie,
            in alto in alto in alto, nell'azzurro.

            Guizzavano, da presso, l'operaie
            affacendate in paglia in creta in piume,
            riattando le case alle grondaie...

            Con gli occhi abbarbagliati da quel lume
            primaverile, mi chinavo stracco,
            ripremevo la gota sul volume.

            E riudivo il pedagogo fiacco
            alternare alla chiosa d'ogni verso
            la consueta presa di tabacco...

            Ah! non al chiuso, ma nel cielo terso,
            nel fiato novo dell'antica madre,
            nella profondità dell'universo,

            nell'Infinito mi parlavi, o Padre!
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              «Ex voto»

              S'alza la neve in pace;
              la valle che s'imbianca
              spicca sul cielo bruno.

              Il Santuario tace
              nella gran pace bianca
              dove non c'è nessuno.

              Nessuno per guarire
              del male che lo strazia
              più giunge di lontano...

              Sol io potrei salire,
              salire per la grazia:
              mi rifarebbe sano...

              Ma non vedrò la faccia
              nera e la mitra aguzza...
              Troppo ai bei dì sereni,

              avvinto a quelle braccia
              baciai la medagliuzza
              tepente tra i due seni...
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                La statua e il ragno crociato

                Io so il mistero di colei che abbassa
                l'antiche ciglia in vigilanza estrema,
                quasi, nel marmo trepidando, tema
                d'aggrovigliare un'esile matassa.

                Io so. Guardate contro il sole: passa
                dall'una all'altra mano e splende e trema
                il filo che un'epeira diadema
                conduce senza spola e senza cassa.

                Aracne fu pietosa. E chi non mai
                più rivedrà la terra sacra abbassa
                le ciglia illuse e vede il mare Egeo,

                vede una schiava al ritmo dei telai,
                appenderle dal plinto una matassa:
                e canta un canto dolce il gineceo.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz
                  Tra le sirene che Boecklin gittava
                  nel fremito dell'onde verdazzurre
                  una ne manca, appena adolescente,
                  agile più di tutte e la più bella.

                  Poiché non quella che supina ascolta
                  il Tritone soffiare nella conca,
                  non quella che si gode la bonaccia
                  con tre scherzosi albàtri affaticati,

                  e non quelle che fuggono al Centauro,
                  l'una presa alle chiome, l'altra emersa
                  con volto sorridente, l'altra immersa
                  col busto, eretta con le gambe snelle:

                  non tutte quelle vincono la grazia
                  appena adolescente che abbandona
                  il mare caro al grande basilese,
                  il mare Azzurro per il mare Grigio!

                  E al mare nostro più non resta viva
                  che l'immagine fatta di memoria,
                  svelta nel solco dove più ribolle
                  la spuma e dove l'onda è tutta gemme!
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                    Scritta da: Silvana Stremiz

                    Ad un'ignota

                    Tutto ignoro di te: nome, cognome,
                    l'occhio, il sorriso, la parola, il gesto;
                    e sapere non voglio, e non ho chiesto
                    il colore nemmen delle tue chiome.

                    Ma so che vivi nel silenzio; come
                    care ti sono le mie rime: questo
                    ti fa sorella nel mio sogno mesto,
                    o amica senza volto e senza nome.

                    Fuori del sogno fatto di rimpianto
                    forse non mai, non mai c'incontreremo,
                    forse non ti vedrò, non mi vedrai.

                    Ma più di quella che ci siede accanto
                    cara è l'amica che non mai vedremo;
                    supremo è il bene che non giunge mai!
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