Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)
Principio di primavera
Con il fiore ancora a terra
-oh rosso arboscello! -
mi tendeste, nel vento ancora freddo,
le braccia delicate.
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Con il fiore ancora a terra
-oh rosso arboscello! -
mi tendeste, nel vento ancora freddo,
le braccia delicate.
Quando le tue mani erano luna,
colsero dal giardino del cielo
i tuoi occhi, violette divine.
Che nostalgia, quando i tuoi occhi
ricordano, di notte, il loro cespo
alla luce morta delle tue mani!
Tutta la mia anima, col suo mondo,
metto nei miei occhi della terra,
per ammirarti, moglie splendida!
Non incontreranno le tue due violette
il leggiadro luogo a cui elevo
cogliendo nella mia anima l'increato?
Incontro di due mani
in cerca di stelle,
nella notte!
Con che pressione immensa
si sentono le purezze immortali!
Dolci, quelle due dimenticano
la loro ricerca senza sosta,
e incontrano, un istante,
nel loro circolo chiuso,
quel che cercavano da sole.
Rassegnazione d'amore,
tanto infinita come l'impossibile!
Le dicevano: - Bambina!
Che tu non lasci mai stesa,
dalla sera alla mattina,
ma porta dove l'hai presa,
la tovaglia bianca, appena
ch'è terminata la cena!
Bada, che vengono i morti!
I tristi, i pallidi morti!
Entrano, ansimano muti.
Ognuno è tanto mai stanco!
E si fermano seduti
la notte intorno a quel bianco.
Stanno lì sino al domani,
col capo tra le due mani,
senza che nulla si senta,
sotto la lampada spenta. -
È già grande la bambina:
la casa regge, e lavora:
fa il bucato e la cucina,
fa tutto al modo d'allora.
Pensa a tutto, ma non pensa
a sparecchiare la mensa.
Lascia che vengano i morti,
i buoni, i poveri morti.
Oh! la notte nera nera,
di vento, d'acqua, di neve,
lascia ch'entrino da sera,
col loro anelito lieve;
che alla mensa torno torno
riposino fino a giorno,
cercando fatti lontani
col capo tra le due mani.
Dalla sera alla mattina,
cercando cose lontane,
stanno fissi, a fronte china,
su qualche bricia di pane,
e volendo ricordare,
bevono lagrime amare.
Oh! non ricordano i morti,
i cari, i cari suoi morti!
- Pane, sì... pane si chiama,
che noi spezzammo concordi:
ricordate?... È tela, a dama:
ce n'era tanta: ricordi?...
Queste?... Queste sono due,
come le vostre e le tue,
due nostre lagrime amare
cadute nel ricordare! -.
Ricordi quand'eri saggina,
coi penduli grani che il vento
scoteva, come una manina
di bimbo il sonaglio d'argento?
Cadeva la brina; la pioggia
cadeva: passavano uccelli
gemendo: tu gracile e roggia
tinnivi coi cento ramelli.
Ed oggi non più come ieri
tu senti la pioggia e la brina,
ma sgrigioli come quand'eri
saggina.
Restavi negletta nei solchi
quand'ogni pannocchia fu colta:
te, colsero, quando i bifolchi
v'ararono ancora una volta.
Un vecchio ti prese, recise,
legò; ti privò della bella
semenza tua rossa; e ti mise
nell'angolo, ad essere ancella.
E in casa tu resti, in un canto,
negletta qui come laggiù;
ma niuno è di casa pur quanto
sei tu.
Se t'odia colui che la trama
distende negli alti solai,
l'arguta gallina pur t'ama,
cui porti la preda che fai.
E t'ama anche senza, ché ai costi
ti sbalza, ed i grani t'invola,
residui del tempo che fosti
saggina, nei campi già sola.
Ma più, gracilando t'aspetta
con ciò che in tua vasta rapina
le strascichi dalla già netta
cucina.
Tu lasci che t'odiino, lasci
che t'amino: muta, il tuo giorno,
nell'angolo, resti, coi fasci
di stecchi che attendono il forno.
Nell'angolo il giorno tu resti,
pensosa del canto del gallo;
se al bimbo tu già non ti presti,
che viene, e ti vuole cavallo.
Riporti, con lui che ti frena,
le paglie ch'hai tolte, e ben più;
e gioia or n'ha esso; ma pena
poi tu.
Sei l'umile ancella; ma reggi
la casa: tu sgridi a buon'ora,
mentre impaziente passeggi,
gl'ignavi che dormono ancora.
E quanto tu muovi dal canto,
la rondine è ancora nel nido;
e quando comincia il suo canto,
già ode per casa il tuo strido.
E l'alba il suo cielo rischiara,
ma prima lo spruzza e imperlina,
così come tu la tua cara
casina.
Sei l'umile ancella, ma regni
su l'umile casa pulita.
Minacci, rimproveri; insegni
ch'è bella, se pura, la vita.
Insegni, con l'acre tua cura
rodendo la pietra e la creta,
che sempre, per essere pura,
si logora l'anima lieta.
Insegni, tu sacra ad un rogo
non tardo, non bello, che più
di ciò che tu mondi, ti logori
tu!
Laggiù, nella notte, tra scosse
d'un lento sonaglio, uno scalpito
è fermo. Non anco son rosse
le cime dell'Alpi.
Nel cielo d'un languido azzurro,
le stelle si sbiancano appena:
si sente un confuso sussurro
nell'aria serena.
Chi passa per tacite strade?
Chi parla da tacite soglie?
Nessuno. È la guazza che cade
sopr'aride foglie.
Si parte, ch'è ora, né giorno,
sbarrando le vane pupille;
si parte tra un murmure intorno
di piccole stille.
In mezzo alle tenebre sole,
qualcuna riluce un minuto;
riflette il tuo Sole, o mio Sole;
poi cade: ha veduto.
O voi che, mentre i culmini Apuani
il sole cinge d'un vapor vermiglio,
e fa di contro splendere i lontani
vetri di Tiglio;
venite a questa fonte nuova, sulle
teste la brocca, netta come specchio,
equilibrando tremula, fanciulle
di Castelvecchio;
e nella strada che già s'ombra, il busso
picchia dè duri zoccoli, e la gonna
stiocca passando, e suona eterno il flusso
della Corsonna:
fanciulle, io sono l'acqua della Borra,
dove brusivo con un lieve rombo
sotto i castagni; ora convien che corra
chiusa nel piombo.
A voi, prigione dalle verdi alture,
pura di vena, vergine di fango,
scendo; a voi sgorgo facile: ma, pure
vergini, piango:
non come piange nel salir grondando
l'acqua tra l'aspro cigolìo del pozzo:
io solo mando tra il gorgoglio blando
qualche singhiozzo.
Oh! la mia vita di solinga polla
nel taciturno colle delle capre!
Udir soltanto foglia che si crolla,
cardo che s'apre,
vespa che ronza, e queruli richiami
del forasiepe! Il mio cantar sommesso
era tra i poggi ornati di ciclami
sempre lo stesso;
sempre sì dolce! E nelle estive notti,
più, se l'eterno mio lamento solo
s'accompagnava ai gemiti interrotti
dell'assiuolo,
più dolce, più! Ma date a me, ragazze
di Castelvecchio, date a me le nuove
del mondo bello: che si fa? Le guazze
cadono, o piove?
E per le selve ancora si tracoglie,
o fate appietto? Ed il metato fuma,
o già picchiate? Aspettano le foglie
molli la bruma,
o le crinelle empite nè frondai
in cui dall'Alpe è scesa qualche breve
frasca di faggio? Od è già l'Alpe ormai
bianca di neve?
Più nulla io vedo, io che vedea non molto
quando chiamavo, con il mio rumore
fresco, il fanciullo che cogliea nel folto
macole e more.
Col nepotino a me venìa la bianca
vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo
andare come vaccherella stanca
va col suo redo.
Nella deserta chiesa che rovina,
vive la bianca Matta dei Beghelli
più? Desta lei la sveglia mattutina
più, dè fringuelli?
Essa veniva al garrulo mio rivo
sempre garrendo dentro sé, la vecchia:
e io, garrendo ancora più, l'empivo
sempre la secchia.
Ah! che credevo d'essere sua cosa!
Con lei parlavo, ella parlava meco,
come una voce nella valle ombrosa
parla con l'eco.
Però singhiozzo ripensando a questa
che lasciai nella chiesa solitaria,
che avea due cose al mondo, e gliene resta
l'una, ch'è l'aria.
Domenica! Il dì che a mattina
sorride e sospira al tramonto!...
Che ha quella teglia in cucina?
Che brontola brontola brontola...
È fuori un frastuono di giuoco,
per casa è un sentore di spigo...
Che ha quella pentola al fuoco?
Che sfrigola sfrigola sfrigola...
E già la massaia ritorna
da messa;
così come trovasi adorna,
s'appressa:
la brage qua copre, là desta,
passando, frr, come in un volo,
spargendo un odore di festa,
di nuovo, di tela e giaggiolo.
La macchina è in punto; l'agnello
nel lungo schidione è già pronto;
la teglia è sul chiuso fornello,
che brontola brontola brontola...
Ed ecco la macchina parte
da sé, col suo trepido intrigo:
la pentola nera è da parte,
che sfrigola sfrigola sfrigola...
Ed ecco che scende, che sale,
che frulla,
che va con un dondolo eguale
di culla.
La legna scoppietta; ed un fioco
fragore all'orecchio risuona
di qualche invitato, che un poco
s'è fermo su l'uscio, e ragiona.
È l'ora, in cucina, che troppi
due sono, ed un solo non basta:
si cuoce, tra murmuri e scoppi,
la bionda matassa di pasta.
Qua, nella cucina, lo svolo
di piccole grida d'impero;
là, in sala, il ronzare, ormai solo,
d'un ospite molto ciarliero.
Avanti i suoi ciocchi, senz'ira
né pena,
la docile macchina gira
serena,
qual docile servo, una volta
ch'ha inteso, né altro bisogna:
lavora nel mentre che ascolta,
lavora nel mentre che sogna.
Va sempre, s'affretta, ch'è l'ora,
con una vertigine molle:
con qualche suo fremito incuora
la pentola grande che bolle.
È l'ora: s'affretta, né tace,
ché sgrida, rimprovera, accusa,
col suo ticchettìo pertinace,
la teglia che brontola chiusa.
Campana lontana si sente
sonare.
Un'altra con onde più lente,
più chiare,
risponde. Ed il piccolo schiavo
già stanco, girando bel bello,
già mormora, in tavola! In tavola!,
e dondola il suo campanello.
Presso il rudere un pezzente
cena tra le due fontane:
pane alterna egli col pane,
volti gli occhi all'occidente.
Fa un incanto nella mente:
carne è fatto, ecco, l'un pane.
Tra il gracchiare delle rane
sciala il mago sapiente.
Sorge e beve alle due fonti:
chiara beve acqua nell'una,
ma nell'altra un dolce vino.
Giace e guarda: sopra i monti
sparge il lume della luna;
getta l'arti al ciel turchino,
baldacchino
di mirabile lavoro,
ch'ei trapunta a stelle d'oro.
E l'acqua cade su la morta estate,
e l'acqua scroscia su le morte foglie;
e tutto è chiuso, e intorno le ventate
gettano l'acqua alle inverdite soglie;
e intorno i tuoni brontolano in aria;
se non qualcuno che rotola giù.
Apersi un poco la finestra: udii
rugliare in piena due torrenti e un fiume;
e mi parve d'udir due scoppiettìi
e di vedere un nereggiar di piume.
O rondinella spersa e solitaria,
per questo tempo come sei qui tu?
Oh! non è questo un temporale estivo
col giorno buio e con la rosea sera,
sera che par la sera dell'arrivo,
tenera e fresca come a primavera,
quando, trovati i vecchi nidi al tetto,
li salutava allegra la tribù.
Se n'è partita la tribù, da tanto!
Tanto, che forse pensano al ritorno,
tanto, che forse già provano il canto
che canteranno all'alba di quel giorno:
sognano l'alba di San Benedetto
nel lontano Baghirmi e nel Bornù.
E chiudo i vetri. Il freddo mi percuote,
l'acqua mi sferza, mi respinge il vento.
Non più gli scoppiettìi, ma le remote
voci dei fiumi, ma sgrondare io sento
sempre più l'acqua, rotolare il tuono,
il vento alzare ogni minuto più.
E fuori vedo due ombre, due voli,
due volastrucci nella sera mesta,
rimasti qui nel grigio autunno soli,
ch'aliano soli in mezzo alla tempesta:
rimasti addietro il giorno del frastuono,
delle grida d'amore e gioventù.
Son padre e madre. C'è sotto le gronde
un nido, in fila con quei nidi muti,
il lor nido che geme e che nasconde
sei rondinini non ancor pennuti.
Al primo nido già toccò sventura.
Fecero questo accanto a quel che fu.
Oh! tardi! Il nido ch'è due nidi al cuore,
ha fame in mezzo a tante cose morte;
e l'anno è morto, ed anche il giorno muore,
e il tuono muglia, e il vento urla più forte,
e l'acqua fruscia, ed è già notte oscura,
e quello ch'era non sarà mai più.