Poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Benvenuta, donna mia, benvenuta!

Benvenuta, donna mia, benvenuta!

Certo sei stanca
come potrò lavarti i piedi
non ho acqua di rose né catino d'argento

certo avrai sete
non ho una bevanda fresca da offrirti

certo avrai fame
e io non posso apparecchiare
una tavola con lino candido

la mia stanza è povera e prigioniera
come il nostro paese.

Benvenuta, donna mia, benvenuta!

Hai posato il piede nella mia cella
e il cemento è divenuto prato

hai riso
e rose hanno fiorito le sbarre

hai pianto
e perle son rotolate sulle mie palme

ricca come il mio cuore
cara come la libertà
è adesso questa prigione.

Benvenuta, donna mia, benvenuta!
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    I giorni son sempre più brevi

    I giorni son sempre più brevi
    le piogge cominceranno.
    La mia porta, spalancata, ti ha atteso.
    Perché hai tardato tanto?

    Sul mio tavolo, dei peperoni verdi, del sale, del pane.
    Il vino che avevo conservato nella brocca
    l'ho bevuto a metà, da solo, aspettando.
    Perché hai tardato tanto?

    Ma ecco sui rami, maturi, profondi
    dei frutti carichi di miele.
    Stavano per cadere senz'essere colti
    se tu avessi tardato ancora un poco.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Il mattino

      Ti svegli.
      Dove sei?
      A casa.
      Non hai potuto ancora abituarti:
      al tuo risveglio
      trovarti a casa.
      Ecco quel che ti lasciano
      tredici anni di carcere.

      Chi c'è nel letto, accanto a te?
      Non è la solitudine, è tua moglie.
      Dorme coi pugni chiusi, come un angelo.
      Le dona, essere incinta.
      Che ore sono?
      Le otto.
      Possiamo dunque star tranquilli
      fino a sera.
      È l'uso,
      la polizia non fa irruzione in pieno giorno.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Prima che bruci Parigi

        Finché ancora tempo, mio amore
        e prima che bruci Parigi
        finché ancora tempo, mio amore
        finché il mio cuore è sul suo ramo
        vorrei una notte di maggio
        una di queste notti
        sul lungosenna Voltaire
        baciarti sulla bocca
        e andando poi a Notre-Dame
        contempleremmo il suo rosone
        e a un tratto serrandoti a me
        di gioia paura stupore
        piangeresti silenziosamente
        e le stelle piangerebbero
        mischiate alla pioggia fine.

        Finché ancora tempo, mio amore
        e prima che bruci Parigi
        finché ancora tempo, mio amore
        finché il mio cuore è sul suo ramo
        in questa notte di maggio sul lungosenna
        sotto i salici, mia rosa, con te
        sotto i salici piangenti molli di pioggia
        ti direi due parole le più ripetute a Parigi
        le più ripetute, le più sincere
        scoppierei di felicità
        fischietterei una canzone
        e crederemmo negli uomini.

        In alto, le case di pietra
        senza incavi né gobbe
        appiccicate
        coi loro muri al chiar di luna
        e le loro finestre diritte che dormono in piedi
        e sulla riva di fronte il Louvre
        illuminato dai proiettori
        illuminato da noi due
        il nostro splendido palazzo
        di cristallo.

        Finché ancora tempo, mio amore
        e prima che bruci Parigi
        finché ancora tempo, mio amore
        finché il mio cuore è sul suo ramo
        in questa notte di maggio, lungo la Senna, nei depositi
        ci siederemmo sui barili rossi
        di fronte al fiume scuro nella notte
        per salutare la chiatta dalla cabina gialla che passa
        - verso il Belgio o verso l'Olanda? -
        davanti alla cabina una donna
        con un grembiule bianco
        sorride dolcemente.

        Finché ancora tempo, mio amore
        e prima che bruci Parigi
        finché ancora tempo, mio amore.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Della morte

          Entrate, amici miei, accomodatevi
          siate i benvenuti
          mi date molta gioia.
          Lo so, siete entrati per la finestra della mia cella
          mentre dormivo.
          Non avete rovesciato la brocca
          nè la scatola rossa delle medicine.
          I visi nella luce delle stelle
          state mano in mano al mio capezzale.

          Com'è strano
          vi credevo morti
          e siccome non credo nè in Dio nè all'aldilà
          mi rammaricavo di non aver potuto
          offrirvi ancora un pizzico di tabacco.

          Com'è strano
          vi credevo morti
          e voi siete venuti per la finestra della mia cella
          entrate, amici miei, sedetevi
          siate i benvenuti
          mi date molta gioia.

          Hascìm, figlio di Osmàn,
          perché mi guardi a quel modo?
          Hascìm figlio di Osmàn
          è strano
          non eri morto, fratello,
          a Istanbul, nel porto
          caricando il carbone su una nave straniera?
          Eri caduto col secchio in fondo alla stiva
          la gru ti ha tirato su
          e prima di andare a riposare
          definitivamente
          il tuo sangue rosso aveva lavato
          la tua testa nera.
          Chi sa quanto avevi sofferto.

          Non restate in piedi, sedetevi.
          Vi credevo morti.
          Siete entrati per la finestra della mia cella
          i visi nella luce delle stelle
          siate i benvenuti
          mi date molta gioia.

          Yakùp, del villaggio di Kayalar
          salve, caro compagno,
          non eri morto anche tu?
          Non eri andato nel cimitero senz'alberi
          lasciando ai tuoi bambini la malaria e la fame?
          Faceva terribilmente caldo, quel giorno
          e allora, non eri morto?

          E tu, Ahmet Gemìl, lo scrittore?
          Ho visto coi miei occhi
          la tua bara scendere nella fossa.
          Credo anche di ricordarmi
          che la tua bara fosse un po' corta per la tua statura.

          Lascia stare, Gemìl
          vedo che ce l'hai sempre, la vecchia abitudine
          ma è una bottiglia di medicina, non di rakì.
          Ne bevevi tanto
          per poter guadagnare cinquanta piastre al giorno
          e dimenticare il mondo nella tua solitudine.

          Vi credevo morti, amici miei
          state al mio capezzale la mano in mano
          sedete, amici miei, accomodatevi.
          Benvenuti, mi date molta gioia.

          La morte è giusta, dice un poeta persiano,
          ha la stessa maestà colpendo il povero e lo scià.
          Hascìm, perché ti stupisci?
          Non hai mai sentito parlare di uno scià
          morto in una stiva con un secchio di carbone?
          La morte è giusta, dice un poeta persiano.

          Yakùp
          mi piaci quando ridi, caro compagno
          non ti ho mai visto ridere così
          quando eri vivo ...
          Ma lasciatemi finire
          la morte è giusta dice un poeta persiano ...

          Lascia quella bottiglia, Ahmer Gemìl,
          non t'arrabbiare, so quel che vuol dire
          affinché la morte sia giusta
          bisogna che la vita sia giusta.

          Il poeta persiano ...
          Amici miei, perché mi lasciate solo?

          Dove andate?
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Nelle mie braccia tutta nuda

            Nelle mie braccia tutta nuda
            la città la sera e tu
            il tuo chiarore l'odore dei tuoi capelli
            si riflettono sul mio viso.

            Di chi è questo cuore che batte
            più forte delle voci e dell'ansito?
            È tuo è della città è della notte
            o forse è il mio cuore che batte forte?

            Dove finisce la notte
            dove comincia la città?
            Dove finisce la città dove cominci tu?
            Dove comincio e finisco io stesso?
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              La notte

              Una cotonata a quadretti blu copre il tavolo
              e sopra, senza menzogne, sorridenti, arditi
              stanno i nostri libri.
              Sono un prigioniero, madre mia,
              che ritorna al paese
              da una fortezza nemica.
              È l'una di notte
              la lampada è ancora accesa.
              Al mio fianco è coricata mia moglie
              mia moglie
              incinta di cinque mesi.
              Quando la mia carne tocca la sua
              quando le poso la mano sul ventre
              il bimbo si muove un poco.
              Sul ramo la foglia
              nell'acqua il pesce
              nella matrice il piccolo dell'uomo. Mio piccolo.
              La camiciola di lana rosa
              per il mio bambino
              l'ha sferruzata sua madre
              è grande come la mia mano
              con le maniche appena così.
              Mio piccolo.
              Se sarà femmina
              voglio che sia sua madre dalla testa ai piedi,
              s'è maschio, che sia della mia statura.
              S'è femmina, che abbia gli occhi verde dorato
              s'è maschio, azzurri.
              Mio piccolo.
              Non voglio che a vent'anni t'ammazzino
              se sei maschio, al fronte
              se sei femmina, dentro qualche rifugio, di notte.
              Mio piccolo.
              Femmina o maschio
              a qualsiasi età
              non voglio che tu conosca il carcere
              per essere stato dalla parte del giusto
              del bello, della pace.
              Ma so bene
              figlia mia
              o figlio mio
              che se il sole tarderà molto a sorgere
              dalle acque
              dovrai combattere e anche...
              Insomma oggi, da noi, è un ben duro mestiere
              essere padre.

              È l'una di notte.
              La lampada non l'abbiamo ancora spenta.
              Tra mezz'ora forse, forse verso il mattino
              la mia casa conoscerà
              ancora un'altra irruzione della polizia
              e mi porteranno via, prenderò con me qualche libro.
              I questurini della politica
              mi prenderanno in mezzo
              e io mi volterò indietro a guardare:
              mia moglie sarà sulla soglia
              davanti alla porta
              il vento del mattino
              gonfierà la sua gonna
              e nel suo ventre pesante
              il bambino si muoverà un poco.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Strontium 90

                Che strano tempo fa:
                ora la neve, ora il sole,
                ora la pioggia.

                Lo Strontium 90 si posa
                sull'erba,
                sulla carne,
                sulla segale.
                Sulla speranza
                e sulla libertà
                e sul grande sogno,
                alla cui porta bussiamo...

                Siamo in gara con noi stessi, o mia rosa,
                o noi porteremo la vita
                sulle stelle morte
                o la morte
                calerà sul nostro mondo.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  La petite promenade du poète

                  Me ne vado per le strade
                  strette oscure e misteriose
                  vedo dietro le vetrate
                  affacciarsi Gemme e Rose.
                  Dalle scale misteriose
                  c'è chi scende brancolando
                  dietro i vetri rilucenti
                  stan le ciane commentando.
                  ...
                  ...
                  La stradina è solitaria
                  non c'è un cane; qualche stella
                  nella notte sopra i tetti:
                  e la notte mi par bella.
                  E cammino poveretto
                  nella notte fantasiosa
                  pur mi sento nella bocca
                  la saliva disgustosa. Via dal tanfo
                  via dal tanfo e per le strade
                  e cammina e via cammina,
                  già le case son più rade.
                  Trovo l'erba: mi ci stendo
                  a conciarmi come un cane:
                  Da lontano un ubriaco
                  canta amore alle persiane.
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