Stasera ci incontriamo sull'ultimo soffio di maestrale. Ho misurato la forza dell'acqua sbattere sugli scogli senza rompersi. Si separano solo le gocce, in lacrime. Scendono sul volto delle spiagge che hanno salutato il sole e le assorbono tra i pori degli infiniti granelli. L'orizzonte è uno schema e l'ultima increspatura crea intersezione. È la superficie che raggiunge più facilmente l'abisso, gira in vortice, rimescolando conchiglie ed emozioni. La sera fa credito alla luna e ci rimette in freddo, inaspettato, e le braccia intorno alle mie spalle fanno isola. M'abbraccio come mi riesce meglio. Da sola. I fondali giocano con l'indifferenza e dei coralli non sento parlare già da un po'. Gli occhi tradiscono la mia immobilità, litigando tra ciglia e palpebre. L'atto è quello dello stringersi. Stringersi stretti, però, di quelle strette che non lasciano penetrare neppure l'aria. Ed è questa che manca. Spazi aperti più chiusi di serrature e chiavistelli. C'è una grande porta sulla riva. Se mi metto di taglio, ti vedo oltre alla prima onda, al civico delle risacche che hanno tentato di raggiungermi, ma che hanno trovato la maniglia abbassata. Se raccolgo una conchiglia e la metto tra orecchio e spalla, finirò per sentire la tua voce.
Ho dismesso gli abiti che non erano i miei. Guaine soffocanti che non lasciavano respirare più la pelle. L'anima in apnea. Inanello parole e agghindo gli umori, mentre faccio su e giù dal porticato, contando i ciottoli, schivando i rami bassi degli alberi. È tutta aria nuova quella che inalo; probabilmente, se mi fosse stata data la possibilità di scegliere, non avrei respirato questa. Ma non è cattiva. Cade giù dal cielo dopo la pioggia, bacia terra e si appropria dei miei polmoni. Ho ricordi seppelliti tra letture e immagini e quante volte ho catturato il mare negli occhi, tanto da farci navigare dentro le vele, gonfiandosi di brezze. Sono stata precipitosa nei tramonti, azzardata negli orizzonti e a segnare linee, mi sono ritrovata con le dita in aria, fatte penne di carne, e ho aggiustato le curve delle idee, smussato gli angoli dell'insicurezza e tra i gradini del coraggio ho trovato la dignità di arrampicarmi. Le foglie sono ferme, fisse sullo scenario dell'etere. Un arcobaleno nero che non distilla colori. Eppure, la prospettiva di toni diversi. Mezze tinte insopportabili. Gradazioni attenuate, tratti offuscati. Ombreggiature nei contorni a ridosso dell'indefinito. Indefinibile. Rischiara con l'azzurro e smorza d'arancio. Stempera mentre ammorbidisce.
Aspetto le cose che scappano e son diventata regina degli spiragli, a dialogare con i silenzi che fan posto a parole, sempre troppo poche e lasciate a metà, tra il "vorrei sentirmi dire" ed il "vorrei che mi dicessi". Sorseggio gli attimi e saltello sul ricordo della tua voce e nulla è dimenticato e tutto è nostalgico quando lambisce le ciglia, lasciando l'umido delle emozioni forti che ristagnano in tutti gli angoli delle leggerezze. Ti cercherò in un altro tempo, così futuro da fare impallidire qualsiasi presente e sarà sfida per i passati e questi stessi, insieme, non vorrei avessero epoca o memoria, ma lascerebbero sulle nostre mani il creato dello sconosciuto, l'impalpabile cielo che sconfina, le piogge mute che si inchinano con i loro aghi che esigono pelle ed il bagnato sui crinali dove sorgono i polmoni, quando i tuoi palmi in pretesa d'aria, trovandola sui seni, masticherebbero fiati. Averne sempre fame. Non diminuire la stretta. Solfeggio tra le labbra nei toni cadenzati, tra il blu ed il porpora e l'effettivo pervinca. Ci sei quando t'invoco così?
Mi lascio il sospeso come le corde che sento in gola prima d'un pianto a forza ricacciato indietro, come quando il sole ha voglia imperiosa d'affacciarsi e soffoca dietro la nuvola o le volte in cui le foglie restano attaccate, caparbie, ormai gialle e nonostante il vento e quando la riva è pronta ad asciugarsi, ma la risacca si spinge sempre un po' oltre al confine segnato dall'ultimo ritorno di spuma. Quando l'argento scurisce, ossidandosi e credo che anche i miei polmoni abbiano in sorte lo stesso svilimento dei respiri che finiscono per passare per condotti sempre più ostruiti dal calcare del nostalgico o dell'incompiuto in quella parte di notte dove il sonno rimane con gli occhi aperti dei bambini terrorizzati che hanno visto il brutto del giorno e se lo portano sotto al letto. Dormo su un mostro anche stanotte.
A fatica. Anche per accendere la luce di sera, sporgendomi oltre il buio, volgendo lo sguardo verso le serrande, intravedendo poche stelle ed una luna decisamente intermittente. Ha cassetti, il cielo e vi ripiego le stoffe della mia stanchezza insieme ai sacchettini di lavanda dell'attesa. Le mani non possono far altro che rimanerne impregnate e, col mio profumo, crearmi la pazienza. Passo sul divano ed iniziano le mie prove logiche che mi ingiungono di non prendermela con chi non c'è, che se le cose non esistono non puoi sentirne la mancanza, così, con la testa tra le mani e gli occhi a terra, il pavimento si apre nel vuoto di proiezione che ho dentro. E tentare di mettere giù un piede per accertarmi se davvero non si tocca e se oltre si estende l'abisso, se casa mia è diventata un orlo quando tutto mi sembra assenza di gravità e ciò che di umido mi sta lavando la faccia è baricentro di tutto questo. Ha cassetti chiusi, il cielo. Ha buttato fuori tutti i sogni, lasciando dentro me, che ogni tanto apro per prendere in prestito nuvole.
Ora, io mi soffermerei sui coriandoli e sui pezzi di vetro. Toglierei fuliggini per tutta casa. Ma non c'è casa. Stavolta, la viaggiatrice sono io e punto a mete di tutto rispetto, fino ad arrivare ai luoghi che meta non hanno. Salgo in soffitta se ho voglia di un po' di notte e scendo giù in cortile per far alba. Mi scrollo la sabbia di dosso se c'è stato deserto, ma poi m'accorgo che è piovuto forte e mi s'è incollata la rena sui vestiti, allora, penso che prima dev'essersi alzato il vento, ché tira sempre forte prima che si faccia pioggia o neve. Sì, dev'essere stato mentre scendevo le scale a perdifiato, pensandoti dietro alla porta con dei fiori in mano ed un sorriso per me. Mi sposto sul davanzale e, stavolta, c'è odore di mare e mi riprometto di lasciare le ante accostate prima d'andare a letto se domattina voglio che entrino i gabbiani; mi rimarranno le conchiglie tra i capelli e le reti dei pescatori tra i sogni dei miei non luoghi, mentre le braccia stringeranno l'equatore di ciò che è andato perduto. Stanotte, dormirò sull'uscio della porta. Avrei giurato d'averti sentito suonare, ma così non dev'esser stato. Io dormo lì.
Mi fa bene tornare alla semplicità dei pensieri. Spolvero le parole dal delirio ed incollo le mie mille essenze che erano rovinate sul pavimento dell'ossessione, cocci di vasi emozionali infinitamente sminuzzati ed io che fluivo senza argini, incontenibile, incontentabile. È il mio non stare, non esserci che fa da guida alle azioni, sospesa, statica, per quanto in movimento, traballante, incauta, per quanto ricerchi ausili di fortuna e stampelle coraggiose sulle quali far peso nell'andatura sbilenca di gambe troppo fragili per reggersi dritte e senza supporto alcuno. Mi fisso sulla mia schiena, rendendomi compagna di passeggiate. Mi sto dietro, a distanza di sicurezza, curiosa di scorgere le traiettorie che intraprenderò con questo mio incedere insicuro che farebbe accorrere chiunque a sorreggermi per evitarmi la caduta, ma di cadute non ne ho più, se conto tutte le volte che ho toccato terra e mi riservo di detenere, arrogandomi il paradossale diritto, di conoscere le massime teorie statistiche su quanto sia lecito ramazzare dato un angolo di strada che se lo svolti, subito dopo, trovi l'ostacolo e se tenti di rimetterti in piedi, capiti nella fossa; formule assai inesatte, lo so. Stamattina, nevica. Ho pensato ci sia un grande senso di giustizia nella - mia - natura.
Come quei film "particolari" vietati ai minori, io sono vietata ai minorati. Ma si sa, il proibizionismo non ha mai portato a nulla ed elicita gli effetti contrari.
Queste mie notti, sta di fatto, che non le regalerei a nessuno. Le notti dei pensieri che somigliano alle gocce che fanno traboccare i vasi, i vasi pieni di fiori che non mi piacciono, i fiori che seccano subito perché nessuno ha dato loro l'acqua per un tempo infinito, il tempo che mi redarguisce su quanto sia solita perderne, come quelle cose piccole che tieni dentro alle tasche bucate che non cuci mai; ed è lì che tengo ciò che non ha importanza, come anche ciò che è importantissimo, ma che è giusto non ne abbia.
Vengo giù come la pioggia sui vetri e le venature fanno solco sulle guance. Mi s'allaga casa e il cuore non ha branchie, chiuso com'è in boccia per pesci e, sopra, il muso d'un gatto curioso che sporge le vibrisse, ma senza toccar l'acqua. Io non li ho mica capiti i miei ingranaggi, le rotelle che girano vicine, in un senso e nell'altro, a incastrare i denti, sigillarsi come cerniere e saracinesche. Mi sento, spesso, come una via a tarda ora con le insegne spente e i lampioni che sembrano maggiordomi impettiti con il vassoio d'argento in testa, e stanno fermi in posizione militare proprio perché passo io che misuro i ciottoli del marciapiede e seguo con gli occhi la luna. E tanto mi basta. Mi basto. Trovare le parole tutte quante in testa senza cercarle, affollarmi e sfrattarmi di significati solo miei.