Avessi continuato con le parole, facendole uscire copiose a colmare i tuoi silenzi, aprendo dialoghi anche in tua assenza, sovrapponendoci le dita, sfogliando libri immaginari, accavallandoci le voci nella lettura delle emozioni, costruendo alberi dove appoggiare le schiene, avendo cura per le grandi fronde a proteggerci dal troppo sole, dipingendo aria intorno, mettendo fiori blu tra le pagine dei pensieri per non perdere il segno. Avessi continuato a leggerti nelle frasi spezzate e negli a capo veloci, eliminando i punti e regalandoti il fiato, ponendomi sotto accento e scendendoti con un apostrofo sul petto, dandomi il ritmo delle virgole sul saliscendi dei tuoi respiri, sollevando il lembo destro di pagina dodici e stropicciarlo per ricordare d'essere tornati su quel passo più e più volte che parlava di noi, inumidirlo, poi, con la saliva per girare pagina e ritrovarmi distesa sulle frasi, suggerirti una parola o due che non conoscevi di me. Avessi tu continuato a leggere me, avresti trovato i fiori blu e di tante parole ne avremmo detta una sola e sottovoce, come un segreto, come il "sempre" e il "mai", come il'più tardi, ancòra". Avessimo continuato a leggerci, avremmo scritto di noi.
M'interrogo al centro. Sono avanzate le risposte sulle domande mancanti. Le cerco negli incroci di sguardi e nei giochi di parole, forse, in un sogno o due, di quelli fatti alle prime luci di un'alba che germoglia sul davanzale per raggiungermi a letto. Un dormiveglia che protende ancora verso l'incoscienza. Ridestarsi sarà successione rapida d'illusioni e frammenti notturni, condensati, ché non sai mai quanto abbiano d'immaginato e di reale e un pizzico sul braccio non basta a distinguerli. Adesso, sono aurora e prima luce. La mano appena di traverso per evitare il sole. Scriverò parole sulla pelle, ma sapranno leggermi in pochi e mi sposteranno le ombre delle scapole pur di distendermi come fossi carta. Illeggibile. Non per tutti gli occhi. Sì, scriverò parole sulla pelle e ci sarà chi guarderà solo al centro, dove m'interrogo e a vederci il bianco, pretenderà d'inzupparci le dita come se sotto si nascondesse l'inchiostro nero e da sotto a sopra tracciare le mie superfici con le firme anonime. Poi, ci saranno i poeti. Uno c'è stato. L'ho conosciuto, una volta. Ha scritto e mi ha letta e le sue parole sono finite al centro, dove m'interrogo.
Raccolgo i pezzi a uno a uno, facendo innesto al coraggio. Custodirò segreti come fossero testimonianze vive di quel che sono stata. Non si saprà della mia pelle spaventata, né delle braccia in difesa, chiudersi forti a proteggere il cuore e i suoi filamenti. Si sentirà il mio verbo restato muto, con la lingua data in sacrificio in nome degli urli, in attesa di una eco redentrice che sia conversione. M'è sembrato di capire bellezza e destino, tutto a un tratto, del resto, improvvisamente, ho confuso le idee. Ho espiato crimini non commessi e l'ho fatta franca davanti ai reati che hanno tenuto in ostaggio l'ultima goccia di perdono, per me e gli altri e dagli altri a me, il passo è stato breve. Ci saranno giudizi che di universale non avranno nulla se non lo spazio ristretto degli occhi a calibrarsi gli sguardi e dirsi il rancore. Magari, dirsi l'amore. Forse, sorridersi tra le ciglia. Addirittura, ricongiungersi. E sarà non colpevolezza, ma mai innocenza piena, e sarà certezza d'una pena, ma mai assoluzione. Parlo così tanto con me stessa da essermi tribunale, cancelliere e galera. In attesa di libertà.
È cecità la tua figura che svanisce. Si staglia come il nulla all'orizzonte e il niente è il messaggio del cielo. Anche la pioggia non bagna quando la pelle si dismette come fosse abito roso, appuntato con spilli all'anima lisa. Intrappolo acqua tra i pugni serrati. Avrei giurato di non aver lasciato fessure. "L'han bevuta i palmi", mi son detta. A sorsi avidi. La mancanza va via di schiena e non inciampa. Si alza dal suolo e misura la distanza sul metro delle pupille che si restringono per mettere meglio a fuoco l'infinitamente piccolo che gioca sulla geometria del distacco. L'invisibile è sagoma definita sul cuore cavo. La polpa dei seni non sfiorati agonizza tra le vene a formar corde sotto pelle come fossero dita - le tue - ché mi vieni da dentro se non mi sei fuori, a un palmo dal respiro che mi spettina i capelli col fiato fin troppo vicino. Lontano. Raccoglimi l'ultima cicatrice, ché se mi stai distante, almeno, portati via i segni. L'intervallo della carne. L'assenza della voce. Io in esilio. Emigrata dal paese delle tue essenze, volo nell'aria immobile. Zefiro contaminato. Refoli ad agitar le ali sulle mie scapole e il brivido si dilegua in piume lungo la schiena, facendomi schianto fino al midollo. Una mancanza e cento bisogni. Multipli del desiderio. E nonostante, ci sei dai passi all'anima.
Inchiodo la vertigine ai precipizi. Gli orli sono punizioni anticipate del vacuo. La cadenza invernale sui frutti. Immaturi. Nel tocco senza eco di carne, il dissolversi. M'intrattengo con l'ombra dimenticata d'una presenza, rischiara e scurisce fino all'alba tra i raggi lunari, attraverso l'intelaiatura dei miei spiragli. Non ci sono preghiere in assenza di dei ed è per questo che non guardo più al cielo. Nel riflesso della mancanza anche i narcisi appassiscono in un'immagine non catturata, in resezione sul pelo d'acqua, in rifrazione di steli troppo magri per sostenere il capo. Negli abbracci divelti, gli arti fanno croce sul petto e continuare a chiederli all'inesistente è un'elemosina senza fine. Sulla tua voce che manca sono nemo impersonale. Tra i pini che piangono aghi, costeggio i sentieri introvabili delle città invisibili e manco io stessa a tracciare orma. Avrei seguìto le tue impronte. Dell'altra sabbia le ha coperte. Foto antiche di una me bambina in un granaio dove hanno appiccato incendio. Incido, ancòra adesso, vocali figlie su consonanti materne. E creo parola da dedicarti.
Non voglio spiegare l'inspiegabile, il pugno al centro dello stomaco o i buongiorno malati. Nella complessità di certi miei pensieri, uso logiche disarmanti, ma ci si ferma davanti alla verità. Si teme sempre, la verità. La possibilità soffoca. La probabilità agita. Quando s'imboccano mille direzioni, ma si tiene fissa la meta. Scendo in un abisso per volta, attraverso scale a pioli traballanti, i miei piedi ne sanno qualcosa, dell'incerto e del passo falso, della caduta e dell'andamento a tentoni. Non si guarisce dalle discese e si patiscono le cadute. Non ci si rassegna alla ripresa e rialzarsi è sfidare il centro della paura. Rialzarsi non è coraggio, ma accanimento. Regalerei sogni e dimenticherei la notte. Anche il sonno. È già successo. Succede. I giorni tardano a finire, ma il buio è sempre troppo denso. I paradossi del tempo sono archiviati in futuri retrospettivi, rendendomi conto che il passato poteva essere fin troppo prospettico. Il tutto mi abbonda tra le mani, presto non saranno più possibili nemmeno gli abbracci. Si morrà d'inconsistenza se privati degli abbracci. Tra le cose incompiute ci sei tu. L'essenziale e il superfluo si confondono appoggiati alla schiera dei bisogni e questi fanno parete senza sostegno in case incoscienti dove sorgono prima i tetti volanti e dopo le fondamenta. Ho ridotto anche il respiro e la riduzione è l'unica cosa che ancora possiedo.
Ne scriverò di pagine. Finirò tutte le mie lettere con l'inchiostro scadente, quello che si sbiadisce sulle vocali lunghe e tratteggia le consonanti. La china che ripassa più volte su se stessa per imprimersi sulla carta. Parole di ferita viva e stilografiche in punta di bisturi farmi operazione a cuore aperto, incidere sui significati crudi che perdono d'ogni gentilezza. L'ultimo referto dei malati terminali. E bandisco ogni poesia, inneggiando alla volgarità della pelle che si stacca, brandelli d'accenti che sbagliano i suoni del detto, apostrofi caduti sul taciuto, correzioni azzardate alle scorrettezze. I libri si staccano al centro e disperdono i fogli come le foglie. Stasi d'aria immobile dallo scirocco di moti assenti. Ho creduto all'onda che s'increspa, ma il mare crea fango sulle rive e i detriti si ammucchiano ai rimasugli della rena che mi scivola dai pugni che credevo stretti. Come il nulla che vedi quando perdi. Come il niente che si moltiplica per se stesso. Come chi dorme troppo per imitare la morte. I frantumi del cristallo sembrano urlare "basta". Frammenti di donna in mezzo.
Resterò a venti fermate e sibilerò un addio al fischiare del treno che riparte. In modo che non si senta. Anche il cielo ha trasfigurato il suo volto per farsi subito buio. È subito notte sui giorni tristi. Non s'è mai vista alba. Echi di parole andate che viaggiano sulle rotaie allineate, rimanendo sempre un passo indietro, per essere più facilmente investiti. Morti ammazzati sui binari d'una memoria di ferro che devia il percorso per ritrovarsi sempre allo stesso punto. Il cartello del tuo buongiorno a chilometri di distanza. Mi fisso sui contrasti del mondo che scorre. Velocità e vertigine come i pensieri nelle viscere. Contro-verso. In assenza di fiato. Questa partenza mi dà un comando violento. Mi sfratta. Me ne resto ferma per un po', alla stazione dei rientri e delle solitudini a guardare quelli che s'affaccendano a vivere per contrastare meglio l'inettitudine. Si muovono disordinatamente, ché fermarsi induce a pensare. I miei occhi sono specchi che riproducono riflessi di sguardi vicini. Chi è lontano non ha visione.
Preparo le mie parole con l'olio perché scivolino lente. Si separano le gole dove i significati diventano scomodi. Mi ammacco sulle comprensioni che mi ha dato il tempo e che mi conduce sempre dove non dovrebbe. Lontana da ieri, lontana da qui. Credo a poche cose, riassumibili in una manciata di profumi che passano sotto al naso o di immagini che catturano fugacemente l'attenzione e portano a far scattare la testa una seconda volta per accertarmi se quel che ho visto sia vero o frutto di ciò che vorrei fosse. Sei. Saresti stato. Sagome. Contorni senza contenuti. Questi giorni non appartengono agli anni e fuggono dalle stagioni, non tengono in conto i durante e io vorrei vivere dei mentre tra gli spazi, incuneata a malapena. Riflessi che nulla tolgono alle immagini, ma le fanno appartenere ancor più. La luce che vi passa in mezzo lo sa. L'ombra subisce. Gli occhi si sbriciolano e le mani anticipano i passi per scoprire l'ostacolo prima dell'inciampo. Mi vivo in prima persona, in una coniugazione errata e dalla declinazione imprecisa. A mutare è la radice. Anche le origini mi hanno tradita.
Perché mi chiedi del dolore? Lo sai. Non chiedere. Quando la tua terra trema e io mi ritrovo alle pendici delle tue urla. Quando, tra le crepe, mi vedo insinuata tra le fessure e muoio di siccità. Di tutte le volte che son rimasta spogliata, la volta che mi sono sentita più nuda è stato quando più non mi guardavi e i muri di casa sono diventati specchi a riflettermi la vergogna. Spogliarsi per nessuno e spogliata d'ogni cosa. Anche le ossa in vista. E gli organi. Ma le mie mani non sono le tue. E i vestiti in terra somigliano a una carcassa. Non chiedermi dell'ovvio, delle cose che già sai, delle risposte che ti sei dato, né di quelle che non mi dai quando sono io a chiederti. Le tue parole mi fanno gioco e smorzano le mie. Mi rimani nel tempo che va tra gli occhi che si aprono e che si chiudono. E quando non ci sei, l'attesa mi somiglia alla cinta troppo stretta in vita. Non voglio essere "quella dell'ultima volta", ma voglio appuntamenti a ogni stagione, anche quando la sensazione dell'esserci persi di vista sarà sabotata dal vederci casuale anche se casuale non è mai. Incontriamoci il ventuno d'ogni primavera e quando farà troppo caldo, andiamo al mare. Sarà un autunno da ricordare per tutto l'inverno. Sfuggiamoci per renderci indimenticabili. Io ti dimentico come chi non dimentica.